“Game of Referendum”: la partita politica dietro il voto del 4 dicembre

Nel marasma generale di una campagna elettorale cominciata fin troppo presto e che a due mesi dal voto ha già raggiunto vette inaudite di esasperazione, sembra già necessario tirare il fiato e prendersi un momento per riflettere. L’esercizio utile in questo caso è guardare oltre l’importante appuntamento elettorale e provare a delineare scenari ed equilibri politici di quella che potrebbe essere l’Italia del dopo referendum. Perché forse è solo così che si può comprendere meglio quello che sta accadendo ora e si può riuscire a dare un senso a tutto il parapiglia.

Come la riforma costituzionale possa incidere su qualità e quantità della produzione normativa e più in generale sulla vita politica del paese è ancora una grossa incognita. Quello che si sa è che si tratta di una riforma rilevante, che andrebbe a modificare profondamente l’ordinamento dello Stato: stiamo pur sempre parlando della revisione di ben 47 articoli della Costituzione. Tuttavia, previsioni e profezie emanate dalle parti a sostegno del Sì e del No appaiono piuttosto esagerate quando dipingono situazioni apocalittiche in caso di vittoria dell’uno o l’altro schieramento. Molto probabilmente non si verificheranno crolli dei mercati e disastri economici, e nemmeno derive autoritarie del paese o marce su Roma. L’esasperazione del confronto non è data dalla passione nel dibattere sul merito della questione, vale a dire sulla scelta di un bicameralismo paritario piuttosto che differenziato, sulla elezione diretta o indiretta dei nuovi senatori, sulla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. La vera posta in palio è un’altra, e riguarda i nuovi equilibri di potere.

Il quadro politico italiano è in piena fase di ridefinizione. L’irruzione del Movimento 5 Stelle con la sua impostazione post-ideologica e la retorica di superamento del classico schema destra-sinistra rappresenta già da qualche anno una novità importante nel panorama politico italiano, ma è con i suoi recenti successi elettorali che è diventato un attore affermato e di primo piano, che ha trasformato il sistema politico italiano in un tripartitismo estraneo alla nostra storia e al quale sembra ancora troppo difficile abituarcisi. Il centrodestra, dal canto suo, dopo l’uscita di scena dello storico leader Silvio Berlusconi è alla ricerca di un nuovo slancio e possibilmente di una nuova identità: per questo è sceso in campo il manager Stefano Parisi che, galvanizzato dal buon risultato ottenuto alle amministrative di Milano, tenta l’impresa.

Quanto al centrosinistra, ridotto ormai al solo PD, le protratte tensioni interne al partito denotano una guerra di posizione tra visioni politiche diametralmente opposte che non aspetta altro che arrivare allo scontro finale. Da sottolineare anche la ormai quasi irrimediabile irrilevanza della sinistra radicale che per lungo tempo nella storia repubblicana ha giocato ruoli di primo piano. Tutte queste situazioni che denotano una certa instabilità nel sistema potrebbero trovare nel referendum costituzionale la via della loro risoluzione, e gli esponenti politici ne intravedono nettamente le opportunità ed i rischi.

A caratterizzare la partita del referendum vi è la figura del premier Matteo Renzi, una delle più importanti novità della scena politica italiana che in questo appuntamento elettorale attende il primo vero giudizio sull’operato del suo governo. La personalizzazione del referendum non ha fatto altro che alimentare le tendenze in atto e incendiare il clima di scontro, divenuto ormai una partita di uno contro tutti. Di conseguenza la posta in palio è divenuta ancora più elevata e ghiotta: se dovesse vincere il Sì Renzi acquisirebbe un consenso incommensurabile, tale da fornirgli una spinta propulsiva incredibile nel suo disegno politico. Un consenso e una legittimazione che nelle sue mani, da leader risoluto e decisionista quale è, rappresenterebbero un pericolo non da poco, ed è proprio questo il vero timore di tutte le opposizioni. La partita del referendum non è perciò né ideologica e né di merito: è una battaglia per la conquista del potere politico che nel migliore dei casi si manifesta come uno scontro generazionale e nel peggiore in una resa dei conti.

Un referendum solitamente cela dentro di se un significato che è maggiore di quello contenuto nel quesito sulla scheda. Ma questa volta la portata della consultazione è davvero di dimensioni epocali, e non per la revisione della Costituzione. Quello è forse l’aspetto meno importante. E non so se sia un bene o un male.

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I Radicali governano

La morte del leader dei Radicali Marco Pannella, nella sua tristezza come fatto storico, è stata occasione per accendere i riflettori sull’operato del movimento radicale italiano e sulle innumerevoli battaglie per i diritti civili portate avanti nel nostro paese. Purtroppo, ciò è avvenuto con la consueta e stucchevole ipocrisia post-mortem con la quale, dal vicino di casa al controverso personaggio politico, all’estinto vengono riconosciuti meriti per delle azioni che in vita tutti si ostinavano a contrastare. Per Pannella questo è avvenuto con una solennità quasi irritante, che ha visto tutti (o quasi) i protagonisti della politica italiana rendere un devoto omaggio al caro defunto. Ma questo è una tipicità di noi italiani e non vale più nemmeno la pena scandalizzarsi.

