Tsipras è il pollo

chicken run james dean

E così dopo mesi di trattative estenuanti, di rinvii, e di accuse reciproche, la partita del debito greco si è infine conclusa con l’accordo su un nuovo doloroso piano di salvataggio. Ma la crisi è ancora lontana da una vera soluzione, anzi, se possibile le complicazioni adesso sono aumentate (tanto che persino il FMI ha duramente criticato l’accordo): l’austerità che ha messo in ginocchio la Grecia è ancora il paradigma dominante in Europa e la resa di Tsipras dinanzi la Troika ha riattizzato nazionalismi e populismi vari, spaccando ancor di più il paese e acuendo la crisi sociale.
Eppure il premier ellenico aveva in mano tutte le carte per portare a casa un risultato migliore. A cominciare dall’esito del referendum del 5 luglio sul precedente piano di salvataggio. Nonostante la vittoria del “No”, Tsipras ha pochi giorni dopo accettato un nuovo piano “lacrime e sangue” analogo a quello rigettato alle urne, sconfessando clamorosamente il mandato popolare. Con il risultato che una intelligente scelta tattica si è rivelata essere un pericoloso boomerang per il leader di Syriza che ora vede sempre più in bilico il suo incarico a capo dell’esecutivo.
Per quanto possa essere discutibile la validità di una convocazione referendaria su temi come fisco e prevenzione (chi mai voterebbe a favore di più tasse?), questa mossa aveva messo in risalto una questione di fondo ben più importante: ai popoli europei, che finora sono stati tenuti ai margini del processo d’integrazione, spetta più di ogni altro il diritto di esprimere la loro idea di Europa, idea che molto spesso, guarda caso, diverge da quella dei loro governanti. Senza considerare questo, il progetto d’integrazione non può andare lontano, e i risultati infatti si vedono.
Con il “No” del referendum, Tsipras aveva in mano un’ottima carta da giocarsi nei negoziati sia per strappare condizioni più favorevoli per il proprio paese, sia per imprimere un cambio di rotta nel processo d’integrazione, cosa, questa, molto più importante per le sorti dell’intera UE. Invece Tsipras ha mollato, lasciandosi spaventare troppo presto dal rischio di una “Grexit” brandita dai creditori più come una temibile minaccia che come una reale ipotesi. Diremmo che non ha avuto abbastanza fegato.
Per spiegare meglio quanto successo durante le trattative si può ricorrere alla “teoria dei giochi” e precisamente al “gioco del pollo” (Chicken game, tradotto in italiano anche come “gioco del coniglio”). Nel gioco, due sfidanti si lanciano simultaneamente con le loro auto verso un precipizio (ricordate la famosa scena di “Gioventù bruciata”?): il primo che sterza è il “pollo”. Se non lo farà nessuno, precipiteranno entrambi. Nel nostro caso gli sfidanti sono Grecia e Germania e il baratro verso cui andavano incontro era l’uscita della Grecia dall’euro, uno scenario dannoso per entrambe, non solo per gli ellenici. E Tsipras sembra aver fatto ben poco per evitare la figura del fifone. Prima ha scaricato il pilota più impavido, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (che la teoria dei giochi la conosce bene), poi ha impresso la frenata decisiva e la sfida si è conclusa così, con la Germania che ancora una volta impone la propria linea e riafferma le proprie convinzioni. Mentre nel baratro ci sta lentamente finendo l’Europa intera.
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L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»

Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.


Cosa rende particolare questo fenomeno? È da rubricare come l’ultima moda del momento o sotto c’è qualcosa di più profondo? Alla base c’è sicuramente la crisi economica degli ultimi anni caratterizzata da una notevole contrazione dei consumi. Questa difficoltà nella spesa, unita alla voglia di non rinunciare ad alcuni abitudini tipiche di una società del benessere (viaggi, hobby), hanno segnato il successo di questi servizi che consentono di non rinunciare ai nostri svaghi, ma al tempo stesso di risparmiare. È come se all’austerità della spesa pubblica, quella che viene dall’alto, che impone tagli e sacrifici, si sia contrapposta un’austerità dal basso, che ottimizza la spesa, abbatte lo spreco, e trova comunque il modo di concedersi dei passatempi. Ma non è stata solo la congiuntura economica ad aver contribuito alla nascita della sharing economy. Tutti i servizi di condivisione menzionati, e molti altri ancora, nascono e crescono sul web, e potrebbero essere visti come una nuova evoluzione dei Reti Sociali che dal virtuale portano le esperienze al reale.

La questione è ora capire se la sharing economy è solo una moda passeggera o è invece l’inizio di un vero e proprio cambiamento della società e del sistema economico. Se questa «austerità dal basso» può, ad esempio, essere riconducibile a quella auspicata da Enrico Berlinguer nel suo controverso discorso del 1977 quando sosteneva che l’austerità è uno strumento per rivoluzionare una società «i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». La sharing economy come fine della società consumistica? Una possibile interpretazione. Certamente, è alla base della sharing economy l’idea di consumo collaborativo: un consumo più intelligente e più consapevole, particolarmente attento a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane.

Ma prima di Berlinguer, chi già parlava di qualcosa più simile all’attuale sharing economy era Karl Polanyi, padre della moderna antropologia economica. Nel suo famoso testo «La grande trasformazione», uscito nel 1944, Polanyi muove una forte critica e intravede l’inevitabile fallimento della «società di mercato»: una società dominata dall’economia, dove tutto è guadagno, fondata sullo scambio mercantile. Il contrario della sharing economy, dove l’accento ultimo, almeno in teoria, non viene posto sull’arricchimento monetario, ma sull’arricchimento personale, quello espresso in termini di esperienze. È difficile, in verità, prevedere se la tesi di Polanyi possa trovare effettiva applicazione nella sharing economy, se questo fenomeno cioè possa concretarsi in un sostanziale cambiamento della società, o se invece si tratta solo di un modo di risparmiare in tempo di ristrettezze. Per il momento, sappiamo solo che grazie alla Rete e alle nuove tecnologie stanno cambiando innanzitutto le relazioni tra gli individui, e che se due perfetti sconosciuti vogliono dividersi le spese del viaggio da Roma a Milano e al tempo stesso fare due chiacchiere possono benissimo farlo, senza scomodare né Polanyi e né Berlinguer.

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