Il “formidable” Belgio tra euforia e divisioni

La trepidazione nelle strade di Bruxelles per la partecipazione del Belgio a questi campionati mondiali era già palpabile tempo prima dell’inizio ufficiale della competizione calcistica. Dalle finestre delle abitazioni spuntavano parecchie bandiere del Regno e le automobili circolavano con dei buffi copri-specchietto in tessuto con i colori del Belgio. È vero, Bruxelles, un’enclave a straripante maggioranza francofona in terra fiamminga non rappresenta in maniera autentica l’intero popolo belga, ma anche nelle Fiandre si poteva respirare un certo entusiasmo, se anche il leader del partito separatista fiammingo, Bart De Wever, ultimamente uscito vincitore dalle recenti elezioni politiche, ha confidato di seguire le gesta dei «diables rouges» e cioè di una compagine così forte che non si era mai vista.
Il Belgio, infatti, può legittimamente avere importanti ambizioni per questo mondiale , e i risultati lo stanno confermando. Il successo, però, non è arrivato per caso. È per merito della federazione calcistica belga e del suo massimo dirigente Michel Sablon che, dopo anni bui in cui il Belgio era sparito dalla geografia calcio, ha deciso di rifondare questo sport  sulla base di due elementi chiave: i giovani e l’integrazione di promettenti stelle del calcio straniere. La formazione belga, infatti, caratterizzata da un’età media inferiore ai 25 anni, vede al suo interno oltre che la storica componente vallona e fiamminga, anche la presenza di belgi di seconda generazione o naturalizzati, oramai la maggioranza della compagine. Fuori dal campo, un’altra stella nazionale belga è il cantante Stromae, di padre rwandese e madre fiamminga, cantante francofono che nonostante la giovane età ha già guadagnato la ribalta internazionale.
Giovani e integrazione, abbiamo detto. E se questi non solo ad essere gli ingredienti per far ripartire una squadra, fossero anche gli ingredienti per far ripartire un Paese? Dopo essere stato uno dei paesi che ha meglio reagito alla crisi, il Belgio ha arrestato la propria crescita, scendendo anche a tassi di variazione del PIL negativi, provocando una fuga di cervelli all’estero.  Il modello «mondiale» del Belgio potrebbe ben funzionare in un Paese così variegato, così diviso, ma nel contempo così forte. Una ricetta che ovviamente non dovrebbe seguire solo il Belgio, ma anche il resto dell’Europa che arranca.

Certo, se la poltrona del primo ministro belga dovesse ancora rimanere vacante, Elio Di Rupo infatti si è dimesso dopo la sconfitta elettorale dello scorso 25 maggio e Bart De Wever è la persona incaricata di formare il nuovo governo, piuttosto che rimanere altri 500 giorni senza un governo, come avvenuto con la crisi istituzionale del 2011, un pensierino su Sablon alla guida del Paese sarebbe lecito farlo. 
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La rivincita italiana in Europa

Strano ma vero noi italiani abbiamo finalmente qualcosa di cui gioire di fronte al resto dei Paesi europei. Il motivo di questo inaspettato sprazzo di orgoglio ci viene dato dai risultati delle elezioni europee. Al di là delle varie appartenenze politiche, della scelta elettorale che ognuno di noi ha espresso nelle urne, del “chi ha vinto” e “chi ha perso” tipico del dibattito politico italiano, se guardiamo con neutralità i dati e soprattutto se allarghiamo il campo visivo a tutto il terreno elettorale che in queste elezioni era l’Unione Europea, noteremo che ci sono alcune note positive dalle quali il nostro Paese può ripartire per tornare a giocare da protagonista la partita europea.

In ultimi anni in cui l’Italia, uno dei sei Paesi fondatori dell’attuale Unione, è stata bacchettata a più riprese per gli indisciplinati conti pubblici che hanno contribuito al malessere della moneta unica, finendo come bersaglio di sorrisetti ironici di capi di stato e pagelle piene di insufficienze della Commissione, ora finalmente il nostro Paese può avere principalmente tre motivi di cui farsi vanto di fronte alle altre forze europeiste nel continente e di fronte alle istituzioni dell’Unione. Prima di tutto, le elezioni europee dello scorso 25 maggio hanno dimostrato che l’Italia, insieme alla Germania, è uno dei maggiori Paesi europei  in cui gli euroscettici non hanno brillato; in secondo luogo che il Partito Democratico, ancora in questo caso insieme alla tedesca CDU se consideriamo i maggiori Paesi dell’Unione, è il partito di governo che è uscito indenne dalla partita elettorale; infine che Renzi risulta essere tra tutti i leader europeisti nel continente, quello più amato e che riscuote maggiore fiducia. Vediamo questi motivi singolarmente.

