La straordinaria e improvvisa fine della Padania

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C’è un fatto nella politica italiana che è passato in secondo piano nel trambusto generale di questa lunga ed estenuante campagna elettorale. Si tratta della fine del “sogno padano”, di quella indomita e ossessiva voglia di indipendentismo del Nord Italia, ricco e produttivo, da un Sud pigro e arretrato. Questo chiaramente secondo la versione degli ex indipendentisti. Con la scomparsa della dicitura “Nord” dal nome della attuale Lega si è messa fine a questa rivendicazione durata più di venti anni e capace di costituire un partito di grande consenso e successo, tuttora il più longevo della scena politica italiana.

Ora il programma politico della Lega è passato dall’indipendentismo del Nord (o autonomismo nella più moderata delle ipotesi) al nazionalismo e al sovranismo (la nuova parola d’ordine della politica) dell’intera Repubblica italiana. È comprensibilmente un netto cambiamento per una delle più importanti forze politiche in Italia, già avviato da tempo, ma che ora si conferma in tutta la sua verità. Inspiegabilmente, però, a tale evento non sembra essere stata riservata la giusta attenzione, quasi fosse un processo prevedibile e atteso, oppure perché ha vinto la distrazione generata da altri avvenimenti, ritenuti più importanti, probabilmente in seguito ad un difetto di valutazione.

Due sono le implicazioni, di una certa rilevanza, di questa trasformazione della Lega. La prima è la scomparsa di un forte movimento indipendentistico nel nostro paese. Un movimento che, paradossalmente, si era fatto forte su una idea debole. L’indipendentismo della Padania, regione inventata dalla politica e non costruita dalla storia, era riuscito ad affermarsi rispetto ad altre istanze  territoriali di questa natura molto più autentiche e legittime, quali quelle della Sardegna e della Sicilia, ma anche del vecchio Regno delle Due Sicilie. Esse, infatti, potrebbero contare su un patrimonio storico e culturale reale e su confini geografici certi. Evidentemente la carenza di queste caratteristiche è stata fondamentale per la fine del progetto politico della Padania. Una notizia senza dubbio positiva, dal momento che le istanze autonomiste rappresentano per il nostro paese un serio pericolo, essendo il nostro uno Stato ancora giovane e piuttosto fragile, già soggetto a numerosi problemi di grave entità quali criminalità organizzata e terrorismo interno. La fine dell’indipendentismo settentrionale italiano sarebbe poi una notevole eccezione nel panorama europeo, dove le spinte secessionistiche sono più forti che mai (si veda il caso della Catalogna) e rischiano di mettere in crisi gli Stati nazionali, entità che si credeva solide ed inscalfibili.

D’altra parte, al tramonto dell’indipendentismo del Nord subentra, quasi a continuare il paradosso di cui si diceva prima, la nascita di un forte senso di nazionalismo. Qui si rileva la seconda implicazione della trasformazione della Lega, stavolta di segno negativo. Le idee xenofobe e identitarie, già presenti nella versione autonomista, trovano maggiore sfogo e legittimità in un discorso nazionalista. Alle incertezze date dalla globalizzazione si risponde con il concetto di sovranismo ed il rafforzamento dei confini nazionali. La mutazione della Lega va in questo senso e segue, questa volta, una tendenza molto diffusa in tutta Europa. C’è da chiedersi quale delle due nature della Lega possa essere più pericolosa. La risposta pare purtroppo essere la seconda, quella di una Lega sovranista. Le rivendicazioni della vecchia Lega Nord non si configuravano come un vero pericolo, proprio per la mancanza di validi requisiti per una battaglia volta all’indipendenza. Il discorso sovranista, invece, trova più spazio di affermazione e riscuote maggiore successo, perché atto a dare risposte, di dubbia validità ma comunque risposte, ai problemi dell’attualità. La morte della Padania sarà pure una bella notizia, ma ora tocca preoccuparsi delle nuove idee di Italia che vengono proposte e possibilmente attrezzarsi al meglio contro di esse.

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Il ritorno di Berlusconi con sollievo

attends 'Che Tempo Che Fa' Tv Show on November 26, 2017 in Milan, Italy.

C’è uno strano sentimento che pervade l’elettorato di sinistra in Italia in questa travagliata stagione politica. In un momento di grande confusione tra partiti, leader, lotte sindacali e civili, populismi di varia matrice fino ad arrivare al ritorno di fascismi e persino nazismi, l’elettore della sinistra si trova in una posizione strana riguardo ad una delle figure politiche che ha da sempre avversato: l’ex cavaliere Silvio Berlusconi. È come se in tutto questo scenario la portata negativa e perniciosa di Berlusconi venisse sovrastata da altri e più imminenti pericoli, e come se il suo ritorno venisse quasi accolto con sollievo, per non dire come una salvezza. Questa pruriginosa e finora impensabile situazione è ben rappresentata dal “gioco della torre”, al quale più o meno seriamente il tipico elettore di sinistra si è prestato.