Ciò a cui invece vale pena prestare attenzione è la pesante eredità che Marco Pannella lascia ai posteri e l’indubbio vuoto sulla scena politica che sembra così difficile da colmare. Infatti, è incontrovertibile la totale assenza di un paladino dei diritti civili del suo carisma e della sua caratura in un paese che è ancora troppo indietro sul tema. Eppure potremmo non averne più così tanto bisogno. Qualcosa, infatti, sta cambiando. L’approvazione della legge sulle unioni civili è già un (piccolo) segnale. E altri piccoli passi si stanno compiendo: c’è la riforma sulle adozioni, con diverse proposte depositate alcune delle quali prevedono adozioni per coppie omosessuali e single;  ci sono le proposte di legge su testamento biologico ed eutanasia, al momento in commissione Affari Sociali alla Camera. C’è poi la proposta di un folto intergruppo parlamentare per la liberalizzazione delle droghe leggere, tuttora in discussione alla commissione riunita Affari Sociali e Giustizia. Si tratta per il momento di semplici proposte alcune in fase abbastanza avanzata, altre meno. Ma l’indicazione che ne deriva è che l’aria stia finalmente cambiando.

L’attuale governo poi, sembra aver imboccato con particolare convinzione la strada dei diritti civili. La linea del governo Renzi, infatti, checché se ne dica, pare improntata sulla laicità più di quanto non si sia visto in qualsiasi precedente governo. A confermarlo anche le recenti affermazioni del premier dopo l’approvazione delle unioni civili (“non ho giurato sul Vangelo ma sulla Costituzione“) che per fortuna Marco Pannella è riuscito a sentire prima di passare a miglior vita. Purtroppo le resistenze sono ancora tante, e sono pure presenti nella stessa maggioranza, oltre che nell’intero Parlamento. Per questo motivo una vera azione riformatrice di stampo laico e progressista è per il momento fuori questione.

Tuttavia i semi piantati negli ultimi decenni da centinaia di battaglie radicali stanno lentamente germogliando. Lungimiranza e perseveranza sono gli ingredienti che permetteranno di vederne i frutti, e questo i radicali lo sanno bene. Ci vorrà ancora tanto tempo e tanta fatica prima avere il raccolto, ma quel momento arriverà. I radicali sono un movimento politico che, nonostante non abbia mai avuto grandi fortune alle elezioni, si è battuto per temi condivisi e sostenuti dalla maggior parte degli italiani, facendosi portavoce e promotore di epocali cambiamenti nella nostra società. Purtroppo chi non è ancora cambiata è la politica, ed è questo il grande gap da colmare. Che sia Matteo Renzi a farlo? Difficile. Ma il suo contributo c’è.

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Il diritto di non votare e quell’orribile quorum

referendum-696x298Ricorderemo il referendum del 17 aprile 2016 non solo per non aver raggiunto il quorum (cosa però non insolita negli ultimi anni), ma anche per le tante e velenosissime polemiche contro chi non ha votato e soprattutto chi ha invitato a non votare. Che l’invito all’astensione da parte del capo di governo o di altra carica pubblica sia una mossa inopportuna è sicuramente condivisibile, che rappresenti un reato punibile con il carcere forse un po’ meno, ma che ce la si prenda con chi ha deciso di non recarsi alle urne non è un atteggiamento degno di un paese libero e democratico. E questo non riguarda solo i referendum, dove con il non voto si assume una precisa posizione, ma tutte le consultazioni elettorali.

È errato dipingere l’astensionismo come un male assoluto da debellare, come una manifestazione di ignavia e di indifferenza da contrastare a tutti i costi. Molto spesso, invece, questo è frutto di una precisa scelta politica, una sincera espressione del processo democratico. È possibile individuare due motivi principali per i quali si ricorre all’astensionismo: per scarso interessamento e coinvolgimento alle questioni politiche o come atteggiamento critico nei confronti della classe politica e delle istituzioni. Nel primo caso l’elettore non esercita il proprio diritto di voto per mancanza di tempo e/o voglia nell’approfondire le questioni politiche. Tutti i cittadini italiani maggiori di 18 anni sono elettori ma saranno pure persone con interessi diversi dalla politica e con una inclinazione al pragmatismo che tende a mettere in secondo piano la partecipazione al voto quando si è presi da altri impegni. Si tratta di quella naturale “indifferenza” dell’uomo democratico individuata anni or sono dal filosofo francese Alexis de Tocqueville. In questa ottica l’astensione è un fenomeno normale e comprensibile, che può essere addirittura considerato positivo. D’altronde, meglio un non elettore che un elettore inconsapevole e male informato. La partecipazione politica, poi, non si manifesta solo con la partecipazione elettorale, ma ci sono altre forme, alle volte più efficaci, di prender parte alla vita politica di un paese.