Per quanto riguarda il fenomeno dell’euroscetticismo si può benissimo dire che esso non ha sfondato in Italia, al contrario degli strepitosi risultati che ha ottenuto in alcuni altri Paesi (soprattutto UK e Francia). È vero, se proviamo a sommare il risultato del Movimento 5 Stelle con quello della Lega Nord otterremo una percentuale che è addirittura superiore a quella del Front National in Francia. Ma ci sono alcuni rilievi da fare riguardo il M5S, un movimento di cui non si può espressamente dire che sia antieuropeista (la questione è stata già trattata precedentemente su questo blog). Ponendo comunque che si fosse trattato  di una percentuale di euroscettici intorno al 25% (M5S + Lega), il risultato del PD (più altre formazioni europeiste) risulta imponente in rispetto. In Francia e in Gran Bretagna invece, i partiti euroscettici, Front National e UKIP, sono risultati essere i più votati.

Sempre in Francia e Gran Bretagna, i partiti al governo hanno ricevuto delle severe batoste. In realtà un po’ in tutta Europa i partiti al governo  sono usciti malconci da queste elezioni (in Portogallo ed in Grecia hanno perso, in Austria e nella stessa Germania hanno raccolto meno voti delle precedenti tornate elettorali). Solo il PD non solo è riuscito a vincere nettamente, ma ha addirittura ottenuto il miglior risultato di sempre per un partito di centrosinistra.  La vittoria del PD è dovuta essenzialmente ad una sola ragione: la forza carismatica del suo leader, Renzi. Egli risulta essere il politico più amato in Europa battendo quindi anche Angela Merkel, se con un (non troppo) ardito sforzo teorico vogliamo trasferire i voti ottenuti dal partito al proprio leader.

Questi tre dati tradotti non possono che avere un unico significato che a sua volta si traduce in una responsabilità: l’Italia ha l’opportunità di ritornare protagonista sul palcoscenico europeo sulla base di questi numeri che le consentono di ridare vigore alla spinta integrazionista. L’Italia si è dimostrata ancora una volta filoeuropea e ha riposto la sua fiducia su un uomo con solide convinzioni europeiste. Raramente, negli ultimi 50 anni, un capo di governo italiano ha avuto una migliore posizione per farsi ascoltare a Bruxelles. E questo sembra chiaro anche allo stesso Renzi che ha dichiarato che “l’Italia è ora in grado di incidere in Europa“. Il problema è ora come. Due elementi sono fondamentali in Europa per sperare di cambiare qualcosa: degli alleati fidati e una proposta precisa e concreta. E questi due elementi sono ovviamente fortemente interdipendenti in quanto degli alleati si raccolgono intorno ad una certa idea e posizione. Per ora, Renzi ha solo dichiarato che in Europa vuole proporre il modello della “terza via”, né con Merkel né con Schulz, e cioè né troppo austero ma neanche troppo keynesiano. Un discorso però che risulta essere troppo astratto e neutrale e che quindi non riesciurà a raccogliere alleanze. D’altro canto, prima di pensare a questo, c’è un altro aspetto che condiziona le possibilità di successo delle proposte dell’Italia in Europa, e cioè il successo delle proposte di Renzi in Italia: se le riforme non vengono effettivamente attuate in casa, la vittoria in trasferta è solo un miraggio.

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Scettico dell’euroscettico

Si sa, queste prossime elezioni europee saranno quelle che secondo le impressioni di tutti i commentatori e di tutti gli esperti decreteranno una consistente affermazione dei partiti e movimenti euroscettici di tutto il vecchio continente. Proprio tutto. I populisti e antieuropeisti sono cresciuti in maniera impetuosa nei sondaggi, ma anche nelle ultime elezioni alle quali si sono presentati. I più importanti, tuttavia, sono tre, anche perché importanti sono i Paesi ai quali appartengono. Ovviamente c’è il nostro Movimento 5 stelle che però è più populista che euroscettico. Il suo euroscetticismo è una vetrina per attirare la rabbia e il malcontento diffuso che in qualche modo devono essere scaricati. L’Europa è pertanto il bersaglio più facile, ma lo è perché si tratta di elezioni europee, infatti nelle elezioni politiche la rabbia è stata scagliata contro la casta, e molto facilmente Grillo si lascia anche andare in singulti anti-italiani, vedi le recenti dichiarazioni in favore di chi ha fischiato l’inno nazionale alla finale di Coppa Italia. L’Euroscetticismo del Movimento 5 stelle non è definitivo né distintivo. Basti aggiungere che l’uscita dall’euro non è una condizione fondamentale del movimento, ma anzi è successiva solo ad un referendum che attesti la volontà del popolo italiano di abbandonare la moneta unica. Per il resto, il Movimento non ha espresso la benché minima intenzione di uscire dall’Unione Europea.