Tutto comincia con l’intervista a Eugenio Scalfari nella trasmissione “Di Martedì” durante la quale il conduttore Giovanni Floris ha chiesto al fondatore de “la Repubblica” chi sceglierebbe tra il leader di Forza Italia e il candidato premier del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. La risposta è stata Berlusconi, ed ha destato parecchio scalpore considerato che Scalfari è stato suo grande oppositore fin quasi dal primo momento. Il gioco della torre ha visto Di Maio finire buttato di sotto. Sia chiaro, l’ipotesi del gioco è una forzatura ed una semplificazione della realtà, che non contempla l’esistenza di altre opzioni e non tiene conto del contesto. Tuttavia racconta di una situazione reale, non immaginaria, un dilemma vero. Ed è un dilemma che bisogna avere il coraggio di risolvere, almeno in via astratta, come ha fatto Scalfari scegliendo Berlusconi

La scelta fatta da Scalfari non è incomprensibile e stralunata. Appare, invece, molto più il calcolo ragionato di un navigato esperto di politica. Scalfari sa che Berlusconi non è più il pericoloso animale politico di una volta, capace di piegare il Parlamento al proprio volere e di rendere le istituzioni repubblicane strumenti per la salvaguardia dei propri interessi personali. Nelle intenzioni e nelle capacità, l’ex cavaliere sembra essere piuttosto smorzato. In questo proposito gioca l’età, che avanza per tutti e costringe a riconsiderare progetti e fatiche. Ciò che tuttavia continua a spingere Berlusconi nel suo impegno politico è il forte orgoglio e l’innato spirito da leader, nonché una certa voglia di rivincita nei confronti di chi lo ha voluto vedere fuori dai giochi.

Oltre a quello appena menzionato, ci sarebbero altri motivi per i quali Berlusconi rappresenterebbe allo stato attuale un problema meno preoccupante rispetto a Di Maio. Innanzitutto Berlusconi è un male conosciuto, mentre Di Maio e il Movimento 5 Stelle sono un male ancora incognito. Un governo Di Maio sarebbe un bel salto nel buio, una navigazione in acque sconosciute, per motivi di imprevedibilità nell’azione di governo e di capacità nell’assumere tale ruolo. Inoltre Berlusconi, benché personalità esuberante e talvolta impetuosa, porta in dote con se il moderatismo di una certa destra italiana, con il bagaglio di conoscenze delle pratiche politiche e il senso di responsabilità che caratterizzano alcuni dei suoi esponenti, come il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, già ventilato come candidato premier. Le velleità antisistemiche ed il populismo del Movimento 5 Stelle potrebbero risultare in una azione politica fin troppo rischiosa per il paese. Infine vi è un motivo meno ideologico e più viscerale: il Movimento 5 Stelle si configura come il nemico più vicino per la sinistra, in quanto beneficiario dei voti da essa persi, ed è ora il soggetto politico preferito da quel popolo di operai e classe medio-bassa che una volta si chiamava proletariato e votava in massa per il PCI. Una netta vittoria del Movimento 5 Stelle equivarrebbe alla definitiva sconfitta della sinistra nel rappresentare e convincere un certo popolo. Una vittoria, invece, di Berlusconi tale che la sinistra riesca a difendere parte dei suoi consensi dall’erosione dovuta al Movimento 5 Stelle, potrà essere invece meno indigesta e meno amara.

La formulazione del gioco dice tutto della situazione della sinistra italiana, ridotta, come dimostrano i risultati delle recenti elezioni in Sicilia e ad Ostia, ad un ruolo di secondo piano, indebolita e ridimensionata. Ciò però non deve essere motivo di avvilimento e non deve indurre all’autoflagellazione. Anzi, guardare agli altri ed esprimere delle preferenze serve a non smarrirsi e a ritrovare punti fermi. Se il pragmatismo e il calcolo strategico sono buone virtù in politica, allora per il momento va bene anche Berlusconi.

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La Germania ci sta ricascando?

Source: www.spiegel.de
Source: www.spiegel.de

Le elezioni federali in Germania del 24 settembre 2017 hanno consegnato un risultato che, benché piuttosto prevedibile, contiene elementi di novità e di autentica rottura per  lo scenario politico tedesco. La riconferma per la quarta volta consecutiva della cancelliera Angela Merkel, seppur indebolitasi, non è rivelatrice di una consultazione elettorale che in realtà ha visto altri protagonisti conseguire risultati densi di significato, in positivo e in negativo. Si potrebbe partire dal momento di difficoltà dei partiti tradizionali, CDU-CSU e SPD, vale a dire i cristiano-democratici e i socialdemocratici, rappresentanti delle ideologie e del patrimonio socio-culturale del ‘900 e di una lunga storia politica che ormai appare consumata. I socialdemocratici, in particolare, conseguendo il loro peggior risultato nella storia delle elezioni tedesche, sono la formazione che soffre di più. Una situazione tipica in tutta Europa da diverso tempo, che sta ad indicare una crisi della sinistra che ha assunto caratteristiche strutturali e assai critiche.

Ma la vera sorpresa è data dal risultato dell’AFD (Alternativa per la Germania), partito nazionalista di ispirazione vagamente neonazista, anti-UE e anti-immigrati, che ha conquistato il 12,6%, corrispondente a quasi 6 milioni di voti. Bisognerebbe leggere con più attenzione la frase precedente. Un partito di ispirazione neonazista con quasi 6 milioni di voti. Potremmo (e dovremmo) preoccuparci, ma non è questo il punto. Il punto è: perché di nuovo? e soprattutto perché in questa Germania, quarta potenza economica mondiale, con disoccupazione al 3,6%, e surplus commerciale record? Sembrerebbe chiaro che la questione non sia di natura economica, ma sarebbe più giusto dire che non lo è ancora, poiché, in fondo, è sempre il raggiungimento e la conservazione di un certo stato di benessere ad animare le azioni degli individui e ad agitarne i sonni.

