Il ritorno di Berlusconi con sollievo

attends 'Che Tempo Che Fa' Tv Show on November 26, 2017 in Milan, Italy.

C’è uno strano sentimento che pervade l’elettorato di sinistra in Italia in questa travagliata stagione politica. In un momento di grande confusione tra partiti, leader, lotte sindacali e civili, populismi di varia matrice fino ad arrivare al ritorno di fascismi e persino nazismi, l’elettore della sinistra si trova in una posizione strana riguardo ad una delle figure politiche che ha da sempre avversato: l’ex cavaliere Silvio Berlusconi. È come se in tutto questo scenario la portata negativa e perniciosa di Berlusconi venisse sovrastata da altri e più imminenti pericoli, e come se il suo ritorno venisse quasi accolto con sollievo, per non dire come una salvezza. Questa pruriginosa e finora impensabile situazione è ben rappresentata dal “gioco della torre”, al quale più o meno seriamente il tipico elettore di sinistra si è prestato.

Tutto comincia con l’intervista a Eugenio Scalfari nella trasmissione “Di Martedì” durante la quale il conduttore Giovanni Floris ha chiesto al fondatore de “la Repubblica” chi sceglierebbe tra il leader di Forza Italia e il candidato premier del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. La risposta è stata Berlusconi, ed ha destato parecchio scalpore considerato che Scalfari è stato suo grande oppositore fin quasi dal primo momento. Il gioco della torre ha visto Di Maio finire buttato di sotto. Sia chiaro, l’ipotesi del gioco è una forzatura ed una semplificazione della realtà, che non contempla l’esistenza di altre opzioni e non tiene conto del contesto. Tuttavia racconta di una situazione reale, non immaginaria, un dilemma vero. Ed è un dilemma che bisogna avere il coraggio di risolvere, almeno in via astratta, come ha fatto Scalfari scegliendo Berlusconi

La scelta fatta da Scalfari non è incomprensibile e stralunata. Appare, invece, molto più il calcolo ragionato di un navigato esperto di politica. Scalfari sa che Berlusconi non è più il pericoloso animale politico di una volta, capace di piegare il Parlamento al proprio volere e di rendere le istituzioni repubblicane strumenti per la salvaguardia dei propri interessi personali. Nelle intenzioni e nelle capacità, l’ex cavaliere sembra essere piuttosto smorzato. In questo proposito gioca l’età, che avanza per tutti e costringe a riconsiderare progetti e fatiche. Ciò che tuttavia continua a spingere Berlusconi nel suo impegno politico è il forte orgoglio e l’innato spirito da leader, nonché una certa voglia di rivincita nei confronti di chi lo ha voluto vedere fuori dai giochi.

Oltre a quello appena menzionato, ci sarebbero altri motivi per i quali Berlusconi rappresenterebbe allo stato attuale un problema meno preoccupante rispetto a Di Maio. Innanzitutto Berlusconi è un male conosciuto, mentre Di Maio e il Movimento 5 Stelle sono un male ancora incognito. Un governo Di Maio sarebbe un bel salto nel buio, una navigazione in acque sconosciute, per motivi di imprevedibilità nell’azione di governo e di capacità nell’assumere tale ruolo. Inoltre Berlusconi, benché personalità esuberante e talvolta impetuosa, porta in dote con se il moderatismo di una certa destra italiana, con il bagaglio di conoscenze delle pratiche politiche e il senso di responsabilità che caratterizzano alcuni dei suoi esponenti, come il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, già ventilato come candidato premier. Le velleità antisistemiche ed il populismo del Movimento 5 Stelle potrebbero risultare in una azione politica fin troppo rischiosa per il paese. Infine vi è un motivo meno ideologico e più viscerale: il Movimento 5 Stelle si configura come il nemico più vicino per la sinistra, in quanto beneficiario dei voti da essa persi, ed è ora il soggetto politico preferito da quel popolo di operai e classe medio-bassa che una volta si chiamava proletariato e votava in massa per il PCI. Una netta vittoria del Movimento 5 Stelle equivarrebbe alla definitiva sconfitta della sinistra nel rappresentare e convincere un certo popolo. Una vittoria, invece, di Berlusconi tale che la sinistra riesca a difendere parte dei suoi consensi dall’erosione dovuta al Movimento 5 Stelle, potrà essere invece meno indigesta e meno amara.

