Ma i rifugiati non sono immigrati. Tutto il brutto che c’è dietro la rivolta di Tor Sapienza

Possiamo anche prendercela con gli immigrati. Mica vengono tutti in Italia a cercare un lavoro dignitoso e affrancarsi dalla povertà. Alcuni sono qui anche per delinquere, anche se la percentuale di delinquenti italiani e stranieri è pressoché la stessa. Possiamo anche pensare ad un inasprimento della politica migratoria e quindi parlare di restrizione agli ingressi e alla permanenza, di ridefinizione delle quote eccetera, come d’altronde è avvenuto con la legge Bossi-Fini. Sono posizioni perfettamente legittime e in teoria più che condivisibili, a patto che vengano rispettati i diritti fondamentali delle persone.

Ma quando parliamo della questione di Tor Sapienza non stiamo parlando di semplici immigrati. I residenti nel centro di prima accoglienza di viale Morandi sono 72 persone, 36 delle quali minorenni, richiedenti asilo in attesa che la loro posizione venga esaminata. Stiamo parlando quindi di rifugiati, il cui status è disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. I rifugiati sono coloro che emigrano non solo per sperare di trovare una vita migliore, ma soprattutto perché perseguitati dal loro stesso Paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppo sociale o opinioni politiche. Trattasi di persone che hanno bisogno di una certa protezione, una protezione che deriva da norme del diritto internazionale.

Di quartieri periferici e disagiati con problemi di integrazione ce ne sono a Roma e in tutta Italia,  ma di situazioni di aggressione ad un centro rifugiati non se ne sente in nessun’altra parte del mondo. Sicuramente la convivenza tra italiani e stranieri non è stata facile e non può essere facile se le istituzioni e le autorità non la gestiscono meglio. Ma è praticamente sorprendente assistere al triste spettacolo dell’odio razzista, perché di questo si tratta. Si trattasse di proteste per condannare determinati episodi di delinquenza da parte degli stranieri del centro, il tutto sarebbe più comprensibile e giustificabile, ma agli stranieri si vogliono addossare tutti i problemi del quartiere Tor Sapienza, un quartiere che da tempo vive una situazione di lontananza e abbandono da parte dell’amministrazione comunale, così come tante altre zone periferiche romane.

La nota preoccupante è che c’è proprio qualcosa che non va se centinaia di persone se la prendono con gli ospiti di un centro rifugiati che per la maggior parte sono minorenni che forse non sanno nemmeno perché sono lì e da dove vengono. A chi imputare quindi le colpe di questa degenerazione? Certo i richiedenti asilo angeli non sono, e se sperano di poter ottenere protezione dallo Stato italiano faranno bene a rispettarne le leggi e a non creare disordini. Certo l’amministrazione poteva trovare un posto migliore dove allocare il centro e garantire magari quella sicurezza e quella cura del quartiere che i cittadini di Tor Sapienza non si vedono garantita. Ma sicuramente è da deplorare il comportamento di tutti quelli che vogliono cavalcare il disagio sociale di una zona difficile per criminalizzare lo straniero e gli immigrati in genere, nel tentativo così di poter risolvere ogni tipo di problema. No, questo non è ammissibile.

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Il “formidable” Belgio tra euforia e divisioni

La trepidazione nelle strade di Bruxelles per la partecipazione del Belgio a questi campionati mondiali era già palpabile tempo prima dell’inizio ufficiale della competizione calcistica. Dalle finestre delle abitazioni spuntavano parecchie bandiere del Regno e le automobili circolavano con dei buffi copri-specchietto in tessuto con i colori del Belgio. È vero, Bruxelles, un’enclave a straripante maggioranza francofona in terra fiamminga non rappresenta in maniera autentica l’intero popolo belga, ma anche nelle Fiandre si poteva respirare un certo entusiasmo, se anche il leader del partito separatista fiammingo, Bart De Wever, ultimamente uscito vincitore dalle recenti elezioni politiche, ha confidato di seguire le gesta dei «diables rouges» e cioè di una compagine così forte che non si era mai vista.
Il Belgio, infatti, può legittimamente avere importanti ambizioni per questo mondiale , e i risultati lo stanno confermando. Il successo, però, non è arrivato per caso. È per merito della federazione calcistica belga e del suo massimo dirigente Michel Sablon che, dopo anni bui in cui il Belgio era sparito dalla geografia calcio, ha deciso di rifondare questo sport  sulla base di due elementi chiave: i giovani e l’integrazione di promettenti stelle del calcio straniere. La formazione belga, infatti, caratterizzata da un’età media inferiore ai 25 anni, vede al suo interno oltre che la storica componente vallona e fiamminga, anche la presenza di belgi di seconda generazione o naturalizzati, oramai la maggioranza della compagine. Fuori dal campo, un’altra stella nazionale belga è il cantante Stromae, di padre rwandese e madre fiamminga, cantante francofono che nonostante la giovane età ha già guadagnato la ribalta internazionale.
Giovani e integrazione, abbiamo detto. E se questi non solo ad essere gli ingredienti per far ripartire una squadra, fossero anche gli ingredienti per far ripartire un Paese? Dopo essere stato uno dei paesi che ha meglio reagito alla crisi, il Belgio ha arrestato la propria crescita, scendendo anche a tassi di variazione del PIL negativi, provocando una fuga di cervelli all’estero.  Il modello «mondiale» del Belgio potrebbe ben funzionare in un Paese così variegato, così diviso, ma nel contempo così forte. Una ricetta che ovviamente non dovrebbe seguire solo il Belgio, ma anche il resto dell’Europa che arranca.

Certo, se la poltrona del primo ministro belga dovesse ancora rimanere vacante, Elio Di Rupo infatti si è dimesso dopo la sconfitta elettorale dello scorso 25 maggio e Bart De Wever è la persona incaricata di formare il nuovo governo, piuttosto che rimanere altri 500 giorni senza un governo, come avvenuto con la crisi istituzionale del 2011, un pensierino su Sablon alla guida del Paese sarebbe lecito farlo. 
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