Nella società attuale, aperta e globalizzata, la minaccia al benessere è chiara ed è rappresentata dallo straniero, dall’immigrato con diverso retroterra culturale che, per sua volontà o per oggettiva difficoltà, non si integra nella società di destinazione. Il miglior esempio, e caso più comune, è il mussulmano nella società occidentale. Questo tema è di centrale importanza nelle istanze politiche dell’AFD, ed è quello che senza dubbio ne motiva il successo. La questione, però, è comprendere quanto questa minaccia sia concreta, e quanto sia una reale possibilità di nocumento alla nostra società. I problemi legati ad una difficile integrazione ci sono, ma sono ben lontani da certe rappresentazioni, e sicuramente non giustificano diffusi allarmismi.

Un pericolo reale però c’è, ed è quello del terrorismo. Il terrorismo è un grande problema della società moderna e globale, perché solo in essa può avvenire: le sparatorie nei luoghi di aggregazione, le bombe piazzate nei non-luoghi della vita quotidiana (le stazioni metro, gli aeroporti). In questo caso ci si può solo difendere, perché un vero nemico da attaccare non c’è: prende molte forme, è sfuggente, è già da noi, siamo noi. La questione è così complessa e delicata che purtroppo si presta a facili strumentalizzazioni e diviene oggetto di riprovevoli battaglie politiche. 

Le inquietudini e la voglia di reagire della società occidentale trovano sbocco in idee populiste e xenofobe, contrarie ai principi umanitari e all’idea di multiculturalismo affermatisi nel secondo dopoguerra, ma sinceramente saldate nelle sfide che caratterizzano il nostro tempo. La Germania, poi, si ritrova ad avere un ruolo anticipatore sui tempi, come d’altronde dimostra la sua storia. Il nazionalismo sempre presente anche se latente; la ricerca di un’unità comunitaria intorno ad una “cultura-guida” (Leitkultur) data da un popolo e non dalla geografia (che per la Germania gioca a sfavore);  il passato nazista e le sue diffuse rappresentazioni nostalgiche spiegano il successo dell’AFD.

Se ne potrà venire fuori? Questa volta la Germania, la parte libera e democratica della Germania, non gioca una partita da sola ma, proprio per via della globalizzazione, l’arena vede in campo numerosi soggetti. Combattere le disuguaglianze globali, superare colonialismi vecchi e nuovi, ridefinire le architetture istituzionali internazionali sono i passi necessari da prendere. Nel frattempo, si consiglia di guardare con attenzione la Germania.

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Il generale Ripper vive a Pyongyang?

drstrangelove060pyxurzCi sarebbero centinaia di motivi per i quali pensare che una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord sia impossibile dal verificarsi, eppure questi potrebbero non bastare. Le cronache internazionali recenti sono sempre più contraddistinte dalle notizie di esperimenti nucleari nordcoreani e dalle conseguenti reazioni statunitensi. La situazione di tensione tra i due paesi, di lunga durata ma finora latente, si è intensificata con la salita al potere di Kim Jong-un nel 2011 e recentemente con l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che pure si era detto disponibile a dialogare con il regime di Pyongyang. La presenza ai vertici di questi due paesi di personalità forti ed imprevedibili rende ancora più pericoloso il confronto.

Il dato preoccupante è che un conflitto tra Stati Uniti e Corea del Nord comporterebbe uno scontro dalla portata globale, una nuova guerra mondiale, con scenari imponderabili e mutevoli, e che potrebbe riproporre una contrapposizione a blocchi che credevamo di aver superato dopo la caduta del muro di Berlino: da una parte uno schieramento occidentale a guida Usa e dall’altra uno schieramento post-comunista, con la Cina e Russia, rivali degli Stati Uniti ma non certamente alleati di Pyongyang, che a vario titolo e grado potrebbero far parte della contesa. Senza dimenticare che una guerra mondiale al giorno d’oggi significherebbe una guerra nucleare, con conseguenze devastanti per l’intera umanità. L’incubo di un “generale Ripper”, il folle personaggio del film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick che per via delle sue paranoie causa l’apocalisse, torna a vivere. Può la logica della deterrenza, che ha funzionato durante la Guerra Fredda, funzionare anche ora?

Per rispondere a questo quesito bisognerebbe indagare sulla razionalità degli attori. In una situazione di distruzione mutua assicurata (in inglese mutual assured destruction, MAD), in cui tutte le parti posseggono armi nucleari e perciò finirebbero per annientarsi l’un l’altra, nessuno si sognerebbe di eseguire l’attacco. Questo clima ha caratterizzato il periodo detto di “equilibrio del terrore” durante la guerra fredda che ha fondamentalmente tenuto in piedi il mondo, seppur sul ciglio di un burrone. Stati Uniti ed Unione Sovietica erano potenze che non solo capivano e ricercavano la deterrenza, ma sapevano anche farla funzionare: numerose erano infatti le occasioni di dialogo per darsi regole e porre limiti. I due attori della Guerra Fredda erano perciò totalmente razionali.

Su Kim Jong-un le opinioni sono ancora discordanti. Le storie che lo riguardano, riportate sui media occidentali, non ne tratteggiano un personaggio ragionevole e coscienzioso. È tuttavia da confermare la veridicità di tali storie, le quali potrebbero invece essere state confezionate per alimentare un certo tipo di narrazione ad uso e consumo occidentale. Quel che di certo si sa riguardo a Kim Jong-un, è che si tratta di un leader risoluto e spietato, che ha concentrato e consolidato nelle sue mani un potere che prima non aveva. Potrebbe essere capace di tutto, ma esperti non ne negano la razionalità. Kim Jong-un non sarebbe dunque soltanto un pazzo. Di Trump invece che cosa potremmo dire? 

