Il generale Ripper vive a Pyongyang?

drstrangelove060pyxurzCi sarebbero centinaia di motivi per i quali pensare che una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord sia impossibile dal verificarsi, eppure questi potrebbero non bastare. Le cronache internazionali recenti sono sempre più contraddistinte dalle notizie di esperimenti nucleari nordcoreani e dalle conseguenti reazioni statunitensi. La situazione di tensione tra i due paesi, di lunga durata ma finora latente, si è intensificata con la salita al potere di Kim Jong-un nel 2011 e recentemente con l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che pure si era detto disponibile a dialogare con il regime di Pyongyang. La presenza ai vertici di questi due paesi di personalità forti ed imprevedibili rende ancora più pericoloso il confronto.

Il dato preoccupante è che un conflitto tra Stati Uniti e Corea del Nord comporterebbe uno scontro dalla portata globale, una nuova guerra mondiale, con scenari imponderabili e mutevoli, e che potrebbe riproporre una contrapposizione a blocchi che credevamo di aver superato dopo la caduta del muro di Berlino: da una parte uno schieramento occidentale a guida Usa e dall’altra uno schieramento post-comunista, con la Cina e Russia, rivali degli Stati Uniti ma non certamente alleati di Pyongyang, che a vario titolo e grado potrebbero far parte della contesa. Senza dimenticare che una guerra mondiale al giorno d’oggi significherebbe una guerra nucleare, con conseguenze devastanti per l’intera umanità. L’incubo di un “generale Ripper”, il folle personaggio del film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick che per via delle sue paranoie causa l’apocalisse, torna a vivere. Può la logica della deterrenza, che ha funzionato durante la Guerra Fredda, funzionare anche ora?

Per rispondere a questo quesito bisognerebbe indagare sulla razionalità degli attori. In una situazione di distruzione mutua assicurata (in inglese mutual assured destruction, MAD), in cui tutte le parti posseggono armi nucleari e perciò finirebbero per annientarsi l’un l’altra, nessuno si sognerebbe di eseguire l’attacco. Questo clima ha caratterizzato il periodo detto di “equilibrio del terrore” durante la guerra fredda che ha fondamentalmente tenuto in piedi il mondo, seppur sul ciglio di un burrone. Stati Uniti ed Unione Sovietica erano potenze che non solo capivano e ricercavano la deterrenza, ma sapevano anche farla funzionare: numerose erano infatti le occasioni di dialogo per darsi regole e porre limiti. I due attori della Guerra Fredda erano perciò totalmente razionali.

Su Kim Jong-un le opinioni sono ancora discordanti. Le storie che lo riguardano, riportate sui media occidentali, non ne tratteggiano un personaggio ragionevole e coscienzioso. È tuttavia da confermare la veridicità di tali storie, le quali potrebbero invece essere state confezionate per alimentare un certo tipo di narrazione ad uso e consumo occidentale. Quel che di certo si sa riguardo a Kim Jong-un, è che si tratta di un leader risoluto e spietato, che ha concentrato e consolidato nelle sue mani un potere che prima non aveva. Potrebbe essere capace di tutto, ma esperti non ne negano la razionalità. Kim Jong-un non sarebbe dunque soltanto un pazzo. Di Trump invece che cosa potremmo dire? 

La politica di Trump nei riguardi della Corea del Nord è meno indulgente rispetto a quella di Obama, che invece puntava sulla “pazienza strategica“, ovvero l’attesa di una crisi interna al regime di Pyongyang che ne avesse sancito la fine. L’aggressività e l’escandescenza di Trump nei confronti della Corea del Nord e del suo leader, già manifestata prima ancora della sua elezione, potrebbe aver influito sul comportamento del regime che con l’acquisizione dell’arma nucleare non cercherebbe altro che un motivo di esistere di fronte alla comunità internazionale. 

Trump e Kim, i due ossi duri della politica mondiale, si ritrovano quasi per caso protagonisti di un gioco di brinkmanship dove a rischiare ancora una volta non sono solo le due parti in gioco, ma è il mondo intero, come nella Guerra Fredda. Una situazione che da apparentemente innocua e gestibile diviene incontrollabile, proprio come nel film di Kubrick. Speriamo solo non finisca allo stesso modo. 

 

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Periferie di tutto il mondo (unitevi?)

Se dalle elezioni presidenziali americane 2016 abbiamo imparato qualcosa questa è l’importanza fondamentale e decisiva del voto delle cosiddette “periferie“: cioè di quelle zone lontane dai grandi agglomerati urbani e perciò dai centri di potere politici ed economici. Quella America già definita “profonda”, rurale e tradizionalista, costituita da quella “maggioranza silenziosa” (già invocata da Nixon) che questa volta ha alzato la voce. L’illusione che a contare potesse essere solo l’America delle due coste, il volto “mainstream” di Hollywood e della finanza newyorkese, è durata tutta la lunga campagna elettorale e si è infranta in una sola notte nel giro di poche proiezioni, per il gran sgomento di cronisti e commentatori che nulla di tutto ciò avevano previsto (o che forse non volevano prevedere).