L’astensionismo può anche essere espressione di una precisa scelta politica. Chi non vota può decidere di farlo per manifestare la sua sfiducia nei confronti della classe politica, delle istituzioni o anche delle elezioni in generale (vedi gli anarchici). Più comunemente, chi, seppur interessato alle vicende politiche, non si reca alle urne lo fa perché non trova partiti o candidati da votare. Questa situazione è anche conseguenza della fine delle ideologie e del declino dei partiti di massa. In Italia l’astensionismo segue questo trend: più aumenta la sfiducia degli italiani nei confronti della classe politica, più aumenta l’astensionismo.

Nel caso dei referendum, a questi motivi di astensione se ne aggiungono altri specifici. A giocare un ruolo fondamentale qui è il quesito: esso può essere troppo tecnico e quindi di difficile comprensione, può essere legato ad un tema troppo complicato e specifico, distante dalle esperienze individuali della maggioranza dei votanti. Tutto ciò contribuisce chiaramente a tenere i cittadini lontani dai seggi. Oppure ci possono essere problemi con l’informazione relativa al referendum. In particolare, ci può essere stata scarsa copertura mediatica della consultazione, che risulta invece essere di vitale importanza per i referendum, per via del fatto che non presentano la natura periodica e cadenzata delle tradizionali elezioni e vanno quindi annunciati con appositi spazi e tempi.

Se quindi, come è stato detto, l’astensione può manifestarsi come una scelta cercata e ponderata da parte di un elettorato consapevole, perché la nostra Costituzione prevede un quorum per considerare un referendum valido? Essenzialmente per evitare che una minoranza rovesci una legge approvata dal Parlamento.

Il problema è che un referendum così congegnato è viziato: un voto per il NO, infatti, va a favorire invece il SÌ dal momento che contribuisce a raggiungimento del quorum. Si finisce così con il mortificare la scelta di chi, conformemente alla previsione costituzionale di esercitare il voto in quanto “dovere civico” (art. 48), si reca ai seggi per esprimere la sua contrarietà all’abrogazione di una certa norma. Praticamente la scelta fatta al seggio non è quella espressa, e ciò genera un pericoloso cortocircuito per un paese democratico.

Questo non vuol dire che i nostri padri costituenti fossero degli sprovveduti e degli incompetenti. La scelta di prevedere un quorum della maggioranza degli aventi diritto è stata maturata in un’epoca in cui la partecipazione alle elezioni era molto alta e un’affluenza inferiore al 50% sarebbe stata in ogni caso considerata troppo esigua. Inoltre, il referendum è stato sostanzialmente concepito come uno strumento correttivo dell’azione del Parlamento, il quale resta il principale organo di produzione normativa, perché sede della sovranità popolare ottenuta mediante l’elezione dei suoi membri.

Tutto ciò però funziona quando c’è fiducia nella classe politica, come poteva essere nel momento in cui è nata la Repubblica, ma meno quando questa fiducia, per vari motivi, si è incrinata. Cosa fare allora? Due sono le possibili soluzioni. Una è quella di ridurre il quorum, per collegarlo alla partecipazione elettorale corrente. Questa è infatti la soluzione prevista dalla riforma costituzionale voluta dal governo, che si voterà proprio con un referendum in ottobre (ma questa volta senza quorum, perché non abrogativo). L’altra soluzione è quella di eliminare il quorum e lasciare la decisione in mano ai soli elettori che si recano ai seggi; a votanti decisi e informati, non eccessivamente minoritari vista la necessità iniziale di raccogliere le firme per l’indizione del referendum. Entrambe soluzioni valide, con i loro pro e contro, ma sicuramente migliori della situazione attuale e di quell’orribile quorum.

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Il caso Riina junior, tanto rumore per nulla

Come un fulmine a ciel sereno, tra scandali petroliferi, ministri che si dimettono, pericoli terrorismo e crisi di migranti varie, uno nuovo caso mediatico è scoppiato. È la tanto contestata partecipazione al programma tv “Porta a Porta” di Salvo Riina, il figlio del boss di Cosa Nostra Totò Riina, condannato ad innumerevoli ergastoli. Una avvenimento che ha destato un clamore alquanto eccessivo e che ha generato una serie di polemiche ancora prima che la puntata andasse in onda e che continuano ben oltre la data della trasmissione. Un polverone mediatico piuttosto incomprensibile, principalmente per due motivi.

Prima di tutto, perché non è la prima volta che un mafioso va in tv. Enzo Biagi già ne intervistato diversi, da MIchele Sindona a Luciano Liggio a Raffaele Cutolo. Michele Santoro non è stato da meno, portando sul piccolo schermo Rosario Spatola, Enzo Brusca e recentemente Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. In secondo luogo, proprio pochi giorni fa, il 4 aprile, Salvo Riina è stato intervistato dal “Corriere della Sera” sempre per lo stesso motivo: l’uscita del suo libro. Ma nessuno lo sa. Perché allora così tanto clamore per la sua intervista a “Porta a Porta”?