La politica di Trump nei riguardi della Corea del Nord è meno indulgente rispetto a quella di Obama, che invece puntava sulla “pazienza strategica“, ovvero l’attesa di una crisi interna al regime di Pyongyang che ne avesse sancito la fine. L’aggressività e l’escandescenza di Trump nei confronti della Corea del Nord e del suo leader, già manifestata prima ancora della sua elezione, potrebbe aver influito sul comportamento del regime che con l’acquisizione dell’arma nucleare non cercherebbe altro che un motivo di esistere di fronte alla comunità internazionale. 

Trump e Kim, i due ossi duri della politica mondiale, si ritrovano quasi per caso protagonisti di un gioco di brinkmanship dove a rischiare ancora una volta non sono solo le due parti in gioco, ma è il mondo intero, come nella Guerra Fredda. Una situazione che da apparentemente innocua e gestibile diviene incontrollabile, proprio come nel film di Kubrick. Speriamo solo non finisca allo stesso modo. 

 

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E se il ministro Poletti avesse un po’ ragione?

Diciamoci la verità, è propria dura essere un giovane italiano in questa epoca storica. Gli anni ’60 sono lontani, quelli della contestazione giovanile e del boom economico. Tutto allora sembrava più facile (ed effettivamente lo era): il lavoro non mancava, c’erano prospettive e fiducia nel futuro, i giovani erano finalmente riusciti a farsi ascoltare e avevano anche un po’ cambiato il mondo, con la rivoluzione dei costumi, delle relazioni sociali, della sessualità. Oggi l’economia arranca, il lavoro non c’è, i genitori si lamentano di noi, il governo ci ignora e i politici con una certa cadenza esprimono il loro disappunto nei confronti della nostra generazione.

In principio fu il compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi (già famoso per la dichiarazione d’amore sulle tasse), che se l’era presa con i “bamboccioni”, ragazzi che arrivata una certa età non lasciano la casa dei genitori. Poi toccò all’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, che nel 2012 definì i giovani “choosy”, cioè schizzinosi, nel senso che pretendono troppo quando si tratta di trovare un impiego lavorativo. Infine ecco l’attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti che, di fronte al dato di 100 mila giovani l’anno che emigrano all’estero,  ha affermato che alcuni di loro è meglio “non averli tra i piedi”. Parole che hanno immediatamente scatenato le polemiche, non fosse per le contestate riforme del mercato del lavoro che ha attuato il governo, dal Jobs Act ai voucher, proprio nel tentativo di dare occupazione ai giovani, a quanto pare con scarsi risultati. Ma, oltre alle critiche, sarebbe opportuna anche una riflessione.

I problemi del nostro paese che investono in modo particolare i giovani li sappiamo tutti. Scarsi fondi per la ricerca; sistema scolastico superiore antiquato e disallineato rispetto al mondo del lavoro; sistema universitario baronale, iniquo e labirintico; mercato del lavoro che spaccia la flessibilità come un premio e la stabilità come un fardello, portando al ribasso la qualità degli impieghi; inesistenti politiche di supporto alle giovani coppie. Solo per citarne alcuni. Aggiungiamoci poi una classe politica vecchia, inadeguata e autoreferenziale, prima causa di tutti questi malanni, e allora avremo il quadro completo della situazione.

Ma cosa facciamo noi giovani contro tutto questo? Se emigrare è una soluzione talvolta inevitabile, legata all’istinto di sopravvivenza, ed è insieme gesto di coraggio, sdegno e rifiuto, lamentarci e stare a guardare la barca che affonda non contribuirà a cambiare le cose. L’affermazione del ministro Poletti probabilmente non voleva invitare i giovani che sono rimasti nel nostro paese a fare la rivoluzione. Né voleva, ce lo si augura, insultare quelli andati via. Era più un gesto di stizza nei confronti di critiche politiche che in cuor suo ammetteva come motivate. Ad ogni modo il ministro ha colto un aspetto importante della questione. E questo riguarda la volontà di cambiamento. Lo spopolamento demografico e intellettuale del paese non è solo conseguenza di gravi deficienze politico-istituzionali, ma è anche, e soprattutto, causa di catastrofi future. Se dal disprezzo della politica non si passa all’impegno per un suo cambiamento la situazione finirà per peggiorare. E questo cambiamento non può che arrivare dai giovani: da quelli che hanno deciso loro malgrado di rimanere in Italia e che continuano ad avere fiducia. Non ci vuole un Poletti per capirlo.

**EDIT 29 marzo

Il ministro Poletti non smette di scatenare polemiche e a poco tempo dall’affermazione sui giovani che espatriano ha pensato bene di dare un consiglio a chi è in cerca di lavoro sostenendo che si “creano più opportunità giocando a calcetto che spedendo curricula”. Sebbene mal espresse, e soprattutto mal interpretate da chi opportunisticamente le strumentalizza a fini politici, queste parole contengono più di un fondo di verità. Oltre a dire ciò che tutti già sapevamo, che cioè spedire il curriculum non è abbastanza nella ricerca di un lavoro, e che molto spesso esso viene preso in considerazione o cestinato in modo del tutto aleatorio o a seconda di criteri che non per forza privilegiano il merito, queste parole sollevano il tema delle cosiddette “relazioni sociali“, e quindi di conoscenze e reti di amicizie che spesso vengono automaticamente equiparate a raccomandazioni. Ma non è sempre così, anzi. 