Il malessere e il risentimento contro la classe politica al potere covato nelle periferie sono stati facilmente catalizzati da movimenti di natura populistica, che con argomenti e atteggiamenti semplici (e semplicistici, spesso banalizzanti) hanno gioco facile nell’ottenimento del consenso. Un fenomeno dalla caratura internazionale e dalla diffusione ampia e trasversale nel mondo occidentale: l’elezione di Trump alla Casa Bianca non è che una ulteriore conferma dopo il voto sulla Brexit. E ora potrebbe toccare ad altri paesi europei con le elezioni nel 2017 in Francia, dove Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha grandi chances nella partita presidenziale, e in Germania, dove l’ascesa del partito populista e xenofobo AFD sta facendo tremare la solidità della cancelliera Angela Merkel.

Ma come si spiega questa rivolta internazionale delle periferie contro i governi al potere? Per lungo tempo ci siamo illusi che la prosperità promessa dall’economia globalizzata potesse favorire tutti in modo indistinto garantendo un innalzamento generalizzato del livello di benessere: dal finanziere di Wall Street all’allevatore del Wyoming, e anche più là nel mondo, fino agli abitanti degli slum di Nuova Delhi e delle favelas di Rio. A quanto pare non è andata così. La sfiducia verso la globalizzazione è la chiave per capire l’esito del voto americano e di quello britannico, e probabilmente anche di quelli a venire. In questi casi la reazione è stata cieca ed istintiva, frutto di un malcontento raccolto e cavalcato da campioni della demagogia.

In un’epoca in cui gli uomini politici si schierano o si arrendono alle logiche, spesso nefaste, della globalizzazione, chi promette di riprendere in mano le redini della situazione e di riportare la barra dritta ottiene facilmente il consenso, soprattutto in quegli strati di popolazione poco educata, anziana, e appartenente alla classe media impoverita che infatti sono stati decisivi per la vittoria di Trump. Con il paradossale risultato che araldi del neoliberismo e delle élite finanziarie mondiali si ritrovano a propugnare le cause del popolo. E la toppa, purtroppo, potrebbe essere peggio del buco.

Una analisi più approfondita del fenomeno, però, ci dirà che il decadimento della politica non è il problema, ma una conseguenza. Se la stessa classe politica non riuscirà a riparare lo scollamento che c’è tra il centro e le periferie socio-economiche, e a rimediare agli effetti negativi della globalizzazione, il populismo non potrà che avere terreno fertile, e sarà concepito come unica e adeguata risposta. Le crescenti disuguaglianze, la marginalizzazione di poveri e minoranze, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e del welfare state, il dilagare di corruzione e criminalità organizzata, l’inefficienza e la burocrazia delle strutture statali: sono questi i fattori che generano sfiducia nella gente e sono alla base del divario tra centro e periferia. Ricucire questo strappo deve essere l’obiettivo principale di una classe politica che non vuole perdere e non vuole perdersi. Qualsiasi soluzione all’insegna della continuità sarà destinata al fallimento e ad avere conseguenze ben peggiori di una sconfitta elettorale. Fintanto che questo non sarà fatto la rivolta delle periferie sarà da prendere come un chiaro avvertimento. E guai a dire che non ne sapevamo niente. 

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Tutto quello di cui non dovremmo spaventarci sulla Brexit

Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cosiddetto Brexit,  è finora la consultazione elettorale che sta facendo più paura all’Europa Unita. In passato già altri voti popolari hanno minacciato Bruxelles, ma mai come questo. Recentemente è toccato alle elezioni in Austria, che hanno visto il leader euroscettico dell’ultradestra Norbert Hofer mancare di un soffio la vittoria. Ma non solo, i referendum si può dire siano il vero spauracchio dell’Europa e del processo d’integrazione, portatori di grandi delusioni. Le più cocenti sono quelle dei due referendum che si sono tenuti in Francia e Paesi Bassi nel 2005, con il quale i due paesi fondatori dell’attuale Unione, hanno bocciato la Costituzione europea, un ulteriore e fondamentale step nel processo di integrazione.