Qualcuno ha rinnovato la solita polemica sull’uso improprio del servizio pubblico. Una polemica ormai sterile e superficiale, che viene usata arbitrariamente ad ogni giro. Infatti, quale sia davvero il ruolo del servizio pubblico nessuno lo ha mai capito; in fondo vorremmo che trasmettesse programmi e informazioni che ci pare e piace, ma a quel punto non sarebbe più un servizio pubblico ma privato. Questa è comunque un’altra storia. Il vero problema in realtà è che ad intervistare Riina junior sia stato Bruno Vespa, quel giornalista che ci ha già abituato ad ospitate controverse (vedi la vicenda dei Casamonica), e ad interviste non proprio scomode, anche definite “scendiletto”.

Ma come si evince dalle stesse parole di Vespa che introduce il colloquio oggetto della diatriba, si tratta di un’intervista senza nessuna ambizione giornalistica o d’inchiesta, che ha conosciuto il suo successo grazie allo scalpore mediatico sicuramente voluto e ricercato. L’intervista viene proprio presentata come un “ritratto” della vita della famiglia del mafioso più famoso d’Italia. Una piccola indagine senza troppe pretese, che però contribuisce a svelare la banalità del male che si annida nella nostra società, e che può avere tratti e manifestazioni a noi sconvolgenti.

Ma fondamentalmente non si è trattato altro che di una operazione di marketing ben riuscita. L’esca è stata lanciata a dovere ed i pesci hanno abboccato: Vespa continuerà a dare notorietà ed audience alla sua trasmissione, Salvo Riina riuscirà a vendere svariate copie di un libro probabilmente inutile ed insignificante, pubblicato da una casa editrice semi-sconosciuta. Vespa è un giornalista astuto e navigato, che sa solleticare gli umori della gente. Il suo programma compie vent’anni e le celebrazioni richiedono gli immancabili botti. Stolti noi che abbiamo scambiato un piccolo petardo per fuochi d’artificio.

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Unioni civli ma non troppo

family dayIl dibattito sulle unioni civili che sta spaccando la politica italiana non è, come tutti avranno ormai capito, un dibattito sulle unioni civili. È un dibattito invece sulla possibilità per le coppie gay di avere bambini. Il che va anche bene: significa che abbiamo fatto un passo in avanti. Significa, cioè, che sulle unioni civili siamo tutti più o meno d’accordo, anche su quelle per gli omosessuali: ciò che ci preoccupa di più, invece, è la questione della genitorialità delle coppie gay, e dell’aspetto etico su come i loro figli vengano concepiti. Peccato però che il no a questo argomento farebbe saltare l’intero ddl Cirinnà in votazione alle Camere, e con esso il riconoscimento che aspettano da tempo numerosissime coppie di fatto, non solo gay, ma anche eterosessuali.

Una legge sul tema la si aspettava da tempo, e i tentativi negli anni son stati pure numerosi. I tempi sembravano ormai maturi affinché la politica facesse il passo che la società ha già fatto, ma come al solito quando in Italia si vuole fare qualcosa non c’è verso che la si faccia per bene. Con il risultato che alla fine o non si fa un bel nulla, o si combina un pastrocchio. E i motivi per cui questo ddl Cirinnà può essere definito un pastrocchio sono essenzialmente due: la natura poco chiara e confusa del provvedimento che disciplina le unioni civili ma concentrando tutta l’attenzione sulle unioni omosessuali, e la presenza, in maniera sfortunatamente frettolosa e superficiale, della questione adozioni con l’introduzione della stepchild adoption, una previsione che aggiunge un elemento di conflittualità ad una proposta di legge che, in mancanza, avrebbe potuto superare il dibattito politico e sociale con discreto successo. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, se l’intento del governo era quello di riconoscere alle coppie omosessuali uguali diritti rispetto a quelle eterosessuali, e di metterci al passo con il resto dei paesi europei, forse il tentativo non è stato abbastanza coraggioso. Infatti, la soluzione ideale a questo duplice scopo sarebbe stata quella del matrimonio. Una soluzione che non solo non è in contrasto con la nostra Costituzione (che all’articolo 29 sancisce “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” senza escludere le nozze tra persone dello stesso sesso), ma che è anche quella più facilmente praticabile rispetto alle unioni civili, proprio per la centralità data dalla Carta all’istituto del matrimonio. Inoltre, i matrimoni gay sono già previsti in numerosi paesi europei tra cui Spagna, Francia, e Gran Bretagna oltre ai paesi della Scandinavia: ottimi esempi se non vogliamo rimanere indietro.