La capacità di costruire buoni rapporti sociali e di dimostrare la propria disponibilità e convinzione verso un certo impiego lavorativo è un elemento prezioso che vale molto più di un curriculum. Questo è evidente ora e lo era ancor di più in passato quando non esistevano candidature online e per trovare un lavoro si era costretti ad andare fisicamente in giro e a chiedere a parenti e amici. Sembra inutile, ma alla fine sorprendentemente non lo è, aggiungere che non sarà un curriculum a qualificarci come persone capaci e meritevoli di ottenere un posto di lavoro, e non sarà un curriculum a dimostrare appieno le nostre competenze e qualità. Per fortuna. 

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Periferie di tutto il mondo (unitevi?)

Se dalle elezioni presidenziali americane 2016 abbiamo imparato qualcosa questa è l’importanza fondamentale e decisiva del voto delle cosiddette “periferie“: cioè di quelle zone lontane dai grandi agglomerati urbani e perciò dai centri di potere politici ed economici. Quella America già definita “profonda”, rurale e tradizionalista, costituita da quella “maggioranza silenziosa” (già invocata da Nixon) che questa volta ha alzato la voce. L’illusione che a contare potesse essere solo l’America delle due coste, il volto “mainstream” di Hollywood e della finanza newyorkese, è durata tutta la lunga campagna elettorale e si è infranta in una sola notte nel giro di poche proiezioni, per il gran sgomento di cronisti e commentatori che nulla di tutto ciò avevano previsto (o che forse non volevano prevedere).

Il malessere e il risentimento contro la classe politica al potere covato nelle periferie sono stati facilmente catalizzati da movimenti di natura populistica, che con argomenti e atteggiamenti semplici (e semplicistici, spesso banalizzanti) hanno gioco facile nell’ottenimento del consenso. Un fenomeno dalla caratura internazionale e dalla diffusione ampia e trasversale nel mondo occidentale: l’elezione di Trump alla Casa Bianca non è che una ulteriore conferma dopo il voto sulla Brexit. E ora potrebbe toccare ad altri paesi europei con le elezioni nel 2017 in Francia, dove Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha grandi chances nella partita presidenziale, e in Germania, dove l’ascesa del partito populista e xenofobo AFD sta facendo tremare la solidità della cancelliera Angela Merkel.

Ma come si spiega questa rivolta internazionale delle periferie contro i governi al potere? Per lungo tempo ci siamo illusi che la prosperità promessa dall’economia globalizzata potesse favorire tutti in modo indistinto garantendo un innalzamento generalizzato del livello di benessere: dal finanziere di Wall Street all’allevatore del Wyoming, e anche più là nel mondo, fino agli abitanti degli slum di Nuova Delhi e delle favelas di Rio. A quanto pare non è andata così. La sfiducia verso la globalizzazione è la chiave per capire l’esito del voto americano e di quello britannico, e probabilmente anche di quelli a venire. In questi casi la reazione è stata cieca ed istintiva, frutto di un malcontento raccolto e cavalcato da campioni della demagogia.

In un’epoca in cui gli uomini politici si schierano o si arrendono alle logiche, spesso nefaste, della globalizzazione, chi promette di riprendere in mano le redini della situazione e di riportare la barra dritta ottiene facilmente il consenso, soprattutto in quegli strati di popolazione poco educata, anziana, e appartenente alla classe media impoverita che infatti sono stati decisivi per la vittoria di Trump. Con il paradossale risultato che araldi del neoliberismo e delle élite finanziarie mondiali si ritrovano a propugnare le cause del popolo. E la toppa, purtroppo, potrebbe essere peggio del buco.

Una analisi più approfondita del fenomeno, però, ci dirà che il decadimento della politica non è il problema, ma una conseguenza. Se la stessa classe politica non riuscirà a riparare lo scollamento che c’è tra il centro e le periferie socio-economiche, e a rimediare agli effetti negativi della globalizzazione, il populismo non potrà che avere terreno fertile, e sarà concepito come unica e adeguata risposta. Le crescenti disuguaglianze, la marginalizzazione di poveri e minoranze, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e del welfare state, il dilagare di corruzione e criminalità organizzata, l’inefficienza e la burocrazia delle strutture statali: sono questi i fattori che generano sfiducia nella gente e sono alla base del divario tra centro e periferia. Ricucire questo strappo deve essere l’obiettivo principale di una classe politica che non vuole perdere e non vuole perdersi. Qualsiasi soluzione all’insegna della continuità sarà destinata al fallimento e ad avere conseguenze ben peggiori di una sconfitta elettorale. Fintanto che questo non sarà fatto la rivolta delle periferie sarà da prendere come un chiaro avvertimento. E guai a dire che non ne sapevamo niente. 

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I fatti di Goro e quello che siamo

barricate gorino-2Partiamo dal presupposto che nessun sano di mente si sognerebbe mai di alzare le barricate per negare l’accoglienza a 12 donne, di cui una incinta, che fuggono da guerra e miseria. Eppure questo è successo. Tutti ci siamo sforzati a dare un significato alla vicenda di Goro, dividendoci tra chi ha difeso la ribellione dei residenti definendola una “nuova Resistenza” e chi invece l’ha considerata vergognosa, e non degna di rappresentare il paese. Di cosa si tratta quindi? Di zoticoni razzisti manipolati da parti politiche o di cittadini esasperati in lotta contro le istituzioni? Proviamo a scomporre l’intero caso per identificarne i singoli elementi.