Gli altri partiti euroscettici forti si trovano in Francia e in Gran Bretagna. Nella Repubblica d’oltralpe il successo del Front National di Marine Le Pen non è più una sorpresa. Il partito nazionalista, infatti, ha ottenuto un grandi consensi alle ultime presidenziali con Mairne Le Pen e un ottimo risultato alle recenti amministrative. Il Front National, però, a differenza del Movimento 5 stelle italiano, ha ben chiare le sue idee in Europa: uscire immediatamente dall’euro e ripartire da una Europa di stati-nazione. Il suo successo in Francia, d’altra parte, è legato motivi simili a quelli che hanno portato al successo il movimento di Grillo: ha canalizzato il malcontento della popolazione contro il fallimento del governo in carica ed è cresciuto in concomitanza con lo sfacelo della destra moderata francese, rappresentata dall’UMP. Ma la forza politica neofascista (anche se ora rivisitata in chiave “responsabile”) non è nuova a successi di questo genere: già con il padre di Marine, Jean-Marie, il fronte era riuscito ad arrivare al ballottaggio con Chirac nelle presidenziali del 2002, ma l’affermazione del fronte è arrivata soprattutto in altre elezioni europee dove in più di una occasione in passato è riuscito ad andare oltre il 10%.

In Gran Bretagna l’Ukip di Nigel Farage gode parimenti di uno strepitoso momento di gloria. Alle elezioni amministrative dello scorso anno ha ottenuto il 23% dei consensi, a soli due punti percentuali dai conservatori di David Cameron, con i quali condividono la stessa tradizione politica. Il fenomeno dell’euroscetticismo in Gran Bretagna e molto più normale e consolidato, dal momento che la “perfida Albione” ha sempre voluto vantare un certo isolazionismo messo in cantina durante il travolgente momento dell’integrazione europea degli anni ’70, quando anche il regno della regina Elisabetta II è entrato a far parte della comunità, e poi resuscitato a piene forze con la crisi dell’Europa unita degli ultimi anni. Nigel Farage, anche lui, sa bene cosa vuole fare con l’Europa: salutarla, e uscire direttamente dall’Unione, visto che l’euro non può preoccuparlo dal momento che la Gran Bretagna non ne fa parte.

Nel resto dell’Europa, come detto, tutti i partiti estremisti ed euroscettici riscontrano un particolare successo. Succede in Ungheria con il partito di ultradestra Jobbik, che vuole che l’Ungheria esca dall’Unione, succede in Finlandia con i Veri Finladesi che, anche loro reduci da ultimi grandi successi elettorali, si scagliano contro l’aspetto solidale dell’Unione e tutti i progetti di salvataggiodi stati in difficoltà con i conti, succede in Svezia con i Democratici Svedesi, formazione politica di discreto successo che lotta contro l’immigrazione. In generale i partiti ed i movimenti euroscettici di successo sono populisti e di estrema destra, ma non mancano Paesi in cui l’antieuropeismo è rivendicazione politica dell’estrema sinistra come in Spagna con Izquierda Unita e in Portogallo con il partito comunista portoghese.