C’è poi il tema delle adozioni. La stepchild adoption è, in teoria, una misura atta a tutelare i diritti di un minore che, trovandosi in mancanza di uno dei due genitori biologici (per divorzio, separazione o morte del coniuge), può essere adottato dalla nuova famiglia venutasi a formare. Un istituto già presente in Italia per le coppie eterosessuali, ma non per quelle dello stesso sesso. Un diritto senza dubbio da estendere, visto anche il pronunciamento del Tribunale dei minorenni di Roma che ha riconosciuto l’adozione ad un coppia di donne, ma non bisogna prescindere da tutte le conseguenze che questo può comportare. E sì, una delle conseguenze in questo caso si chiama utero in affitto, una questione talmente controversa che nemmeno sinistra e femministe sono compatte, e che andrebbe affrontata con serietà e serenità con tempi e modi diversi. 

Con questo non si vuole dire che il provvedimento sulle unioni civili sia inutile, anzi, le unioni civili sono necessariamente da introdurre nell’ordinamento proprio per ampliare il ventaglio di diritti che una normale democrazia cerca di assicurare. Il problema è che utilizzare le unioni civili come principale strumento per aumentare i diritti degli omosessuali è una mossa sbagliata sia nella teoria che nella pratica. Un vero peccato, perché la legge Cirinnà avrebbe potuto riportare il paese nella modernità dei diritti civili, ma ancora una volta è stata l’occasione per dare fiato ai tromboni del bigottismo.

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Il Natale è già una festa laica

Il Natale 2015 sembra essere un Natale diverso. Nei media e per le strade gli argomenti di dibattito sulla festa più importante della cristianità per la prima volta non si limitano ai sempre angoscianti interrogativi su cosa sia meglio regalare a parenti e amici o al classico confronto pandoro – panettone. Questa volta si parla anche di questioni più impegnative, seppure con la sempre immancabile superficialità e sprovvedutezza. 

Quest’anno il Natale 2015 sarà ricordato come il Natale che hanno cercato di cancellare, con duri colpi ai nostri usi e costumi: dal presepe alla recita a scuola. Quest’anno il Natale sarà ricordato per tutti coloro che volevano renderlo laico, che volevano snaturarlo del suo più autentico significato religioso, minando alle nostre più profonde e radicate tradizioni. 

Il casus belli è, chiaramente, quello del Natale “cancellato” a Rozzano, comune alle porte di Milano, dove il preside dell’Istituto comprensivo Garofani ha deciso di rimandare la tradizionale recita dei bambini a dopo le festività e di ribattezzarla in “Festa dell’Inverno”. Un vero sacrilegio. E dopo questo episodio altri ne sono seguiti, come un’invasione barbarica contro i nostri valori. Tanto che si è parlato di Natale come festa laica quasi fosse una bestemmia

Ma è un bene che sia scoppiato il caso. È un bene che si parli di un argomento tanto ignorato e tanto bistrattato in Italia: quello della laicità. E quello, precisamente, della laicità nel giorno del Santo Natale. Quasi un ossimoro, una contraddizione, ma in realtà un’occasione per lanciare una seria riflessione su quanti, per davvero, vivono questa festa in modo religioso. Perché il Natale, per gran parte della popolazione italiana, è già una festa laica. Lo è da quando abbiamo perso l’abitudine di andare in Chiesa il 25 dicembre, da quando la frenesia dei regali ha preso il posto del raccoglimento nel periodo dell’avvento, da quanto abbiamo smesso di pregare la sera della vigilia per giocare a tombola. 

Lo è, in poche parole, da quando il consumismo ha preso il sopravvento sulla fede. Da quando la Coca-Cola ha inventato Babbo Natale così come lo conosciamo e ne ha fatto un personaggio più venerato di Gesù Bambino. Potremmo addirittura dire che il Natale è tornato ad essere una festa pagana, come lo era alle origini. Ma forse è meglio definirlo come una festa laica e secolarizzata per un semplice motivo: perché ognuno lo può festeggiare come vuole. Lo può festeggiare in modo religioso andando in chiesa e pregando o in modo più profano comprando regali e organizzando cenoni. O in entrambi i modi, come forse siamo più abituati a fare. Ed è per questo che il Natale è già una festa laica.

Non solo: il Natale non è l’unica festività religiosa travolta dall’ondata di frivolezza e mondanità. Basti pensare al giorno dell’Assunzione di Maria (Ferragosto) dove normalmente siamo incolonnati in autostrada piuttosto che tra i banchi di una chiesa, o al giorno di Sant’Ambrogio che a Milano viene ricordato più che altro per la prima della Scala. Ecco, la difesa dei canti di Natale o del presepe di fronte a tutto ciò non può che perdere di significato.  

Per tornare al caso di Rozzano, proprio la scuola pubblica, luogo laico per eccellenza, non può essere l’istituzione issata come simbolo del Natale, ultimo bastione della fede. Sarebbe senz’altro un travisamento del ruolo e delle funzioni che la scuola deve svolgere in una società. Nonché un’ammissione di sconfitta degli stessi credenti che camuffano un luogo di formazione e di insegnamento aperto a tutti (art. 34 Cost.), in un luogo di culto destinato ad una parte. Se vogliamo festeggiare il Natale da buoni credenti è meglio farlo nel posto più adatto: in Chiesa. Per chi davvero crede.
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Evviva le bufale su Internet!