I cittadini protagonisti della rivolta sono quasi tutti vongolari e pescatori di Gorino, un frazione di Goro di 400 anime dove i cellulari non prendono, Internet non arriva e praticamente non ci sono luoghi di aggregazione. Un luogo ai margini, dimenticato da Dio verrebbe da dire. Una comunità isolata costituita fondamentalmente da una fascia sociale a basso livello di istruzione e scarso grado di apertura. Una situazione che probabilmente non aiuta ad empatizzare con chi si trova in difficoltà. Questo, chiaramente, non è una colpa, ma  al contrario è indice di grande vulnerabilità: in un tale contesto trovano terreno fertile xenofobia e intolleranza.

Di conseguenza, l’attività di formazioni estremiste e xenofobe che sfruttano tale situazione catalizzando il malcontento gioca un ruolo rilevante. D’altronde, la zona rientra nel raggio d’azione della Lega Nord, che già da tempo stava organizzando la protesta, e la continua opera di disinformazione sempre condotta da organi schierati politicamente ha sicuramente fomentato odio e rancore.

D’altro canto, la popolazione che ha alzato la voce contro i migranti è anche espressione di quella classe media impoverita a causa dell’interminabile crisi economica. Una categoria socio-economica che credeva di aver raggiunto un livello di sicurezza inalienabile e che ora invece si ritrova a rischio povertà. Il territorio di Goro e del delta del Po è infatti colpito da una crisi economica ed ambientale di grave portata, tuttora al di fuori delle cronache nazionali. Inserendo l’accaduto in questo preoccupante contesto, la protesta assume senz’altro un diverso significato.

Inoltre, la protesta è anche frutto dell’esasperazione per il modo in cui i residenti sono stati trattati dalle istituzioni nella gestione della vicenda. Una vicenda che indica anche il totale dilettantismo con il quale la procedura di accoglienza viene gestita a livello nazionale. Portare dei profughi in un posto che non ne aveva mai visti prima con una ordinanza immediata di requisizione dell’unico ostello presente in città non è stato certo un colpo di genio. Se in questo posto isolato l’unica presenza delle istituzioni si manifesta in situazioni come questa, la reazione della popolazione residente non può che essere di segno negativo. Fermo restando che si è evidentemente ceduto in eccessi, per via delle motivazioni succitate.

Proprio quest’ultimo punto può essere cruciale per interpretare l’intero caso: la spiegazione va fondamentalmente ricercata nella rottura del nesso fiduciario tra cittadini ed istituzioni, aggravata dalla pesante crisi economica. In una situazione diversa, di sintonia con la classe politica al comando, e di sicurezza e stabilità economica, sollevazioni del genere, veicolate dal solo fattore identitario e dall’esigenza di maggiore sicurezza, difficilmente si sarebbero viste. Sembrerebbe una conclusione troppo semplice, ma proprio per questa sua natura spesso si tende ad ignorarla.

Tornando alla domanda di partenza: cosa siamo, quindi? Siamo ignoranti razzisti o cittadini arrabbiati? Siamo il risultato di questa miscela di fattori che si alimentano a vicenda. La povertà, l’emarginazione sociale, l’arretratezza culturale e l’influenza di movimenti xenofobi tendono a generare dei mostri. Questa volta si è trattato di un eccesso, anche se nessuno può ancora dirci se si tratterà dell’unico caso di eccesso.

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“Game of Referendum”: la partita politica dietro il voto del 4 dicembre

Nel marasma generale di una campagna elettorale cominciata fin troppo presto e che a due mesi dal voto ha già raggiunto vette inaudite di esasperazione, sembra già necessario tirare il fiato e prendersi un momento per riflettere. L’esercizio utile in questo caso è guardare oltre l’importante appuntamento elettorale e provare a delineare scenari ed equilibri politici di quella che potrebbe essere l’Italia del dopo referendum. Perché forse è solo così che si può comprendere meglio quello che sta accadendo ora e si può riuscire a dare un senso a tutto il parapiglia.

Come la riforma costituzionale possa incidere su qualità e quantità della produzione normativa e più in generale sulla vita politica del paese è ancora una grossa incognita. Quello che si sa è che si tratta di una riforma rilevante, che andrebbe a modificare profondamente l’ordinamento dello Stato: stiamo pur sempre parlando della revisione di ben 47 articoli della Costituzione. Tuttavia, previsioni e profezie emanate dalle parti a sostegno del Sì e del No appaiono piuttosto esagerate quando dipingono situazioni apocalittiche in caso di vittoria dell’uno o l’altro schieramento. Molto probabilmente non si verificheranno crolli dei mercati e disastri economici, e nemmeno derive autoritarie del paese o marce su Roma. L’esasperazione del confronto non è data dalla passione nel dibattere sul merito della questione, vale a dire sulla scelta di un bicameralismo paritario piuttosto che differenziato, sulla elezione diretta o indiretta dei nuovi senatori, sulla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. La vera posta in palio è un’altra, e riguarda i nuovi equilibri di potere.

