Periferie di tutto il mondo (unitevi?)

Se dalle elezioni presidenziali americane 2016 abbiamo imparato qualcosa questa è l’importanza fondamentale e decisiva del voto delle cosiddette “periferie“: cioè di quelle zone lontane dai grandi agglomerati urbani e perciò dai centri di potere politici ed economici. Quella America già definita “profonda”, rurale e tradizionalista, costituita da quella “maggioranza silenziosa” (già invocata da Nixon) che questa volta ha alzato la voce. L’illusione che a contare potesse essere solo l’America delle due coste, il volto “mainstream” di Hollywood e della finanza newyorkese, è durata tutta la lunga campagna elettorale e si è infranta in una sola notte nel giro di poche proiezioni, per il gran sgomento di cronisti e commentatori che nulla di tutto ciò avevano previsto (o che forse non volevano prevedere).

Il malessere e il risentimento contro la classe politica al potere covato nelle periferie sono stati facilmente catalizzati da movimenti di natura populistica, che con argomenti e atteggiamenti semplici (e semplicistici, spesso banalizzanti) hanno gioco facile nell’ottenimento del consenso. Un fenomeno dalla caratura internazionale e dalla diffusione ampia e trasversale nel mondo occidentale: l’elezione di Trump alla Casa Bianca non è che una ulteriore conferma dopo il voto sulla Brexit. E ora potrebbe toccare ad altri paesi europei con le elezioni nel 2017 in Francia, dove Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha grandi chances nella partita presidenziale, e in Germania, dove l’ascesa del partito populista e xenofobo AFD sta facendo tremare la solidità della cancelliera Angela Merkel.

Ma come si spiega questa rivolta internazionale delle periferie contro i governi al potere? Per lungo tempo ci siamo illusi che la prosperità promessa dall’economia globalizzata potesse favorire tutti in modo indistinto garantendo un innalzamento generalizzato del livello di benessere: dal finanziere di Wall Street all’allevatore del Wyoming, e anche più là nel mondo, fino agli abitanti degli slum di Nuova Delhi e delle favelas di Rio. A quanto pare non è andata così. La sfiducia verso la globalizzazione è la chiave per capire l’esito del voto americano e di quello britannico, e probabilmente anche di quelli a venire. In questi casi la reazione è stata cieca ed istintiva, frutto di un malcontento raccolto e cavalcato da campioni della demagogia.

In un’epoca in cui gli uomini politici si schierano o si arrendono alle logiche, spesso nefaste, della globalizzazione, chi promette di riprendere in mano le redini della situazione e di riportare la barra dritta ottiene facilmente il consenso, soprattutto in quegli strati di popolazione poco educata, anziana, e appartenente alla classe media impoverita che infatti sono stati decisivi per la vittoria di Trump. Con il paradossale risultato che araldi del neoliberismo e delle élite finanziarie mondiali si ritrovano a propugnare le cause del popolo. E la toppa, purtroppo, potrebbe essere peggio del buco.

Una analisi più approfondita del fenomeno, però, ci dirà che il decadimento della politica non è il problema, ma una conseguenza. Se la stessa classe politica non riuscirà a riparare lo scollamento che c’è tra il centro e le periferie socio-economiche, e a rimediare agli effetti negativi della globalizzazione, il populismo non potrà che avere terreno fertile, e sarà concepito come unica e adeguata risposta. Le crescenti disuguaglianze, la marginalizzazione di poveri e minoranze, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e del welfare state, il dilagare di corruzione e criminalità organizzata, l’inefficienza e la burocrazia delle strutture statali: sono questi i fattori che generano sfiducia nella gente e sono alla base del divario tra centro e periferia. Ricucire questo strappo deve essere l’obiettivo principale di una classe politica che non vuole perdere e non vuole perdersi. Qualsiasi soluzione all’insegna della continuità sarà destinata al fallimento e ad avere conseguenze ben peggiori di una sconfitta elettorale. Fintanto che questo non sarà fatto la rivolta delle periferie sarà da prendere come un chiaro avvertimento. E guai a dire che non ne sapevamo niente. 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

I fatti di Goro e quello che siamo

barricate gorino-2Partiamo dal presupposto che nessun sano di mente si sognerebbe mai di alzare le barricate per negare l’accoglienza a 12 donne, di cui una incinta, che fuggono da guerra e miseria. Eppure questo è successo. Tutti ci siamo sforzati a dare un significato alla vicenda di Goro, dividendoci tra chi ha difeso la ribellione dei residenti definendola una “nuova Resistenza” e chi invece l’ha considerata vergognosa, e non degna di rappresentare il paese. Di cosa si tratta quindi? Di zoticoni razzisti manipolati da parti politiche o di cittadini esasperati in lotta contro le istituzioni? Proviamo a scomporre l’intero caso per identificarne i singoli elementi.