La formulazione del gioco dice tutto della situazione della sinistra italiana, ridotta, come dimostrano i risultati delle recenti elezioni in Sicilia e ad Ostia, ad un ruolo di secondo piano, indebolita e ridimensionata. Ciò però non deve essere motivo di avvilimento e non deve indurre all’autoflagellazione. Anzi, guardare agli altri ed esprimere delle preferenze serve a non smarrirsi e a ritrovare punti fermi. Se il pragmatismo e il calcolo strategico sono buone virtù in politica, allora per il momento va bene anche Berlusconi.

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La Germania ci sta ricascando?

Source: www.spiegel.de
Source: www.spiegel.de

Le elezioni federali in Germania del 24 settembre 2017 hanno consegnato un risultato che, benché piuttosto prevedibile, contiene elementi di novità e di autentica rottura per  lo scenario politico tedesco. La riconferma per la quarta volta consecutiva della cancelliera Angela Merkel, seppur indebolitasi, non è rivelatrice di una consultazione elettorale che in realtà ha visto altri protagonisti conseguire risultati densi di significato, in positivo e in negativo. Si potrebbe partire dal momento di difficoltà dei partiti tradizionali, CDU-CSU e SPD, vale a dire i cristiano-democratici e i socialdemocratici, rappresentanti delle ideologie e del patrimonio socio-culturale del ‘900 e di una lunga storia politica che ormai appare consumata. I socialdemocratici, in particolare, conseguendo il loro peggior risultato nella storia delle elezioni tedesche, sono la formazione che soffre di più. Una situazione tipica in tutta Europa da diverso tempo, che sta ad indicare una crisi della sinistra che ha assunto caratteristiche strutturali e assai critiche.

Ma la vera sorpresa è data dal risultato dell’AFD (Alternativa per la Germania), partito nazionalista di ispirazione vagamente neonazista, anti-UE e anti-immigrati, che ha conquistato il 12,6%, corrispondente a quasi 6 milioni di voti. Bisognerebbe leggere con più attenzione la frase precedente. Un partito di ispirazione neonazista con quasi 6 milioni di voti. Potremmo (e dovremmo) preoccuparci, ma non è questo il punto. Il punto è: perché di nuovo? e soprattutto perché in questa Germania, quarta potenza economica mondiale, con disoccupazione al 3,6%, e surplus commerciale record? Sembrerebbe chiaro che la questione non sia di natura economica, ma sarebbe più giusto dire che non lo è ancora, poiché, in fondo, è sempre il raggiungimento e la conservazione di un certo stato di benessere ad animare le azioni degli individui e ad agitarne i sonni.

Nella società attuale, aperta e globalizzata, la minaccia al benessere è chiara ed è rappresentata dallo straniero, dall’immigrato con diverso retroterra culturale che, per sua volontà o per oggettiva difficoltà, non si integra nella società di destinazione. Il miglior esempio, e caso più comune, è il mussulmano nella società occidentale. Questo tema è di centrale importanza nelle istanze politiche dell’AFD, ed è quello che senza dubbio ne motiva il successo. La questione, però, è comprendere quanto questa minaccia sia concreta, e quanto sia una reale possibilità di nocumento alla nostra società. I problemi legati ad una difficile integrazione ci sono, ma sono ben lontani da certe rappresentazioni, e sicuramente non giustificano diffusi allarmismi.

Un pericolo reale però c’è, ed è quello del terrorismo. Il terrorismo è un grande problema della società moderna e globale, perché solo in essa può avvenire: le sparatorie nei luoghi di aggregazione, le bombe piazzate nei non-luoghi della vita quotidiana (le stazioni metro, gli aeroporti). In questo caso ci si può solo difendere, perché un vero nemico da attaccare non c’è: prende molte forme, è sfuggente, è già da noi, siamo noi. La questione è così complessa e delicata che purtroppo si presta a facili strumentalizzazioni e diviene oggetto di riprovevoli battaglie politiche. 

Le inquietudini e la voglia di reagire della società occidentale trovano sbocco in idee populiste e xenofobe, contrarie ai principi umanitari e all’idea di multiculturalismo affermatisi nel secondo dopoguerra, ma sinceramente saldate nelle sfide che caratterizzano il nostro tempo. La Germania, poi, si ritrova ad avere un ruolo anticipatore sui tempi, come d’altronde dimostra la sua storia. Il nazionalismo sempre presente anche se latente; la ricerca di un’unità comunitaria intorno ad una “cultura-guida” (Leitkultur) data da un popolo e non dalla geografia (che per la Germania gioca a sfavore);  il passato nazista e le sue diffuse rappresentazioni nostalgiche spiegano il successo dell’AFD.