Il quadro politico italiano è in piena fase di ridefinizione. L’irruzione del Movimento 5 Stelle con la sua impostazione post-ideologica e la retorica di superamento del classico schema destra-sinistra rappresenta già da qualche anno una novità importante nel panorama politico italiano, ma è con i suoi recenti successi elettorali che è diventato un attore affermato e di primo piano, che ha trasformato il sistema politico italiano in un tripartitismo estraneo alla nostra storia e al quale sembra ancora troppo difficile abituarcisi. Il centrodestra, dal canto suo, dopo l’uscita di scena dello storico leader Silvio Berlusconi è alla ricerca di un nuovo slancio e possibilmente di una nuova identità: per questo è sceso in campo il manager Stefano Parisi che, galvanizzato dal buon risultato ottenuto alle amministrative di Milano, tenta l’impresa.

Quanto al centrosinistra, ridotto ormai al solo PD, le protratte tensioni interne al partito denotano una guerra di posizione tra visioni politiche diametralmente opposte che non aspetta altro che arrivare allo scontro finale. Da sottolineare anche la ormai quasi irrimediabile irrilevanza della sinistra radicale che per lungo tempo nella storia repubblicana ha giocato ruoli di primo piano. Tutte queste situazioni che denotano una certa instabilità nel sistema potrebbero trovare nel referendum costituzionale la via della loro risoluzione, e gli esponenti politici ne intravedono nettamente le opportunità ed i rischi.

A caratterizzare la partita del referendum vi è la figura del premier Matteo Renzi, una delle più importanti novità della scena politica italiana che in questo appuntamento elettorale attende il primo vero giudizio sull’operato del suo governo. La personalizzazione del referendum non ha fatto altro che alimentare le tendenze in atto e incendiare il clima di scontro, divenuto ormai una partita di uno contro tutti. Di conseguenza la posta in palio è divenuta ancora più elevata e ghiotta: se dovesse vincere il Sì Renzi acquisirebbe un consenso incommensurabile, tale da fornirgli una spinta propulsiva incredibile nel suo disegno politico. Un consenso e una legittimazione che nelle sue mani, da leader risoluto e decisionista quale è, rappresenterebbero un pericolo non da poco, ed è proprio questo il vero timore di tutte le opposizioni. La partita del referendum non è perciò né ideologica e né di merito: è una battaglia per la conquista del potere politico che nel migliore dei casi si manifesta come uno scontro generazionale e nel peggiore in una resa dei conti.

Un referendum solitamente cela dentro di se un significato che è maggiore di quello contenuto nel quesito sulla scheda. Ma questa volta la portata della consultazione è davvero di dimensioni epocali, e non per la revisione della Costituzione. Quello è forse l’aspetto meno importante. E non so se sia un bene o un male.

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Tutto quello di cui non dovremmo spaventarci sulla Brexit

Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cosiddetto Brexit,  è finora la consultazione elettorale che sta facendo più paura all’Europa Unita. In passato già altri voti popolari hanno minacciato Bruxelles, ma mai come questo. Recentemente è toccato alle elezioni in Austria, che hanno visto il leader euroscettico dell’ultradestra Norbert Hofer mancare di un soffio la vittoria. Ma non solo, i referendum si può dire siano il vero spauracchio dell’Europa e del processo d’integrazione, portatori di grandi delusioni. Le più cocenti sono quelle dei due referendum che si sono tenuti in Francia e Paesi Bassi nel 2005, con il quale i due paesi fondatori dell’attuale Unione, hanno bocciato la Costituzione europea, un ulteriore e fondamentale step nel processo di integrazione.

Ma ci sono anche i referendum con i quali Svezia e Danimarca hanno rinunciato all’adozione dell’euro (nel 2000 e nel 2003) e quelli con il quale la Norvegia ha rifiutato per ben due volte di entrare nell’Europa Unita (1972 e 1994). Ce ne sono anche tanti altri finiti bene: la stessa Gran Bretagna nel 1975 con un referendum ha confermato la permanenza nell’allora Comunità Europea, ma stiamo parlando di un’altra epoca oppure di referendum che hanno riguardato paesi di minor rilievo, come quelli che si sono tenuti nei paesi dell’Est Europa prima del grande allargamento dei primi anni 2000 (vedi Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Baltici, ecc.).

Eppure questa volta le paure e le ansie su una eventuale Brexit sembrano piuttosto esagerate e forse anche immotivate, frutto più che altro di una avvelenata battaglia politica interna al Regno Unito, caratterizzata da manipolazioni e strumentalizzazioni (si veda il tema dell’invasione dei profughi o la polemica su quanto il paese conferisce in milioni ogni anno a Bruxelles), che non da un autentico confronto su tematiche europee. Inoltre, non si tiene sufficientemente conto del fatto che la Gran Bretagna è già ora un passo fuori dall’Unione anche se è dentro il mercato unico, potendo così contare sui benefici economici ma non essendo sottoposta a vari altri obblighi, tra cui quelli derivanti da Schengen, grazie a precise clausole di opt-out. E se anche il risultato delle urne decidesse per l’uscita a pieno titolo dall’UE, per Londra e Bruxelles sarebbe facile stipulare nuovi accordi con i quali intrattenere relazioni economiche più o meno intense, come già avviene con Norvegia, Svizzera o Turchia. In poche parole l’esito referendario potrebbe essere disconosciuto quasi immediatamente, proprio come avvenne esattamente un anno fa in Grecia con il referendum sull’approvazione del piano di aiuto europeo.

Vero è che, se da un lato le conseguenze economiche di una eventuale Brexit non sono di grande rilievo nell’immediato, né per la Gran Bretagna e né tantomeno per l’UE, ciò che può destare maggiore preoccupazione sono le conseguenze politiche, soprattutto per la Gran Bretagna. In caso di una vittoria del Leave, infatti, il regno di Elisabetta II vedrebbe certamente rinvigorirsi le spinte indipendentistiche della Scozia, in maggioranza favorevole al Remain. Con molta probabilità si vedrà anche un rafforzamento delle posizioni populistiche e nazionalistiche di partiti come l’Ukip di Nigel Farage e di tutta la galassia di partiti xenofobi e di estrema destra. Per quanto riguarda la politica estera, potrebbero verificarsi diversi attriti a livello strategico oltre che con i paesi più convintamente europei, anche con gli alleati di sempre e cioè gli americani: Barack Obama ha già espresso la sua posizione contraria e preoccupata rispetto alla Brexit.

Per l’UE le conseguenze politiche riguarderebbero il processo di integrazione europea e sarebbero comunque più incerte. Sintetizzando, si possono intravedere tre possibili scenari. Nel primo ci sarebbe una accelerazione verso la disgregazione, con altri paesi che a loro volta si appresterebbero a indire referendum sulla permanenza nell’UE. Uno scenario possibile, ma in verità poco probabile.  Al contrario, la Brexit potrebbe dare un nuovo slancio verso una maggiore integrazione europea in una situazione con meno veto players, come lo è la Gran Bretagna. Uno scenario magari auspicale, ma forse ancor meno probabile del primo. Nel terzo scenario si vedrebbe un perdurare dell’attuale situazione di stallo all’interno della UE ancora per diverso tempo: l’uscita della Gran Bretagna, da paese isolazionista già con un piede fuori non inciderebbe in maniera sostanziale su equilibri e dinamiche europee. E questo scenario è quello più probabile. 

Il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016 sarà sicuramente un avvenimento storico da ricordare, con il quale i britannici avranno deciso se rivendicare a gran voce il loro splendido isolazionismo o concedersi a tenui aperture ai vicini di casa europei. Ma se questo referendum deve decidere sul destino politico dell’Europa e dell’economia internazionale temo non ci riuscirà.

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I Radicali governano

La morte del leader dei Radicali Marco Pannella, nella sua tristezza come fatto storico, è stata occasione per accendere i riflettori sull’operato del movimento radicale italiano e sulle innumerevoli battaglie per i diritti civili portate avanti nel nostro paese. Purtroppo, ciò è avvenuto con la consueta e stucchevole ipocrisia post-mortem con la quale, dal vicino di casa al controverso personaggio politico, all’estinto vengono riconosciuti meriti per delle azioni che in vita tutti si ostinavano a contrastare. Per Pannella questo è avvenuto con una solennità quasi irritante, che ha visto tutti (o quasi) i protagonisti della politica italiana rendere un devoto omaggio al caro defunto. Ma questo è una tipicità di noi italiani e non vale più nemmeno la pena scandalizzarsi.

Ciò a cui invece vale pena prestare attenzione è la pesante eredità che Marco Pannella lascia ai posteri e l’indubbio vuoto sulla scena politica che sembra così difficile da colmare. Infatti, è incontrovertibile la totale assenza di un paladino dei diritti civili del suo carisma e della sua caratura in un paese che è ancora troppo indietro sul tema. Eppure potremmo non averne più così tanto bisogno. Qualcosa, infatti, sta cambiando. L’approvazione della legge sulle unioni civili è già un (piccolo) segnale. E altri piccoli passi si stanno compiendo: c’è la riforma sulle adozioni, con diverse proposte depositate alcune delle quali prevedono adozioni per coppie omosessuali e single;  ci sono le proposte di legge su testamento biologico ed eutanasia, al momento in commissione Affari Sociali alla Camera. C’è poi la proposta di un folto intergruppo parlamentare per la liberalizzazione delle droghe leggere, tuttora in discussione alla commissione riunita Affari Sociali e Giustizia. Si tratta per il momento di semplici proposte alcune in fase abbastanza avanzata, altre meno. Ma l’indicazione che ne deriva è che l’aria stia finalmente cambiando.

L’attuale governo poi, sembra aver imboccato con particolare convinzione la strada dei diritti civili. La linea del governo Renzi, infatti, checché se ne dica, pare improntata sulla laicità più di quanto non si sia visto in qualsiasi precedente governo. A confermarlo anche le recenti affermazioni del premier dopo l’approvazione delle unioni civili (“non ho giurato sul Vangelo ma sulla Costituzione“) che per fortuna Marco Pannella è riuscito a sentire prima di passare a miglior vita. Purtroppo le resistenze sono ancora tante, e sono pure presenti nella stessa maggioranza, oltre che nell’intero Parlamento. Per questo motivo una vera azione riformatrice di stampo laico e progressista è per il momento fuori questione.

Tuttavia i semi piantati negli ultimi decenni da centinaia di battaglie radicali stanno lentamente germogliando. Lungimiranza e perseveranza sono gli ingredienti che permetteranno di vederne i frutti, e questo i radicali lo sanno bene. Ci vorrà ancora tanto tempo e tanta fatica prima avere il raccolto, ma quel momento arriverà. I radicali sono un movimento politico che, nonostante non abbia mai avuto grandi fortune alle elezioni, si è battuto per temi condivisi e sostenuti dalla maggior parte degli italiani, facendosi portavoce e promotore di epocali cambiamenti nella nostra società. Purtroppo chi non è ancora cambiata è la politica, ed è questo il grande gap da colmare. Che sia Matteo Renzi a farlo? Difficile. Ma il suo contributo c’è.

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