Ma non lasciamoci incantare dai numeri e dagli strilli. L’euroscetticismo dilagante oltre a non essere una assoluta novità e oltre ad andare abbastanza di moda vista la situazione di crisi economica e monetaria, è un fenomeno abbastanza esagerato nella sostanza. Uno sguardo un attimino più pacato dei dati, come quello fatto dal Guardian, ci dice che secondo i sondaggi in tutta Europa la percentuale di voto popolare in favore delle forze euroscettiche equivale al 30%, di soli 5 punti percentuali in più rispetto alle passate elezioni, e il numero dei seggi su cui siederanno parlamentari euroscettici potrebbe essere di 218 su 751, rappresentando poco più di un quarto del Parlamento di Strasburgo, che non è un risultato da buttare, ma senz’altro contenuto e contenibile. E questi sono solo sondaggi. I risultati, in effetti, potrebbero superare le aspettative, ma potrebbero anche andare al di sotto. In realtà il fenomeno ci appare di ampia portata perché trattato ormai quasi  ossessivamente dai media sulla scia dei successi riportati in patria da ognuno di questi partiti ma per vicende di politica interna, di sfiducia nei singoli governi nazionali, non certo per una ben precisa critica al modello di integrazione europeo. Il successo in patria dell’euroscettico non è dire lo stesso del successo in Europa. D’altronde stenta ad affermarsi una vera trasversalità  di tutte le forze euroscettiche; ci ha provato Marine Le Pen tendendo la mano a Grillo, ma si è vista rispondere picche per la pericolosità del progetto che potrebbe portare nocumento ad ogni singola formazione piuttosto che benefici vista l’eterogeneità vistosa tra tutti questi. In ultimo, tra i cinque candidati alla presidenza della Commissioneeuropea non ce n’è uno euroscettico, anzi tra loro è quasi una gara a chi chiede più Europa. Solo Tsipras, il leader greco di Syriza, la coalizione di partiti di estrema sinistra, è critico nei confronti di questa Europa, ma per lui l’Unione non è mai stata in discussione e nemmeno l’euro.

Il vero euroscetticismo, in fin dei conti, non si ritrova nei ben conosciuti movimenti populisti, nazionalisti o razzisti, bensì nell’astensione alle elezioni europee, la quale risulta elevatissima. Così come il dissenso verso un governo in carica viene anche dimostrato rinunciando a partecipare alle elezioni, in Europa la bassissima affluenza alle urne, che nel 2009, per esempio, si è attestata al 43%, è indicatore di quanto tutti siamo poco europei. Il motivo è da imputare anche ai media che destinano pochissimo spazio ad una vera informazione europea. I media di tutta europa, non solo italiani, sono dominati ancora dalla politica interna come se questa funzionasse in maniera pienamente indipendente non solo dalla politica europea, ma  dalla politica internazionale in generale. Ci sono stati ben due confronti tra i cinque candidati alla presidenza della commissione europea, ma questo avvenimento stenta a trovare risalto nella nostra tv, per esempio. Se continua così, se una cappa di disinformazione e un velo di apatia continueranno ad incombere su tutti i cittadini europei, i veri euroscettici non saranno quelli che strillano e che lanciano invettive contro Bruxelles, ma tutto il resto.

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L’uomo che fa tremare il mondo

Nella storia dell’umanità ci sono sempre stati individui singoli che, in diverse misure, hanno fatto paura al resto del mondo, a milioni e milioni di altre persone. Tiranni, condottieri, dittatori, terroristi: i modi per seminare paura sono tanti, e tutto può dipendere dalla brama, dalle manie, dal furore di un singolo individuo. Ne può bastare uno. Nell’attuale società globalizzata, complessa e interconnessa, dove un avvenimento in una parte del mondo può avere ripercussioni in un’altra parte a migliaia di chilometri di distanza, e dove le informazioni corrono più veloci del vento, la paura e la preoccupazione si disseminano con estrema facilità e gli effetti dei comportamenti di uomini potenti pure.

Non è facile emergere come uomini temibili al giorno d’oggi: c’è tanta concorrenza. Si può, ad esempio, essere presidenti degli Usa, cioè della (a dispetto di ciò che pensano i declinisti) più grande potenza mondiale. Ma non può essere questo il caso, la più grande potenza mondiale si considera anche la più grande democrazia mondiale ed il timore con la democrazia è un abbinamento di pessimo gusto. Oppure, se si vuole fare paura al mondo, si può essere a capo di un grande movimento terrorista internazionale come Al Qaida. Ed infatti fino al giorno della sua morte Bin Laden è stato l’uomo più ricercato, più temuto, più pericoloso al mondo. Ma ora non c’è più e i suoi successori sembrano non essere all’altezza del passato ruolo, tant’è che anche l’organizzazione fondamentalista islamica ne risente. Era toccato ad Ahmadinejād prendere il posto di cattivo, con la sua retorica antisionista, antioccidentale, e le repressioni antidemocratiche. Ma poi la fase “canaglia” dell’Iran è passata di moda, il potere religioso ha deciso che era meglio fermarsi un attimo, e il popolo persiano ha dimostrato, con le elezioni, che non si può rischiare di rimanere isolati dal resto del mondo. Dopodiché, sulla scena del crimine, è subentrato Bashar al-Assad, il sanguinario presidente della Siria, entità territoriale e politica ancora dall’incerto destino, tribolata da una guerra civile che si trascina lentamente con il suo pesante carico di vittime, abbandonata ormai dai riflettori dei principali media.