Se ne potrà venire fuori? Questa volta la Germania, la parte libera e democratica della Germania, non gioca una partita da sola ma, proprio per via della globalizzazione, l’arena vede in campo numerosi soggetti. Combattere le disuguaglianze globali, superare colonialismi vecchi e nuovi, ridefinire le architetture istituzionali internazionali sono i passi necessari da prendere. Nel frattempo, si consiglia di guardare con attenzione la Germania.

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Periferie di tutto il mondo (unitevi?)

Se dalle elezioni presidenziali americane 2016 abbiamo imparato qualcosa questa è l’importanza fondamentale e decisiva del voto delle cosiddette “periferie“: cioè di quelle zone lontane dai grandi agglomerati urbani e perciò dai centri di potere politici ed economici. Quella America già definita “profonda”, rurale e tradizionalista, costituita da quella “maggioranza silenziosa” (già invocata da Nixon) che questa volta ha alzato la voce. L’illusione che a contare potesse essere solo l’America delle due coste, il volto “mainstream” di Hollywood e della finanza newyorkese, è durata tutta la lunga campagna elettorale e si è infranta in una sola notte nel giro di poche proiezioni, per il gran sgomento di cronisti e commentatori che nulla di tutto ciò avevano previsto (o che forse non volevano prevedere).

Il malessere e il risentimento contro la classe politica al potere covato nelle periferie sono stati facilmente catalizzati da movimenti di natura populistica, che con argomenti e atteggiamenti semplici (e semplicistici, spesso banalizzanti) hanno gioco facile nell’ottenimento del consenso. Un fenomeno dalla caratura internazionale e dalla diffusione ampia e trasversale nel mondo occidentale: l’elezione di Trump alla Casa Bianca non è che una ulteriore conferma dopo il voto sulla Brexit. E ora potrebbe toccare ad altri paesi europei con le elezioni nel 2017 in Francia, dove Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha grandi chances nella partita presidenziale, e in Germania, dove l’ascesa del partito populista e xenofobo AFD sta facendo tremare la solidità della cancelliera Angela Merkel.

Ma come si spiega questa rivolta internazionale delle periferie contro i governi al potere? Per lungo tempo ci siamo illusi che la prosperità promessa dall’economia globalizzata potesse favorire tutti in modo indistinto garantendo un innalzamento generalizzato del livello di benessere: dal finanziere di Wall Street all’allevatore del Wyoming, e anche più là nel mondo, fino agli abitanti degli slum di Nuova Delhi e delle favelas di Rio. A quanto pare non è andata così. La sfiducia verso la globalizzazione è la chiave per capire l’esito del voto americano e di quello britannico, e probabilmente anche di quelli a venire. In questi casi la reazione è stata cieca ed istintiva, frutto di un malcontento raccolto e cavalcato da campioni della demagogia.

In un’epoca in cui gli uomini politici si schierano o si arrendono alle logiche, spesso nefaste, della globalizzazione, chi promette di riprendere in mano le redini della situazione e di riportare la barra dritta ottiene facilmente il consenso, soprattutto in quegli strati di popolazione poco educata, anziana, e appartenente alla classe media impoverita che infatti sono stati decisivi per la vittoria di Trump. Con il paradossale risultato che araldi del neoliberismo e delle élite finanziarie mondiali si ritrovano a propugnare le cause del popolo. E la toppa, purtroppo, potrebbe essere peggio del buco.

Una analisi più approfondita del fenomeno, però, ci dirà che il decadimento della politica non è il problema, ma una conseguenza. Se la stessa classe politica non riuscirà a riparare lo scollamento che c’è tra il centro e le periferie socio-economiche, e a rimediare agli effetti negativi della globalizzazione, il populismo non potrà che avere terreno fertile, e sarà concepito come unica e adeguata risposta. Le crescenti disuguaglianze, la marginalizzazione di poveri e minoranze, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e del welfare state, il dilagare di corruzione e criminalità organizzata, l’inefficienza e la burocrazia delle strutture statali: sono questi i fattori che generano sfiducia nella gente e sono alla base del divario tra centro e periferia. Ricucire questo strappo deve essere l’obiettivo principale di una classe politica che non vuole perdere e non vuole perdersi. Qualsiasi soluzione all’insegna della continuità sarà destinata al fallimento e ad avere conseguenze ben peggiori di una sconfitta elettorale. Fintanto che questo non sarà fatto la rivolta delle periferie sarà da prendere come un chiaro avvertimento. E guai a dire che non ne sapevamo niente. 

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Tutto quello di cui non dovremmo spaventarci sulla Brexit

Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cosiddetto Brexit,  è finora la consultazione elettorale che sta facendo più paura all’Europa Unita. In passato già altri voti popolari hanno minacciato Bruxelles, ma mai come questo. Recentemente è toccato alle elezioni in Austria, che hanno visto il leader euroscettico dell’ultradestra Norbert Hofer mancare di un soffio la vittoria. Ma non solo, i referendum si può dire siano il vero spauracchio dell’Europa e del processo d’integrazione, portatori di grandi delusioni. Le più cocenti sono quelle dei due referendum che si sono tenuti in Francia e Paesi Bassi nel 2005, con il quale i due paesi fondatori dell’attuale Unione, hanno bocciato la Costituzione europea, un ulteriore e fondamentale step nel processo di integrazione.

Ma ci sono anche i referendum con i quali Svezia e Danimarca hanno rinunciato all’adozione dell’euro (nel 2000 e nel 2003) e quelli con il quale la Norvegia ha rifiutato per ben due volte di entrare nell’Europa Unita (1972 e 1994). Ce ne sono anche tanti altri finiti bene: la stessa Gran Bretagna nel 1975 con un referendum ha confermato la permanenza nell’allora Comunità Europea, ma stiamo parlando di un’altra epoca oppure di referendum che hanno riguardato paesi di minor rilievo, come quelli che si sono tenuti nei paesi dell’Est Europa prima del grande allargamento dei primi anni 2000 (vedi Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Baltici, ecc.).

Eppure questa volta le paure e le ansie su una eventuale Brexit sembrano piuttosto esagerate e forse anche immotivate, frutto più che altro di una avvelenata battaglia politica interna al Regno Unito, caratterizzata da manipolazioni e strumentalizzazioni (si veda il tema dell’invasione dei profughi o la polemica su quanto il paese conferisce in milioni ogni anno a Bruxelles), che non da un autentico confronto su tematiche europee. Inoltre, non si tiene sufficientemente conto del fatto che la Gran Bretagna è già ora un passo fuori dall’Unione anche se è dentro il mercato unico, potendo così contare sui benefici economici ma non essendo sottoposta a vari altri obblighi, tra cui quelli derivanti da Schengen, grazie a precise clausole di opt-out. E se anche il risultato delle urne decidesse per l’uscita a pieno titolo dall’UE, per Londra e Bruxelles sarebbe facile stipulare nuovi accordi con i quali intrattenere relazioni economiche più o meno intense, come già avviene con Norvegia, Svizzera o Turchia. In poche parole l’esito referendario potrebbe essere disconosciuto quasi immediatamente, proprio come avvenne esattamente un anno fa in Grecia con il referendum sull’approvazione del piano di aiuto europeo.

Vero è che, se da un lato le conseguenze economiche di una eventuale Brexit non sono di grande rilievo nell’immediato, né per la Gran Bretagna e né tantomeno per l’UE, ciò che può destare maggiore preoccupazione sono le conseguenze politiche, soprattutto per la Gran Bretagna. In caso di una vittoria del Leave, infatti, il regno di Elisabetta II vedrebbe certamente rinvigorirsi le spinte indipendentistiche della Scozia, in maggioranza favorevole al Remain. Con molta probabilità si vedrà anche un rafforzamento delle posizioni populistiche e nazionalistiche di partiti come l’Ukip di Nigel Farage e di tutta la galassia di partiti xenofobi e di estrema destra. Per quanto riguarda la politica estera, potrebbero verificarsi diversi attriti a livello strategico oltre che con i paesi più convintamente europei, anche con gli alleati di sempre e cioè gli americani: Barack Obama ha già espresso la sua posizione contraria e preoccupata rispetto alla Brexit.

Per l’UE le conseguenze politiche riguarderebbero il processo di integrazione europea e sarebbero comunque più incerte. Sintetizzando, si possono intravedere tre possibili scenari. Nel primo ci sarebbe una accelerazione verso la disgregazione, con altri paesi che a loro volta si appresterebbero a indire referendum sulla permanenza nell’UE. Uno scenario possibile, ma in verità poco probabile.  Al contrario, la Brexit potrebbe dare un nuovo slancio verso una maggiore integrazione europea in una situazione con meno veto players, come lo è la Gran Bretagna. Uno scenario magari auspicale, ma forse ancor meno probabile del primo. Nel terzo scenario si vedrebbe un perdurare dell’attuale situazione di stallo all’interno della UE ancora per diverso tempo: l’uscita della Gran Bretagna, da paese isolazionista già con un piede fuori non inciderebbe in maniera sostanziale su equilibri e dinamiche europee. E questo scenario è quello più probabile. 

Il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016 sarà sicuramente un avvenimento storico da ricordare, con il quale i britannici avranno deciso se rivendicare a gran voce il loro splendido isolazionismo o concedersi a tenui aperture ai vicini di casa europei. Ma se questo referendum deve decidere sul destino politico dell’Europa e dell’economia internazionale temo non ci riuscirà.

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Il Natale è già una festa laica

Il Natale 2015 sembra essere un Natale diverso. Nei media e per le strade gli argomenti di dibattito sulla festa più importante della cristianità per la prima volta non si limitano ai sempre angoscianti interrogativi su cosa sia meglio regalare a parenti e amici o al classico confronto pandoro – panettone. Questa volta si parla anche di questioni più impegnative, seppure con la sempre immancabile superficialità e sprovvedutezza. 

Quest’anno il Natale 2015 sarà ricordato come il Natale che hanno cercato di cancellare, con duri colpi ai nostri usi e costumi: dal presepe alla recita a scuola. Quest’anno il Natale sarà ricordato per tutti coloro che volevano renderlo laico, che volevano snaturarlo del suo più autentico significato religioso, minando alle nostre più profonde e radicate tradizioni. 

Il casus belli è, chiaramente, quello del Natale “cancellato” a Rozzano, comune alle porte di Milano, dove il preside dell’Istituto comprensivo Garofani ha deciso di rimandare la tradizionale recita dei bambini a dopo le festività e di ribattezzarla in “Festa dell’Inverno”. Un vero sacrilegio. E dopo questo episodio altri ne sono seguiti, come un’invasione barbarica contro i nostri valori. Tanto che si è parlato di Natale come festa laica quasi fosse una bestemmia

Ma è un bene che sia scoppiato il caso. È un bene che si parli di un argomento tanto ignorato e tanto bistrattato in Italia: quello della laicità. E quello, precisamente, della laicità nel giorno del Santo Natale. Quasi un ossimoro, una contraddizione, ma in realtà un’occasione per lanciare una seria riflessione su quanti, per davvero, vivono questa festa in modo religioso. Perché il Natale, per gran parte della popolazione italiana, è già una festa laica. Lo è da quando abbiamo perso l’abitudine di andare in Chiesa il 25 dicembre, da quando la frenesia dei regali ha preso il posto del raccoglimento nel periodo dell’avvento, da quanto abbiamo smesso di pregare la sera della vigilia per giocare a tombola. 

Lo è, in poche parole, da quando il consumismo ha preso il sopravvento sulla fede. Da quando la Coca-Cola ha inventato Babbo Natale così come lo conosciamo e ne ha fatto un personaggio più venerato di Gesù Bambino. Potremmo addirittura dire che il Natale è tornato ad essere una festa pagana, come lo era alle origini. Ma forse è meglio definirlo come una festa laica e secolarizzata per un semplice motivo: perché ognuno lo può festeggiare come vuole. Lo può festeggiare in modo religioso andando in chiesa e pregando o in modo più profano comprando regali e organizzando cenoni. O in entrambi i modi, come forse siamo più abituati a fare. Ed è per questo che il Natale è già una festa laica.

Non solo: il Natale non è l’unica festività religiosa travolta dall’ondata di frivolezza e mondanità. Basti pensare al giorno dell’Assunzione di Maria (Ferragosto) dove normalmente siamo incolonnati in autostrada piuttosto che tra i banchi di una chiesa, o al giorno di Sant’Ambrogio che a Milano viene ricordato più che altro per la prima della Scala. Ecco, la difesa dei canti di Natale o del presepe di fronte a tutto ciò non può che perdere di significato.  

Per tornare al caso di Rozzano, proprio la scuola pubblica, luogo laico per eccellenza, non può essere l’istituzione issata come simbolo del Natale, ultimo bastione della fede. Sarebbe senz’altro un travisamento del ruolo e delle funzioni che la scuola deve svolgere in una società. Nonché un’ammissione di sconfitta degli stessi credenti che camuffano un luogo di formazione e di insegnamento aperto a tutti (art. 34 Cost.), in un luogo di culto destinato ad una parte. Se vogliamo festeggiare il Natale da buoni credenti è meglio farlo nel posto più adatto: in Chiesa. Per chi davvero crede.
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