I cittadini protagonisti della rivolta sono quasi tutti vongolari e pescatori di Gorino, un frazione di Goro di 400 anime dove i cellulari non prendono, Internet non arriva e praticamente non ci sono luoghi di aggregazione. Un luogo ai margini, dimenticato da Dio verrebbe da dire. Una comunità isolata costituita fondamentalmente da una fascia sociale a basso livello di istruzione e scarso grado di apertura. Una situazione che probabilmente non aiuta ad empatizzare con chi si trova in difficoltà. Questo, chiaramente, non è una colpa, ma  al contrario è indice di grande vulnerabilità: in un tale contesto trovano terreno fertile xenofobia e intolleranza.

Di conseguenza, l’attività di formazioni estremiste e xenofobe che sfruttano tale situazione catalizzando il malcontento gioca un ruolo rilevante. D’altronde, la zona rientra nel raggio d’azione della Lega Nord, che già da tempo stava organizzando la protesta, e la continua opera di disinformazione sempre condotta da organi schierati politicamente ha sicuramente fomentato odio e rancore.

D’altro canto, la popolazione che ha alzato la voce contro i migranti è anche espressione di quella classe media impoverita a causa dell’interminabile crisi economica. Una categoria socio-economica che credeva di aver raggiunto un livello di sicurezza inalienabile e che ora invece si ritrova a rischio povertà. Il territorio di Goro e del delta del Po è infatti colpito da una crisi economica ed ambientale di grave portata, tuttora al di fuori delle cronache nazionali. Inserendo l’accaduto in questo preoccupante contesto, la protesta assume senz’altro un diverso significato.

Inoltre, la protesta è anche frutto dell’esasperazione per il modo in cui i residenti sono stati trattati dalle istituzioni nella gestione della vicenda. Una vicenda che indica anche il totale dilettantismo con il quale la procedura di accoglienza viene gestita a livello nazionale. Portare dei profughi in un posto che non ne aveva mai visti prima con una ordinanza immediata di requisizione dell’unico ostello presente in città non è stato certo un colpo di genio. Se in questo posto isolato l’unica presenza delle istituzioni si manifesta in situazioni come questa, la reazione della popolazione residente non può che essere di segno negativo. Fermo restando che si è evidentemente ceduto in eccessi, per via delle motivazioni succitate.

Proprio quest’ultimo punto può essere cruciale per interpretare l’intero caso: la spiegazione va fondamentalmente ricercata nella rottura del nesso fiduciario tra cittadini ed istituzioni, aggravata dalla pesante crisi economica. In una situazione diversa, di sintonia con la classe politica al comando, e di sicurezza e stabilità economica, sollevazioni del genere, veicolate dal solo fattore identitario e dall’esigenza di maggiore sicurezza, difficilmente si sarebbero viste. Sembrerebbe una conclusione troppo semplice, ma proprio per questa sua natura spesso si tende ad ignorarla.

Tornando alla domanda di partenza: cosa siamo, quindi? Siamo ignoranti razzisti o cittadini arrabbiati? Siamo il risultato di questa miscela di fattori che si alimentano a vicenda. La povertà, l’emarginazione sociale, l’arretratezza culturale e l’influenza di movimenti xenofobi tendono a generare dei mostri. Questa volta si è trattato di un eccesso, anche se nessuno può ancora dirci se si tratterà dell’unico caso di eccesso.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Tsipras è il pollo