Ma ci sono anche i referendum con i quali Svezia e Danimarca hanno rinunciato all’adozione dell’euro (nel 2000 e nel 2003) e quelli con il quale la Norvegia ha rifiutato per ben due volte di entrare nell’Europa Unita (1972 e 1994). Ce ne sono anche tanti altri finiti bene: la stessa Gran Bretagna nel 1975 con un referendum ha confermato la permanenza nell’allora Comunità Europea, ma stiamo parlando di un’altra epoca oppure di referendum che hanno riguardato paesi di minor rilievo, come quelli che si sono tenuti nei paesi dell’Est Europa prima del grande allargamento dei primi anni 2000 (vedi Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Baltici, ecc.).

Eppure questa volta le paure e le ansie su una eventuale Brexit sembrano piuttosto esagerate e forse anche immotivate, frutto più che altro di una avvelenata battaglia politica interna al Regno Unito, caratterizzata da manipolazioni e strumentalizzazioni (si veda il tema dell’invasione dei profughi o la polemica su quanto il paese conferisce in milioni ogni anno a Bruxelles), che non da un autentico confronto su tematiche europee. Inoltre, non si tiene sufficientemente conto del fatto che la Gran Bretagna è già ora un passo fuori dall’Unione anche se è dentro il mercato unico, potendo così contare sui benefici economici ma non essendo sottoposta a vari altri obblighi, tra cui quelli derivanti da Schengen, grazie a precise clausole di opt-out. E se anche il risultato delle urne decidesse per l’uscita a pieno titolo dall’UE, per Londra e Bruxelles sarebbe facile stipulare nuovi accordi con i quali intrattenere relazioni economiche più o meno intense, come già avviene con Norvegia, Svizzera o Turchia. In poche parole l’esito referendario potrebbe essere disconosciuto quasi immediatamente, proprio come avvenne esattamente un anno fa in Grecia con il referendum sull’approvazione del piano di aiuto europeo.

Vero è che, se da un lato le conseguenze economiche di una eventuale Brexit non sono di grande rilievo nell’immediato, né per la Gran Bretagna e né tantomeno per l’UE, ciò che può destare maggiore preoccupazione sono le conseguenze politiche, soprattutto per la Gran Bretagna. In caso di una vittoria del Leave, infatti, il regno di Elisabetta II vedrebbe certamente rinvigorirsi le spinte indipendentistiche della Scozia, in maggioranza favorevole al Remain. Con molta probabilità si vedrà anche un rafforzamento delle posizioni populistiche e nazionalistiche di partiti come l’Ukip di Nigel Farage e di tutta la galassia di partiti xenofobi e di estrema destra. Per quanto riguarda la politica estera, potrebbero verificarsi diversi attriti a livello strategico oltre che con i paesi più convintamente europei, anche con gli alleati di sempre e cioè gli americani: Barack Obama ha già espresso la sua posizione contraria e preoccupata rispetto alla Brexit.

Per l’UE le conseguenze politiche riguarderebbero il processo di integrazione europea e sarebbero comunque più incerte. Sintetizzando, si possono intravedere tre possibili scenari. Nel primo ci sarebbe una accelerazione verso la disgregazione, con altri paesi che a loro volta si appresterebbero a indire referendum sulla permanenza nell’UE. Uno scenario possibile, ma in verità poco probabile.  Al contrario, la Brexit potrebbe dare un nuovo slancio verso una maggiore integrazione europea in una situazione con meno veto players, come lo è la Gran Bretagna. Uno scenario magari auspicale, ma forse ancor meno probabile del primo. Nel terzo scenario si vedrebbe un perdurare dell’attuale situazione di stallo all’interno della UE ancora per diverso tempo: l’uscita della Gran Bretagna, da paese isolazionista già con un piede fuori non inciderebbe in maniera sostanziale su equilibri e dinamiche europee. E questo scenario è quello più probabile. 

Il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016 sarà sicuramente un avvenimento storico da ricordare, con il quale i britannici avranno deciso se rivendicare a gran voce il loro splendido isolazionismo o concedersi a tenui aperture ai vicini di casa europei. Ma se questo referendum deve decidere sul destino politico dell’Europa e dell’economia internazionale temo non ci riuscirà.

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Ambiente: la Cop21 di Parigi tra vecchie speranze e nuove illusioni