È degli ultimi tempi una curiosa e interessante sortita del famoso semiologo, filosofo e scrittore Umberto Eco il quale si è scagliato contro la pericolosa e apparentemente inarrestabile diffusione di bufale online. La soluzione proposta dall’intellettuale torinese per fronteggiare questo fenomeno è però ingenuamente semplice: affidare alla stampa responsabile il compito di sbugiardare le notizie false. È immediatamente comprensibile perché questa idea non può essere una soluzione: il numero di persone che legge i giornali è enormemente inferiore rispetto a quello che di solito reperisce informazioni online e proprio chi legge i giornali è comunemente un pubblico più consapevole, più edotto e dunque meno permeabile alle bufale. Sarebbe perciò un servizio fondamentalmente inutile perché non indirizzato a chi delle bufale ne è vittima.

Il punto è che ancora ci sfuggono i contorni del fenomeno della diffusione virale di contenuti falsi. Vediamo perché. Primo, le bufale esistevano già prima di Internet e non è detto che con il web si diffondano più facilmente. Semmai proprio grazie al web è più facile individuarle, condannarle e forse anche fermarle. Inoltre, tra mondo reale e mondo virtuale sostanzialmente non cambiano i soggetti che ne sono preda: il solo fatto di informarsi su Internet non ci rende tutti a rischio contagio; una buona cultura e una buona istruzione dovrebbero bastare a garantirci l’immunità.

Secondo, quando parliamo di bufale online forse non ci è ancora chiaro di cosa stiamo parlando. La maggior parte dei siti Internet che diffondono bufale hanno intento meramente satiricoL’esempio migliore e di maggior successo è sicuramente quello di Lercio.it, una miniera di notizie grottesche ed esilaranti costruite intorno a scenari veri o verosimili. Il sito non vuole celare la natura falsa ed improbabile della notizia, anzi a tratti sembra anche volersi smascherare; ma questo non basta ad evitare che numerose persone prendano sul serio queste notizie.

La satira poi, unita alla capacità dei social network di verificare l’impatto di una bufala sulla comunità virtuale, genera il fenomeno del trolling. Con questo termine si vuole indicare l’azione pungente e provocatoria con la quale la notizia inventata viene posta di fronte un pubblico non in grado di recepirne la natura fasulla e ironica. È forse proprio questo il motore che alimenta la diffusione delle bufale online e il proliferare di siti che creano questi contenuti: la netta separazione tra chi è in grado di riconoscere una notizia falsa e chi invece abbocca. Se si fa parte degli uni non si può far parte degli altri: insomma, o credi a tante delle bufale che girano su Internet, o non ne credi a nessuna.

Purtroppo, però, non di sola satira sono fatte le bufale. Sulla base delle tantissime persone che non riescono a distinguere una notizia vera da una inventata sono nati numerosi siti che sfruttano creduloneria e ignoranza a fini di lucro. E lo fanno su temi delicati e controversi come immigrazione e zingari. Qui non si tratta di motivazioni politiche o razziali: la creazione di tali contenuti è prettamente business (il numero di click sulla pagina infatti fa aumentare i guadagni). La successiva disseminazione, invece, gioca su xenofobie e intolleranze dell’utente-italiano medio.

La diffusione e la condivisione di bufale online è un indicatore importante per capire quanto una società sia culturalmente arretrata. Con tutti i pericoli che ne derivano. Le persone che credono alle burle di Internet sono, infatti, le stesse che periodicamente (e democraticamente) sono chiamate alle urne. Ed il passo tra credere ad una bufala online e credere ad una sparata fatta da un politico in campagna elettorale è breve, anzi brevissimo. Grazie alla diffusione virale e virtuale dei contenuti falsi, però, è possibile ricavare le dimensioni di questo fenomeno e studiarne i possibili rimedi.

Dovremmo guardare a Internet non solo come la causa, ma anche come la soluzione al problema: con l’immensa mole di informazioni reperibili online è un gioco da ragazzi smascherare le notizie false, per chi ha la voglia e l’onestà di farlo. E, una volta sbugiardata la bufala, non c’è soddisfazione migliore nel vedere dipingersi sul volto della persona che ne è stata vittima quel misto di incredulità, vergogna e malcelata rassegnazione che è proprio il motivo per il quale le bufale (la maggior parte di esse) sono messe in giro.

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Movimento 5 Stelle sei pronto a governare?

Le elezioni amministrative del 31 maggio con i successivi ballottaggi avrebbero dovuto essere appuntamenti elettorali di relativa importanza, senza lasciare troppe conseguenze e dall’esito non determinante per il governo in carica, qualunque esso fosse stato. Solo 7 erano le regioni chiamate al voto (tra cui molte con risultati scontati), e solo i 20 comuni capoluogo, con l’attenzione puntata principalmente su Venezia. Eppure queste elezioni un segnale importante, e forse decisivo, l’hanno dato. Non tanto per l’esito numerico uscito dalle urne quanto per lo scenario politico generale in cui si sono collocate.