chicken run james dean

E così dopo mesi di trattative estenuanti, di rinvii, e di accuse reciproche, la partita del debito greco si è infine conclusa con l’accordo su un nuovo doloroso piano di salvataggio. Ma la crisi è ancora lontana da una vera soluzione, anzi, se possibile le complicazioni adesso sono aumentate (tanto che persino il FMI ha duramente criticato l’accordo): l’austerità che ha messo in ginocchio la Grecia è ancora il paradigma dominante in Europa e la resa di Tsipras dinanzi la Troika ha riattizzato nazionalismi e populismi vari, spaccando ancor di più il paese e acuendo la crisi sociale.
Eppure il premier ellenico aveva in mano tutte le carte per portare a casa un risultato migliore. A cominciare dall’esito del referendum del 5 luglio sul precedente piano di salvataggio. Nonostante la vittoria del “No”, Tsipras ha pochi giorni dopo accettato un nuovo piano “lacrime e sangue” analogo a quello rigettato alle urne, sconfessando clamorosamente il mandato popolare. Con il risultato che una intelligente scelta tattica si è rivelata essere un pericoloso boomerang per il leader di Syriza che ora vede sempre più in bilico il suo incarico a capo dell’esecutivo.
Per quanto possa essere discutibile la validità di una convocazione referendaria su temi come fisco e prevenzione (chi mai voterebbe a favore di più tasse?), questa mossa aveva messo in risalto una questione di fondo ben più importante: ai popoli europei, che finora sono stati tenuti ai margini del processo d’integrazione, spetta più di ogni altro il diritto di esprimere la loro idea di Europa, idea che molto spesso, guarda caso, diverge da quella dei loro governanti. Senza considerare questo, il progetto d’integrazione non può andare lontano, e i risultati infatti si vedono.
Con il “No” del referendum, Tsipras aveva in mano un’ottima carta da giocarsi nei negoziati sia per strappare condizioni più favorevoli per il proprio paese, sia per imprimere un cambio di rotta nel processo d’integrazione, cosa, questa, molto più importante per le sorti dell’intera UE. Invece Tsipras ha mollato, lasciandosi spaventare troppo presto dal rischio di una “Grexit” brandita dai creditori più come una temibile minaccia che come una reale ipotesi. Diremmo che non ha avuto abbastanza fegato.
Per spiegare meglio quanto successo durante le trattative si può ricorrere alla “teoria dei giochi” e precisamente al “gioco del pollo” (Chicken game, tradotto in italiano anche come “gioco del coniglio”). Nel gioco, due sfidanti si lanciano simultaneamente con le loro auto verso un precipizio (ricordate la famosa scena di “Gioventù bruciata”?): il primo che sterza è il “pollo”. Se non lo farà nessuno, precipiteranno entrambi. Nel nostro caso gli sfidanti sono Grecia e Germania e il baratro verso cui andavano incontro era l’uscita della Grecia dall’euro, uno scenario dannoso per entrambe, non solo per gli ellenici. E Tsipras sembra aver fatto ben poco per evitare la figura del fifone. Prima ha scaricato il pilota più impavido, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (che la teoria dei giochi la conosce bene), poi ha impresso la frenata decisiva e la sfida si è conclusa così, con la Germania che ancora una volta impone la propria linea e riafferma le proprie convinzioni. Mentre nel baratro ci sta lentamente finendo l’Europa intera.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»

Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.


Cosa rende particolare questo fenomeno? È da rubricare come l’ultima moda del momento o sotto c’è qualcosa di più profondo? Alla base c’è sicuramente la crisi economica degli ultimi anni caratterizzata da una notevole contrazione dei consumi. Questa difficoltà nella spesa, unita alla voglia di non rinunciare ad alcuni abitudini tipiche di una società del benessere (viaggi, hobby), hanno segnato il successo di questi servizi che consentono di non rinunciare ai nostri svaghi, ma al tempo stesso di risparmiare. È come se all’austerità della spesa pubblica, quella che viene dall’alto, che impone tagli e sacrifici, si sia contrapposta un’austerità dal basso, che ottimizza la spesa, abbatte lo spreco, e trova comunque il modo di concedersi dei passatempi. Ma non è stata solo la congiuntura economica ad aver contribuito alla nascita della sharing economy. Tutti i servizi di condivisione menzionati, e molti altri ancora, nascono e crescono sul web, e potrebbero essere visti come una nuova evoluzione dei Reti Sociali che dal virtuale portano le esperienze al reale.

La questione è ora capire se la sharing economy è solo una moda passeggera o è invece l’inizio di un vero e proprio cambiamento della società e del sistema economico. Se questa «austerità dal basso» può, ad esempio, essere riconducibile a quella auspicata da Enrico Berlinguer nel suo controverso discorso del 1977 quando sosteneva che l’austerità è uno strumento per rivoluzionare una società «i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». La sharing economy come fine della società consumistica? Una possibile interpretazione. Certamente, è alla base della sharing economy l’idea di consumo collaborativo: un consumo più intelligente e più consapevole, particolarmente attento a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane.

Ma prima di Berlinguer, chi già parlava di qualcosa più simile all’attuale sharing economy era Karl Polanyi, padre della moderna antropologia economica. Nel suo famoso testo «La grande trasformazione», uscito nel 1944, Polanyi muove una forte critica e intravede l’inevitabile fallimento della «società di mercato»: una società dominata dall’economia, dove tutto è guadagno, fondata sullo scambio mercantile. Il contrario della sharing economy, dove l’accento ultimo, almeno in teoria, non viene posto sull’arricchimento monetario, ma sull’arricchimento personale, quello espresso in termini di esperienze. È difficile, in verità, prevedere se la tesi di Polanyi possa trovare effettiva applicazione nella sharing economy, se questo fenomeno cioè possa concretarsi in un sostanziale cambiamento della società, o se invece si tratta solo di un modo di risparmiare in tempo di ristrettezze. Per il momento, sappiamo solo che grazie alla Rete e alle nuove tecnologie stanno cambiando innanzitutto le relazioni tra gli individui, e che se due perfetti sconosciuti vogliono dividersi le spese del viaggio da Roma a Milano e al tempo stesso fare due chiacchiere possono benissimo farlo, senza scomodare né Polanyi e né Berlinguer.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail