La straordinaria e improvvisa fine della Padania

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C’è un fatto nella politica italiana che è passato in secondo piano nel trambusto generale di questa lunga ed estenuante campagna elettorale. Si tratta della fine del “sogno padano”, di quella indomita e ossessiva voglia di indipendentismo del Nord Italia, ricco e produttivo, da un Sud pigro e arretrato. Questo chiaramente secondo la versione degli ex indipendentisti. Con la scomparsa della dicitura “Nord” dal nome della attuale Lega si è messa fine a questa rivendicazione durata più di venti anni e capace di costituire un partito di grande consenso e successo, tuttora il più longevo della scena politica italiana.

Ora il programma politico della Lega è passato dall’indipendentismo del Nord (o autonomismo nella più moderata delle ipotesi) al nazionalismo e al sovranismo (la nuova parola d’ordine della politica) dell’intera Repubblica italiana. È comprensibilmente un netto cambiamento per una delle più importanti forze politiche in Italia, già avviato da tempo, ma che ora si conferma in tutta la sua verità. Inspiegabilmente, però, a tale evento non sembra essere stata riservata la giusta attenzione, quasi fosse un processo prevedibile e atteso, oppure perché ha vinto la distrazione generata da altri avvenimenti, ritenuti più importanti, probabilmente in seguito ad un difetto di valutazione.

Due sono le implicazioni, di una certa rilevanza, di questa trasformazione della Lega. La prima è la scomparsa di un forte movimento indipendentistico nel nostro paese. Un movimento che, paradossalmente, si era fatto forte su una idea debole. L’indipendentismo della Padania, regione inventata dalla politica e non costruita dalla storia, era riuscito ad affermarsi rispetto ad altre istanze  territoriali di questa natura molto più autentiche e legittime, quali quelle della Sardegna e della Sicilia, ma anche del vecchio Regno delle Due Sicilie. Esse, infatti, potrebbero contare su un patrimonio storico e culturale reale e su confini geografici certi. Evidentemente la carenza di queste caratteristiche è stata fondamentale per la fine del progetto politico della Padania. Una notizia senza dubbio positiva, dal momento che le istanze autonomiste rappresentano per il nostro paese un serio pericolo, essendo il nostro uno Stato ancora giovane e piuttosto fragile, già soggetto a numerosi problemi di grave entità quali criminalità organizzata e terrorismo interno. La fine dell’indipendentismo settentrionale italiano sarebbe poi una notevole eccezione nel panorama europeo, dove le spinte secessionistiche sono più forti che mai (si veda il caso della Catalogna) e rischiano di mettere in crisi gli Stati nazionali, entità che si credeva solide ed inscalfibili.

D’altra parte, al tramonto dell’indipendentismo del Nord subentra, quasi a continuare il paradosso di cui si diceva prima, la nascita di un forte senso di nazionalismo. Qui si rileva la seconda implicazione della trasformazione della Lega, stavolta di segno negativo. Le idee xenofobe e identitarie, già presenti nella versione autonomista, trovano maggiore sfogo e legittimità in un discorso nazionalista. Alle incertezze date dalla globalizzazione si risponde con il concetto di sovranismo ed il rafforzamento dei confini nazionali. La mutazione della Lega va in questo senso e segue, questa volta, una tendenza molto diffusa in tutta Europa. C’è da chiedersi quale delle due nature della Lega possa essere più pericolosa. La risposta pare purtroppo essere la seconda, quella di una Lega sovranista. Le rivendicazioni della vecchia Lega Nord non si configuravano come un vero pericolo, proprio per la mancanza di validi requisiti per una battaglia volta all’indipendenza. Il discorso sovranista, invece, trova più spazio di affermazione e riscuote maggiore successo, perché atto a dare risposte, di dubbia validità ma comunque risposte, ai problemi dell’attualità. La morte della Padania sarà pure una bella notizia, ma ora tocca preoccuparsi delle nuove idee di Italia che vengono proposte e possibilmente attrezzarsi al meglio contro di esse.

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Tutto quello di cui non dovremmo spaventarci sulla Brexit

Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cosiddetto Brexit,  è finora la consultazione elettorale che sta facendo più paura all’Europa Unita. In passato già altri voti popolari hanno minacciato Bruxelles, ma mai come questo. Recentemente è toccato alle elezioni in Austria, che hanno visto il leader euroscettico dell’ultradestra Norbert Hofer mancare di un soffio la vittoria. Ma non solo, i referendum si può dire siano il vero spauracchio dell’Europa e del processo d’integrazione, portatori di grandi delusioni. Le più cocenti sono quelle dei due referendum che si sono tenuti in Francia e Paesi Bassi nel 2005, con il quale i due paesi fondatori dell’attuale Unione, hanno bocciato la Costituzione europea, un ulteriore e fondamentale step nel processo di integrazione.

Ma ci sono anche i referendum con i quali Svezia e Danimarca hanno rinunciato all’adozione dell’euro (nel 2000 e nel 2003) e quelli con il quale la Norvegia ha rifiutato per ben due volte di entrare nell’Europa Unita (1972 e 1994). Ce ne sono anche tanti altri finiti bene: la stessa Gran Bretagna nel 1975 con un referendum ha confermato la permanenza nell’allora Comunità Europea, ma stiamo parlando di un’altra epoca oppure di referendum che hanno riguardato paesi di minor rilievo, come quelli che si sono tenuti nei paesi dell’Est Europa prima del grande allargamento dei primi anni 2000 (vedi Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Baltici, ecc.).

Eppure questa volta le paure e le ansie su una eventuale Brexit sembrano piuttosto esagerate e forse anche immotivate, frutto più che altro di una avvelenata battaglia politica interna al Regno Unito, caratterizzata da manipolazioni e strumentalizzazioni (si veda il tema dell’invasione dei profughi o la polemica su quanto il paese conferisce in milioni ogni anno a Bruxelles), che non da un autentico confronto su tematiche europee. Inoltre, non si tiene sufficientemente conto del fatto che la Gran Bretagna è già ora un passo fuori dall’Unione anche se è dentro il mercato unico, potendo così contare sui benefici economici ma non essendo sottoposta a vari altri obblighi, tra cui quelli derivanti da Schengen, grazie a precise clausole di opt-out. E se anche il risultato delle urne decidesse per l’uscita a pieno titolo dall’UE, per Londra e Bruxelles sarebbe facile stipulare nuovi accordi con i quali intrattenere relazioni economiche più o meno intense, come già avviene con Norvegia, Svizzera o Turchia. In poche parole l’esito referendario potrebbe essere disconosciuto quasi immediatamente, proprio come avvenne esattamente un anno fa in Grecia con il referendum sull’approvazione del piano di aiuto europeo.

Vero è che, se da un lato le conseguenze economiche di una eventuale Brexit non sono di grande rilievo nell’immediato, né per la Gran Bretagna e né tantomeno per l’UE, ciò che può destare maggiore preoccupazione sono le conseguenze politiche, soprattutto per la Gran Bretagna. In caso di una vittoria del Leave, infatti, il regno di Elisabetta II vedrebbe certamente rinvigorirsi le spinte indipendentistiche della Scozia, in maggioranza favorevole al Remain. Con molta probabilità si vedrà anche un rafforzamento delle posizioni populistiche e nazionalistiche di partiti come l’Ukip di Nigel Farage e di tutta la galassia di partiti xenofobi e di estrema destra. Per quanto riguarda la politica estera, potrebbero verificarsi diversi attriti a livello strategico oltre che con i paesi più convintamente europei, anche con gli alleati di sempre e cioè gli americani: Barack Obama ha già espresso la sua posizione contraria e preoccupata rispetto alla Brexit.

Per l’UE le conseguenze politiche riguarderebbero il processo di integrazione europea e sarebbero comunque più incerte. Sintetizzando, si possono intravedere tre possibili scenari. Nel primo ci sarebbe una accelerazione verso la disgregazione, con altri paesi che a loro volta si appresterebbero a indire referendum sulla permanenza nell’UE. Uno scenario possibile, ma in verità poco probabile.  Al contrario, la Brexit potrebbe dare un nuovo slancio verso una maggiore integrazione europea in una situazione con meno veto players, come lo è la Gran Bretagna. Uno scenario magari auspicale, ma forse ancor meno probabile del primo. Nel terzo scenario si vedrebbe un perdurare dell’attuale situazione di stallo all’interno della UE ancora per diverso tempo: l’uscita della Gran Bretagna, da paese isolazionista già con un piede fuori non inciderebbe in maniera sostanziale su equilibri e dinamiche europee. E questo scenario è quello più probabile. 

Il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016 sarà sicuramente un avvenimento storico da ricordare, con il quale i britannici avranno deciso se rivendicare a gran voce il loro splendido isolazionismo o concedersi a tenui aperture ai vicini di casa europei. Ma se questo referendum deve decidere sul destino politico dell’Europa e dell’economia internazionale temo non ci riuscirà.

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