Il 30 novembre cominceranno a Parigi i lavori della Cop21, la Conferenza delle Parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) sottoscritta nel 1992. L’obiettivo è quello, rincorso da tempo ormai, di sostituire il vecchioProtocollo di Kyoto del 1997 (già scaduto e poi rinnovato) sulla riduzione delle emissioni climalteranti con un nuovo accordo internazionale più aggiornato e, possibilmente, più ambizioso. Le attese alla vigilia sono alte, come lo sono sempre state prima di ogni summit sull’ambiente, ma questa volta ci sono buone ragioni per essere ottimisti sul risultato finale. O almeno così pare.
In primo luogo, la Francia, che ospita il summit, punta molto al buon esito delle trattative. Il presidente francese Francois Hollande è intervenuto in prima persona invocando, durante il suo discorso alle Nazioni Unite di fine settembre, un maggiore impegno finanziario dei Paesi ad economia avanzata in favore dei Paesi del Sud del mondo nella sfida ai cambiamenti climatici. Una questione che rappresenta il vero nodo dei negoziati e che, verosimilmente, risulta essere il vero modo per contrastare l’emissione di gas climalteranti in tutto il pianeta. L’occasione, poi, di tenere un meeting sull’ambiente così importante a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, organismo internazionale ad avereuna delle politiche ambientali più rigorose al mondo, può essere un motivo di spinta ulteriore nei negoziati.
In secondo luogo ci sono gli impegni sul taglio di Co2 già presentati dai paesi partecipanti alla Cop21. Le parti, infatti, sono state chiamate a sottoscrivere in alcuni incontri preliminari il cosiddetto “Contributo determinato a livello nazionale” (Indc). GliStati Uniti, ad esempio, hanno promesso un taglio del 26-28% delle emissioni entro il 2025 e la Cina del 60-65% per unità di Pil (la cosiddetta carbon intensity). Proprio la Cinasembra aver dato finalmente una svolta al suo atteggiamento nei confronti della questione climatica, finora per niente presa in considerazione. Considerato anche il Brasile, si tratta di impegni tutto sommato importanti, e che segnano una netta inversione di tendenza rispetto al passato, ma che potrebbero non bastare per rientrare nella fatidica soglia dei due gradi di innalzamento della temperatura globale entro la fine del secolo, come notano alcuni esperti.
In definitiva, l’attenzione a livello globale per quanto riguarda la questione ambientale appare maggiore, dopo anni di relativa noncuranza. Perlomeno la quasi totalità dei leader mondiali riconosce l’importanza del tema e sembra intenzionato ad agire. Ma da qui ad impegnarsi concretamente per la riduzione dei gas serra ce ne passa. Il pericolo è quello, ancora una volta, di accontentarsi di impegni volontari e unilaterali come già avvenuto a Copenaghen nel 2009, in un altro di quei vertici sul clima considerato cruciale per le sorti del pianeta.
L’ambiente sarà pure nelle agende dei grandi governi, ma il vero problema è la mancanza di un’effettiva governance ambientale globale, vale a dire una reale integrazione internazionale su questi temi con istituzioni e meccanismi legittimi e riconosciuti. Questo è avvenuto, ad esempio, per quanto riguarda il commercio mondiale con la creazione delGATT prima, e l’istituzione del WTO poi. Come notato da Naomi Klein nel suo ultimo libro, il processo d’integrazione economica e commerciale globale è andato di pari passo con quello della sensibilizzazione verso le principali problematiche ambientali solo che il primo ha prodotto regole chiare, condivise e vincolanti, mentre il secondo ha lasciato alla volontarietà degli stati la scelta di quali e quanti impegni prendere. Finché non sarà applicato anche per l’ambiente un sistema simile, tutti i summit internazionali come quello di Parigi saranno la solita passerella per capi di stato e di governo per dimostrare quanto ci tengono al verde e alla sostenibilità. La Cop21 potrà essere pure un successo sul piano pratico degli obiettivi che era chiamata a centrare, ma non sarà certo la soluzione.
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Se serve un’immagine

La diffusione su tutti i media della foto del bimbo siriano morto durante un naufragio e restituito dalle onde su una spiaggia turca sta destando sdegno e sconcerto in tutto il mondo. Sta destando sdegno e sconcerto non solo perché con la sua crudezza rende vivido e palpabile il dramma dell’immigrazione anche a chi lo segue ogni giorno seduto dal divano casa propria, ma soprattutto perché intorno a questa foto si è scatenato un dibattito: se pubblicare o meno un’immagine così forte e terribile. Alcuni giornali hanno deciso di non pubblicarla, ma molti lo hanno fatto. Si è chiesto il rispetto per la morte, un freno ai facili sensazionalismi e se ne è denunciata la strumentalizzazione. Ma tra i pericoli maggiori di tutto questo tam-tam mediatico c’è soprattutto il fatto che, tra qualche giorno, ci saremo già dimenticati del piccolo Aylan e la nostra effimera indignazione “social” svanirà nello stesso modo in cui era sopraggiunta. 

Cosa cambia un’immagine? In fondo ogni giorno affogano migranti, e chissà quanti ce ne sono, negli abissi del mare, in attesa di divenire pasto per i pesci. Solo perché questa volta si tratta di un bambino dovremmo indignarci? Un bambino che assomiglia tanto ai nostri (non è nemmeno nero)? Che differenza fa, per esempio, da quei 49 migranti morti asfissiati nella stiva di un barcone lo scorso 15 agosto? O da quei 900 migranti morti perché si è ribaltato il peschereccio sul quale viaggiavano lo scorso 18 aprile? Solo perché non c’è una foto come quella di Aylan non meritano forse la nostra compassione? Una semplice foto, però, questa volta può contribuire a squarciare questo soffocante velo di ipocrisia

La foto di Aylan serve. La foto di Aylan non è facile sensazionalismo né strumentalizzazione. E la sua rapida diffusione lo dimostra. Una diffusione che è autentica e spontanea. Questa volta non stiamo parlando del piccolo John, il bimbo divenuto simbolo (nel bene e nel male) della campagna di Save the Children, icona del dolore che ci impietosisce all’ora di pranzo. Questa volta la pietà sale dal basso e sconvolge, forse per la sua naturalezza, in modo più incisivo le nostre coscienze. Non si sottovaluti il potere di un’immagine. Sono tanti gli esempi in cui una semplice foto ha cambiato il corso della storia. Si pensi a Kim Puch, la bambina di 9 anni che corre nuda in fuga da un bombardamento al napalm. La foto ha svelato gli orrori della guerra in Vietnam e ha contribuito al ritiro delle truppe Usa. Oppure si pensi alle foto degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Grazie ad esse sappiamo della Shoah ed ogni 27 gennaio celebriamo la giornata della Memoria. 

Purtroppo non si possono comprendere appieno le tragedie fin quando non le si vivono. La lontananza, sia in termini di spazio che di esperienze, contribuisce ad aumentare il distacco dalle situazioni reali. I nostri nonni che hanno vissuto sulla pelle il dramma dell’immigrazione perché costretti a emigrare loro stessi, difficilmente proveranno odio o anche solo indifferenza verso i nuovi migranti. E per noi che fortunatamente non sfuggiamo da povertà o guerre un’immagine può facilmente ricongiungerci alla realtà. Forse potrà non bastare. Non sono solo le nostre coscienze doversi smuovere, ma anche e soprattutto quelle dei governi che chiudono le frontiere e che rifiutano soluzioni condivise all’emergenza. Checché se ne dica la foto di Ayalan ha già fatto la storia. Non l’ha ancora cambiata però. 

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Tsipras è il pollo

chicken run james dean

E così dopo mesi di trattative estenuanti, di rinvii, e di accuse reciproche, la partita del debito greco si è infine conclusa con l’accordo su un nuovo doloroso piano di salvataggio. Ma la crisi è ancora lontana da una vera soluzione, anzi, se possibile le complicazioni adesso sono aumentate (tanto che persino il FMI ha duramente criticato l’accordo): l’austerità che ha messo in ginocchio la Grecia è ancora il paradigma dominante in Europa e la resa di Tsipras dinanzi la Troika ha riattizzato nazionalismi e populismi vari, spaccando ancor di più il paese e acuendo la crisi sociale.
Eppure il premier ellenico aveva in mano tutte le carte per portare a casa un risultato migliore. A cominciare dall’esito del referendum del 5 luglio sul precedente piano di salvataggio. Nonostante la vittoria del “No”, Tsipras ha pochi giorni dopo accettato un nuovo piano “lacrime e sangue” analogo a quello rigettato alle urne, sconfessando clamorosamente il mandato popolare. Con il risultato che una intelligente scelta tattica si è rivelata essere un pericoloso boomerang per il leader di Syriza che ora vede sempre più in bilico il suo incarico a capo dell’esecutivo.
Per quanto possa essere discutibile la validità di una convocazione referendaria su temi come fisco e prevenzione (chi mai voterebbe a favore di più tasse?), questa mossa aveva messo in risalto una questione di fondo ben più importante: ai popoli europei, che finora sono stati tenuti ai margini del processo d’integrazione, spetta più di ogni altro il diritto di esprimere la loro idea di Europa, idea che molto spesso, guarda caso, diverge da quella dei loro governanti. Senza considerare questo, il progetto d’integrazione non può andare lontano, e i risultati infatti si vedono.
Con il “No” del referendum, Tsipras aveva in mano un’ottima carta da giocarsi nei negoziati sia per strappare condizioni più favorevoli per il proprio paese, sia per imprimere un cambio di rotta nel processo d’integrazione, cosa, questa, molto più importante per le sorti dell’intera UE. Invece Tsipras ha mollato, lasciandosi spaventare troppo presto dal rischio di una “Grexit” brandita dai creditori più come una temibile minaccia che come una reale ipotesi. Diremmo che non ha avuto abbastanza fegato.
Per spiegare meglio quanto successo durante le trattative si può ricorrere alla “teoria dei giochi” e precisamente al “gioco del pollo” (Chicken game, tradotto in italiano anche come “gioco del coniglio”). Nel gioco, due sfidanti si lanciano simultaneamente con le loro auto verso un precipizio (ricordate la famosa scena di “Gioventù bruciata”?): il primo che sterza è il “pollo”. Se non lo farà nessuno, precipiteranno entrambi. Nel nostro caso gli sfidanti sono Grecia e Germania e il baratro verso cui andavano incontro era l’uscita della Grecia dall’euro, uno scenario dannoso per entrambe, non solo per gli ellenici. E Tsipras sembra aver fatto ben poco per evitare la figura del fifone. Prima ha scaricato il pilota più impavido, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (che la teoria dei giochi la conosce bene), poi ha impresso la frenata decisiva e la sfida si è conclusa così, con la Germania che ancora una volta impone la propria linea e riafferma le proprie convinzioni. Mentre nel baratro ci sta lentamente finendo l’Europa intera.
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L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»

Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.


Cosa rende particolare questo fenomeno? È da rubricare come l’ultima moda del momento o sotto c’è qualcosa di più profondo? Alla base c’è sicuramente la crisi economica degli ultimi anni caratterizzata da una notevole contrazione dei consumi. Questa difficoltà nella spesa, unita alla voglia di non rinunciare ad alcuni abitudini tipiche di una società del benessere (viaggi, hobby), hanno segnato il successo di questi servizi che consentono di non rinunciare ai nostri svaghi, ma al tempo stesso di risparmiare. È come se all’austerità della spesa pubblica, quella che viene dall’alto, che impone tagli e sacrifici, si sia contrapposta un’austerità dal basso, che ottimizza la spesa, abbatte lo spreco, e trova comunque il modo di concedersi dei passatempi. Ma non è stata solo la congiuntura economica ad aver contribuito alla nascita della sharing economy. Tutti i servizi di condivisione menzionati, e molti altri ancora, nascono e crescono sul web, e potrebbero essere visti come una nuova evoluzione dei Reti Sociali che dal virtuale portano le esperienze al reale.

La questione è ora capire se la sharing economy è solo una moda passeggera o è invece l’inizio di un vero e proprio cambiamento della società e del sistema economico. Se questa «austerità dal basso» può, ad esempio, essere riconducibile a quella auspicata da Enrico Berlinguer nel suo controverso discorso del 1977 quando sosteneva che l’austerità è uno strumento per rivoluzionare una società «i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». La sharing economy come fine della società consumistica? Una possibile interpretazione. Certamente, è alla base della sharing economy l’idea di consumo collaborativo: un consumo più intelligente e più consapevole, particolarmente attento a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane.

Ma prima di Berlinguer, chi già parlava di qualcosa più simile all’attuale sharing economy era Karl Polanyi, padre della moderna antropologia economica. Nel suo famoso testo «La grande trasformazione», uscito nel 1944, Polanyi muove una forte critica e intravede l’inevitabile fallimento della «società di mercato»: una società dominata dall’economia, dove tutto è guadagno, fondata sullo scambio mercantile. Il contrario della sharing economy, dove l’accento ultimo, almeno in teoria, non viene posto sull’arricchimento monetario, ma sull’arricchimento personale, quello espresso in termini di esperienze. È difficile, in verità, prevedere se la tesi di Polanyi possa trovare effettiva applicazione nella sharing economy, se questo fenomeno cioè possa concretarsi in un sostanziale cambiamento della società, o se invece si tratta solo di un modo di risparmiare in tempo di ristrettezze. Per il momento, sappiamo solo che grazie alla Rete e alle nuove tecnologie stanno cambiando innanzitutto le relazioni tra gli individui, e che se due perfetti sconosciuti vogliono dividersi le spese del viaggio da Roma a Milano e al tempo stesso fare due chiacchiere possono benissimo farlo, senza scomodare né Polanyi e né Berlinguer.

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Alexis Tsipras alla prova della Realpolitik

Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con la Realpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più  al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque:Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con laRealpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più  al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque: cosa cambierà in Europa con l’avvento di Tsipras al governo greco? Probabilmente nulla. O meglio, nulla che non stia già cambiando. E il quantitative easing lanciato dal presidente della BCE Mario Draghi, una misura in realtà “in gestazione” già da molto tempo, è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.

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“No, you can’t”: il sogno obamiano è giunto al capolinea

Non è insolito perdere le elezioni di midterm per il presidente americano in carica. Capita quasi sempre, e si contano solo poche eccezioni nella storia, come quelle di George W. Bush e Clinton. Non è nemmeno un dramma per la tenuta politica dell’esecutivo: sappiamo che la forma di governo statunitense, di tipo presidenziale, assicura sempre il completamento del mandato ma sappiamo anche che nonostante brutte batoste ai midterms, molti presidenti sono stati rieletti alle presidenziali di due anni dopo. E questo è successo anche ad Obama. Ma questa volta il significato delle elezioni di midterm era diverso. Non ci sono più elezioni presidenziali da vincere fra due anni; ci sarebbe invece un obiettivo ben più importante per Obama da centrare al termine del suo secondo mandato: quello di lasciare il suo segno, la sua eredità al popolo americano. Di realizzare quel cambiamento che aveva promesso.