Se volessimo incoronare un unico vincitore, questo non potrebbe essere altro che il Movimento 5 Stelle. In realtà la forza politica di Beppe Grillo non ha conquistato nessuna regione  e solo in una manciata di comuni è riuscita a far eleggere i suoi candidati (di cui 5 su 5 ai ballottaggi), ma è l’unica che può capitalizzare un risultato che la vede ormai come secondo partito dietro un PD più che indebolito, e con una percentuale che si aggira stabilmente intorno al 20%. Numeri che sono un trampolino di lancio e non un punto di arrivo. Questo perché l’attuale scenario politico vede delle situazioni più che favorevoli al Movimento, con reali possibilità di sbaragliare l’intera concorrenza e affermarsi come prima forza politica.

Primo fra tutti, lo scandalo Mafia Capitale. L’inchiesta della Procura di Roma sta seriamente facendo tremare Palazzo Chigi, e il coinvolgimento del sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione non ne è che un esempio. Ma la mossa più rischiosa per l’esecutivo potrebbe essere la blindatura del sindaco Ignazio Marino al Campidoglio, dal momento che se le indagini dovessero continuare ad avvicinarsi pericolosamente al primo cittadino romano, lì il governo rischierebbe sicuro. E il Movimento 5 Stelle ne ha approfittato: già si prospetta una candidatura di peso come quella di Alessandro Di Battista al Comune in caso di elezioni anticipate. A Roma, come in tutta Italia, il Movimento si presenta come una forza politica estranea alle logiche di potere predominanti e al marciume corruttivo dilagante, che riguarda sia destra che sinistra. Per il momento.

In più la nuova legge elettorale. Chissà se Matteo Renzi quando preparava l’Italicum, che prevede un vero e proprio ballottaggio se nessuna lista supera il 40%, avrà pensato al Movimento 5 Stelle, che ai ballottaggi ha la innata abilità di ribaltare i pronostici, come dimostrano le ultime comunali, ma come hanno dimostrato soprattutto i casi di Parma nel 2012 e di Livorno lo scorso anno.

Tutti si affannano a trovare il Podemos o la Syriza italiana, ovvero quel movimento di rottura con la tradizionale classe politica, in grado di portare cambiamento e rinnovamento. In realtà quel movimento in Italia già c’è, anche da prima dei succitati, ed è il Movimento 5 Stelle.  Non sarà di sinistra, anche se qualche punto in comune lo si ritrova (vedi la battaglia per il reddito di cittadinanza). A ognuno il suo, dunque. Syriza è andata al governo in Grecia lo scorso gennaio e Podemos potrebbe fare la stessa cosa  in Spagna a fine anno. Non resta che il Movimento 5 Stelle in Italia. Le condizioni ci sono tutte, le elezioni non ancora, ma per quelle non c’è problema: potrebbero arrivare da un momento all’altro.

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Pensioni, perché si tratta di una questione di decenza

La sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il blocco degli adeguamenti Istat per le pensioni superiori a 1500 euro non solo trafigge in modo inaspettato i piani del governo su conti pubblici e speranze di ripresa economica. In qualche modo apre anche uno squarcio su un tema troppe volte affrontato a senso unico nel dibattito politico e sociale dai media e dalle istituzioni. Da che mondo è mondo, e da che previdenza è previdenza, ci siamo sempre preoccupati di una sola cosa: le pensioni troppo basse. Giustissimo. Sono tanti gli anziani che vivono con miseri assegni, e che spesso non riescono nemmeno a provvedere ai bisogni vitali più essenziali. Ma purtroppo non ci siamo mai concentrati su un altro aspetto della questione, forse causa ed effetto di questo problema: le pensioni troppo alte

Aldilà dei ricchissimi vitalizi dei politici, vergogna italiana in Europa, e delle famigerate “pensioni d’oro” (per le quali la sacrosanta battaglia sì si fa ma ancora senza veri risultati), quello che veramente pesa sul sistema previdenziale italiano è quella percentuale di pensioni medio-alte (sopra i 3.000 euro al mese) che costano allo stato ben 45 miliardi. Si tratta di un 5% dei pensionati che assorbe il 17% della spesa previdenziale. Questa minoranza rumorosa è partita subito all’assalto una volta appreso della sentenza della Corte Costituzionale e ha levato subito gli scudi non appena il governo ha ipotizzato un bonus che escludesse le pensioni più alte. Il tutto con il sostegno di sindacati e associazioni dei consumatori, che magari nello stesso momento in cui minacciavano ricorsi, class actions e roboanti proteste, si dimenticavano di quella metà di pensionati italiani che non arrivano a percepire mille euro al mese, oppure di tutti quei giovani, pure disoccupati, che una pensione chissà se la vedranno.