Ma l’uomo più temuto ora è un altro: una vecchia conoscenza della politica internazionale, un osso duro della politica russa, una volpe al Cremlino come non se ne vedevano da tempo. Si tratta del presidente della federazione russa Vladimir Putin, ovviamente. Ai vertici della politica russa da ben quattordici anni (e chissà per quanti altri ancora), Putin è riuscito a riportare la Federazione in un ruolo da comprimario nella determinazione degli equilibri geopolitici e geostrategici mondiali. Dichiarato da Forbes uomo più potente del mondo nel 2013, il presidente appassionato di judo e automobilismo, figura che si è fatta quasi mitica nel sentimento nazionalpopolare, è riuscito a far risorgere il Paese erede dell’Unione Sovietica, dal disordine della dissoluzione e dal collasso economico e finanziario degli anni ’90, portando a compimento quella transizione che per un decennio stentava a realizzarsi. Una transizione che doveva portare il Paese da un regime autoritario quale quello comunista e dirigista ad una democrazia di libero mercato. Ma questa transizione, sebbene corredata da riforme in senso liberista (alcune ultraliberiste), non ha portato alla formazione di una democrazia pluralista. Anzi, si è giunti alla affermazione di un nuovo sistema definito Putinismo, il quale consiste in un mix di gestione personale e accentrata dell’apparato statale, affidando le cariche principali a uomini fidati (quasi sempre siloviki), economia basata sulla bassa tassazione ma sostenuta spesa pubblica (le casse dello Stato si finanziano quasi esclusivamente dagli introiti derivanti dall’esportazione di energia), autoritarismo e antidemocraticismo che vuole sfociare in un sistema politico a partito unico, condito da un rinverdito patriottismo nostalgico dei fasti del comunismo. Ma si sbaglia se si vede nella Russia di Putin una riformulazione dell’Unione Sovietica, piuttosto la si può intendere come la Russia zarista, per l’aspetto autocratico del sistema politico, verticistico e subordinato alla figura del nuovo zar Putin (e non alla preminenza del partito), nonché per la natura della politica estera, di tipo espansionistico, mirata a quantomeno influenzare i “pezzi” del vecchio impero, nell’intento di riappropriarsi di quel grande spazio euroasiatico che definiva la grande potenza mondiale.

L’annessione della Crimea (penisola che si affaccia sul Mar Nero nel territorio ucraino ma a maggioranza russa), e i successivi tumulti nell’Est dell’Ucraina, dimostrano questo nuovo slancio espansionistico della politica estera russa e l’aspetto minaccioso che essa può avere nei confronti dell’Occidente che ora sembra ritornato ad essere blocco in un rinvigorito clima da guerra fredda. Ma è illusorio credere che si possa ricadere nelle logiche bipolari che hanno caratterizzato il mondo per cinquant’anni. L’ideologia non è più un motore incessante con il quale si giustificano scelte economiche, sociali e militari. L’uomo vuole adeguarsi sempre di più a questa modernità che gli permette di assicurarsi un soddisfacente status economico. La crescita e la stabilità economica, prima di tutto. E, richiamando un precedente esempio, è anche quello che è successo in Iran, dove le sanzioni economiche ONU e UE che hanno portato sull’orlo del baratro il Paese, hanno pesantemente condizionato gli ultimi risultati elettorali in favore del moderatismo. 

Una cosa importante da capire è se Putin faccia sul serio: se, cioè, il suo gesto riguardo l’annessione e, in generale la sua comprovata volontà di potenza perseguano un effettivo ribaltamento degli equilibri mondiali, una nuova sfida all’Occidente, oppure siano semplicemente estemporanee dimostrazioni di forza, figlie del narcisismo e della vanità dell’uomo solo al comando. Putin, scaltro personaggio cresciuto a pane (probabilmente anche poco) e KGB, uomo di potere e di istituzioni non può non essere dotato di una sufficiente dose di realismo che gli permetta di leggere la situazione. Spetterà al resto del mondo reagire comportandosi senza eccessivo clamore a certe velleitarie mosse putiniane (qui se ne parla meglio). Probabilmente, quindi, tremare di Putin è una eccessiva reazione se solo si cerca di mantenere la calma e la freddezza, tenere bassa l’adrenalina, e non aizzare il cane bizzoso. 

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