La crisi di popolarità che attraversa il primo presidente afro-americano nella storia degli USA aveva già anticipato questa débâcle elettorale. Ciò indica che l’America è stanca di Obama, si è risvegliata dall’ubriacatura successiva alle elezioni che lo hanno portato alla vittoria nel 2008 e sta già guardando avanti, in una direzione che non per forza è quella repubblicana, anzi, molto probabilmente di nuovo democratica, vista la fortissima candidatura di Hillary Clinton, ma sicuramente una direzione  post-obamiana. Eppure Obama non ha governato male, tutt’altro: finora il suo operato si può dire sia stato più che soddisfacente. L’economia è tornata a riprendersi, la disoccupazione è calata, e qualche milione di americano in più può contare su una assicurazione medica grazie all’Obamacare. Per quanto riguarda gli esteri da quando c’è Obama non ci sono più invece Osama , Gheddafi e Ahmadinejad, anche se il mondo lì fuori non è molto più sicuro date le nuove minacce che incombono, vedi l’IS. Il problema è che “più che soddisfacente” per Obama non basta.

Obama ha deluso. Ha deluso forse perché erano troppo alte le aspettative nei suoi confronti. Parecchie, delle promesse che aveva fatto, non sono state mantenute. Guantanamo è ancora aperta, la rivoluzione della green economy non c’è stata, la riforma sull’immigrazione non è arrivata e le disuguaglianze in America sono ancora forti. Ed in questo modo un presidente non può lasciare il segno. Queste elezioni potevano essere cruciali per la svolta obamiana. Sgombrato il campo dalle preoccupazioni per una ri-elezione, vincendole il presidente avrebbe potuto utilizzare la maggioranza al Congresso per approvare delle vere e coraggiose riforme. Obama però è arrivato stanco e sfibrato a questo appuntamento, sotto il peso delle sue stesse promesse. Ora, con entrambi i rami del Congresso contro, sarà quasi impossibile per lui dimostrare di non essere esso stesso una grande promessa mancata, una grande illusione, una speranza spesa invano. No, Obama, you can’t. Not anymore. 

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La guerra in streaming dell’IS tra social network e sogni di califfato

La terribile guerra nel nome dell’Islam condotta dal neo ed autoproclamatosi Stato Islamico (IS) non è una guerra come tutte le altre. Quello di cui il gruppo terroristico fattosi Stato si sta rendendo protagonista è un nuovo modo di concepire le ostilità, un nuovo modo di diffondere la paura, un nuovo modo di parlare al mondo occidentale. E ciò non è dovuto alle efferate decapitazioni, alle crudeli crocifissioni o ai cruenti massacri degli infedeli. Questo genere di atrocità sono in realtà grosso modo perpetrate off-the-record dovunque vi sia la presenza di gruppi fondamentalisti, e cioè in parecchi posti nel mondo.

Ciò che caratterizza l’IS è invece la cura e l’attenzione con cui utilizzano i mass media, e soprattutto i social media, per amplificare il loro messaggio di guerra e di terrore. I mezzi di comunicazione sono diventati nelle loro mani una potentissima arma forse ancora più efficace delle abbondanti scorte di kalashnikov su cui possono fare affidamento.
Che il terrorismo si servisse del potere della comunicazione per raggiungere i proprio i scopi, era già un aspetto noto, quasi ovvio e scontato, dal momento che terrorismo implica diffusione, propagazione, contagio della paura nella mente dello spettatore. È dunque inevitabile che il terrorismo assuma una relazione quasi simbiotica con la comunicazione. Ricordiamo ancora troppo bene i videomessaggi di Osama Bin Laden, nei quali l’ex capo di Al Qaida lanciava anatemi contro l’Occidente. Ma quei monotoni clip a bassa risoluzione sono ora stati sostituiti da ben più cinematografici (genere horror/splatter) video in HD ad opera del califfato più virtuale che ci sia
La guerra in streaming dell’IS porta le atrocità e le barbarie dei tempi remoti verso nuove frontiere: il mix letale di jihad e social network spalanca le porte all’orrore che entra direttamente nella quotidianità delle nostre vite digitali, suggellando una macabra e perversa logica del “selfie col morto.” 
Ma aldilà dello shock e del turbamento,  quali sono le ragioni per cui l’IS ha deciso di manifestare on-line le sue nefandezze? Quali vantaggi può trarre da questa strategia? E, più generalmente, qual è la reale portata, non solo virtuale, ma anche geopolitica, di questo nuovo soggetto?
La svolta “social” del gruppo jihadista che opera tra Siria ed Iraq, e sogna di ristabilire un grande califfato per riunire sotto un’unica autorità tutti i musulmani, è arrivata per due motivi: uno è la natura assai giovane e ampiamente tecnologizzata del movimento di lotta islamica, l’altro è un fine assai pratico: la facilità di proselitismo che offre il web. Infatti, grazie a internet, l‘IS è riuscito ad arruolare tra le sue fila migliaia di combattenti provenienti dall’estero e soprattutto dall’Occidente, che si sono convertiti alla causa dell’Islam. È indubbio che l’ISIS abbia portato la guerra ad un altro livello. Ormai il campo di battaglia non è più solo quello reale, fatto di polvere e trincee, ma anche quello virtuale. L’IS ha sposato una logica di grassrooting grazie alla quale è riuscito a sviluppare un considerevole contingente di forze che opera su tastiera tramite Twitter, Facebook e Instagram, ottenendo, inoltre, un notevole numero di followers e una grande quantità di like. Grazie a questo approccio, essi sono già riusciti ad affermarsi sugli altri gruppi fondamentalisti islamici, meno avvezzi all’uso delle nuove tecnologie.