Fare una battaglia per delle pensioni che superano nettamente ciò che un giovane italiano altamente formato normalmente percepisce, è un atto notevolmente indecente oltre che ingiusto.  E ha ragione il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti quando sostiene che  è «immorale rimborsare tutti». Per carità, di certo i pensionati non hanno rubato niente a nessuno e sicuramente quei soldi sono stati il frutto di duri anni di lavoro e numerosi sacrifici. Ma dobbiamo chiederci se siamo disposti ad accettare una situazione in cui pensionati che ricevono trattamenti più che dignitosi devono avere il diritto di alzare le barricate per qualche centinaio di euro in più, mentre centinaia di migliaia di giovani devono stare in silenzio in attesa di un vero lavoro che possa dar loro la minima soddisfazione di versare qualcosa all’Inps. Ciò che si chiede non è solidarietà intergenerazionale, né compassione: è puro e semplice decoro. Ma a quanto pare da un po’ di tempo a questa parte in Italia sembra un concetto del tutto sconosciuto. 

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Capire i No Expo

Bene, ora che tutti ci siamo indignati per gli scontri e le devastazioni, ora che ci siamo adirati contro i soliti black bloc e ora che abbiamo condannato questi «quattro teppistelli figli di papà» forse è arrivato il momento di fare alcune riflessioni non solo su cosa è successo, ma soprattutto sul perché. Prima di tutti i danni causati alla città e ai cittadini, la cosa che può sembrare più assurda è proprio contestare l’Esposizione Universale. Forse è questo che più sconvolge l’opinione pubblica. Di scontri, di manifestazioni di protesta ormai ne sappiamo abbastanza. Ma contestare una manifestazione di prestigio internazionale, con un tema nobile come quello del cibo, proprio è un’azione che non è comprensibile. Di Esposizioni Universali se ne fanno da tantissimo tempo e se ne continuano a fare senza troppi intoppi più o meno ogni due anni in giro per i mondo. E queste sono grandi occasioni in cui il meglio della scienza e della tecnologia vengono presentate al mondo, dove si da una grande accelerata al progresso dell’umanità. E quindi perché mai protestare? Forse Milano è un caso particolare.

È chiaro, comunque, che nessuno è contro la manifestazione in sé. L’Expo non è altro che una grande fiera di paese dove ogni espositore mette in mostra il meglio che ha da offrire. Ed è difficile essere contro una gran bella fiera di paese. Il no all’Expo deriva, invece, da un movimento molto più ampio, da un “No” contro un certo ordine socio-economico globalizzato di cui l’Expo non ne è che una manifestazione. È vero che è difficile essere contro una bella fiera di paese, ma qualcuno potrebbe  non essere pienamente contento di una fiera dove l’organizzazione non viene retribuita, dove le grandi opere realizzate vanno sempre a favore dei i soliti noti e dove a finanziare i progetti ci sono aziende che producono a danno di salute e ambiente. Ecco, a questo punto già è più difficile essere entusiasti di un evento del genere.

Sarebbe lecito però obiettare: ci sono modi e modi di protestare. Certamente. Come di recente siamo abituati a vedere (da Genova in poi), nel grande movimento di protesta “no global“, formazioni perlopiù pacifiche si mescolano con formazioni violente, di matrice anarchica (i cosiddetti black bloc). Di queste ultime si potrebbe dire che non sono animate solo dal gusto della devastazione e dello scontro, ma che affondano le loro radici  in un’azione politica ben determinata: quella di Proudhon e Bakunin per intenderci. Ma forse così si finisce per sopravvalutare dei violenti che vedono tra le loro fila anche dei pirla qualsiasi. Inoltre è difficile capire dove questi anarchici vogliano arrivare: sfasciare la vetrina di qualche banca non scatenerà di certo la rivoluzione del proletariato e approfittare di eventi isolati e sporadici, seppur di grande richiamo, alla fine sembra più somigliare al casino che fa una scolaresca in gita scolastica che ad una vera azione politica.

Il guaio del movimento No Expo, del vero movimento che voleva denunciare pericoli e contraddizioni dell’Esposizione milanese, è che non è riuscito a comunicare per bene il suo messaggio, mettendosi troppe volte di traverso ad una manifestazione che pure qualche aspetto positivo, almeno negli intenti, ce l’ha (vedi il coinvolgimento della Società Civile o l’impegno per il diritto al cibo presente nella Carta di Milano). Il tema dell’alimentazione è allo stesso tempo condanna e salvezza dell’Esposizione Universale: se da una parte ci sono a sponsorizzare l’evento le multinazionali che distruggono ambiente e salute umana, simbolo e causa di un mondo consumistico e insostenibile, dall’altra l’obiettivo “Nutrire il pianeta” è quantomai una delle più importanti sfide dei governi di tutto il mondo. Poteva essere l’ennesima esposizione di oggetti ad uso e consumo dei paesi ad economia avanzata. Potrebbe invece essere qualcos’altro. Non lasciamoci sfuggire questa occasione.

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