Tuttavia, l’ostentazione della violenza e dell’odio on-line sembra essere fatta più per impressionare che per dimostrare autentiche  forze in campo. L’IS ha ancora troppi nemici dal notevole peso specifico per poter realmente pensare di realizzare i proprio sogni di gloria. 
Prima di tutto c’è il nemico interno. L’ex ISIS è solo l’ultimo arrivato in una galassia di formazioni fondamentaliste in rivalità anche tra loro. Al Qaida, tramite il suo numero uno Al Zahawairi ha già sconfessato il movimento di Al Baghdadi, definendolo troppo estremista e radicale. Secondo, c’è un attore molto importante nell’area che spesso non viene ricordato e che non è da non sottovalutare: l’Iran. Lo Stato sciita si trova alle porte di casa un nemico pericolosissimo che odia tanto i miscredenti occidentali quanto i “traditori” della vera fede islamica. E perciò non è da escludere un più ampio impegno dell’Iran in questo teatro di guerra, anche in cooperazione con Paesi con i quali non intrattiene felici rapporti come, per esempio, l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita è un altro attore fondamentale nel palcoscenico mediorentale, preoccupato come altri dell’ascesa dell’IS. L’estremismo e il populismo di quest’ultimo sono motivi di agitazione per la monarchia di casa Saud che teme di vedersi spazzata via da un ondata di Islam dal basso. Poi c’è la Turchia, che si ritrova ad essere la vittima di un effetto boomerang scatenato da una politica estera a sostegno delle opposizioni ad Assad, ISIS compreso, e che ora vede lo Stato Islamico una minaccia che bussa alla porta di casa, prova ne è la cattura di 49 turchi tenuti come ostaggi dalle milizie di Al Baghdadi. Finora la Turchia non ha fatto molto per impedire l’espansione dell’IS, ma è arrivato il momento che si rendi anch’essa un attore attivo nella lotta contro il terrorismo islamico: la Turchia è un paese troppo importante nella zona per poterne fare a meno. Più defilato, invece, Israele, che non vuole gettarsi nella mischia di guerra che, per il momento, non pone troppe minacce alla sicurezza dello Stato ebraico.
Infine l’Occidente. Esso non è un last but not least. Se sono stati elencati prima gli attori regionali è proprio perché essi possono avere un ruolo maggiore nella risoluzione della crisi mediorientale piuttosto che il mondo occidentale. La linea in politica estera di Obama è chiaramente quella di smarcarsi dai più cruenti e complicati teatri di guerra nel mondo, anche se gli USA non possono drasticamente dismettere i panni di gendarme del mondo, soprattutto quando vengono direttamente tirati in ballo dai terroristi (che decapitano suoi cittadini o che dichiarano di “alzare la bandiera di Allah sulla Casa Bianca”). Resta il fatto che le bombe sganciate dall’alto, sebbene utili a distruggere i punti logistici dei fondamentalisti, non riusciranno mai a dare stabilità alla zona, e in questo sono indispensabili gli attori regionali.
Date le circostanze, quindi, spargere sangue on-line difficilmente permetterà a all’IS di stabilire il califfato islamico, ma se non altro avrà contribuito ad una nuova evoluzione della guerra, che integra in modo professionale l’aspetto della comunicazione web, e che coniuga perfettamente lo sfizio dell’apparire della società moderna con il fine pratico dell’arruolare della guerra come è sempre stata. 

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