Il diritto di non votare e quell’orribile quorum

referendum-696x298Ricorderemo il referendum del 17 aprile 2016 non solo per non aver raggiunto il quorum (cosa però non insolita negli ultimi anni), ma anche per le tante e velenosissime polemiche contro chi non ha votato e soprattutto chi ha invitato a non votare. Che l’invito all’astensione da parte del capo di governo o di altra carica pubblica sia una mossa inopportuna è sicuramente condivisibile, che rappresenti un reato punibile con il carcere forse un po’ meno, ma che ce la si prenda con chi ha deciso di non recarsi alle urne non è un atteggiamento degno di un paese libero e democratico. E questo non riguarda solo i referendum, dove con il non voto si assume una precisa posizione, ma tutte le consultazioni elettorali.

È errato dipingere l’astensionismo come un male assoluto da debellare, come una manifestazione di ignavia e di indifferenza da contrastare a tutti i costi. Molto spesso, invece, questo è frutto di una precisa scelta politica, una sincera espressione del processo democratico. È possibile individuare due motivi principali per i quali si ricorre all’astensionismo: per scarso interessamento e coinvolgimento alle questioni politiche o come atteggiamento critico nei confronti della classe politica e delle istituzioni. Nel primo caso l’elettore non esercita il proprio diritto di voto per mancanza di tempo e/o voglia nell’approfondire le questioni politiche. Tutti i cittadini italiani maggiori di 18 anni sono elettori ma saranno pure persone con interessi diversi dalla politica e con una inclinazione al pragmatismo che tende a mettere in secondo piano la partecipazione al voto quando si è presi da altri impegni. Si tratta di quella naturale “indifferenza” dell’uomo democratico individuata anni or sono dal filosofo francese Alexis de Tocqueville. In questa ottica l’astensione è un fenomeno normale e comprensibile, che può essere addirittura considerato positivo. D’altronde, meglio un non elettore che un elettore inconsapevole e male informato. La partecipazione politica, poi, non si manifesta solo con la partecipazione elettorale, ma ci sono altre forme, alle volte più efficaci, di prender parte alla vita politica di un paese.

L’astensionismo può anche essere espressione di una precisa scelta politica. Chi non vota può decidere di farlo per manifestare la sua sfiducia nei confronti della classe politica, delle istituzioni o anche delle elezioni in generale (vedi gli anarchici). Più comunemente, chi, seppur interessato alle vicende politiche, non si reca alle urne lo fa perché non trova partiti o candidati da votare. Questa situazione è anche conseguenza della fine delle ideologie e del declino dei partiti di massa. In Italia l’astensionismo segue questo trend: più aumenta la sfiducia degli italiani nei confronti della classe politica, più aumenta l’astensionismo.

Nel caso dei referendum, a questi motivi di astensione se ne aggiungono altri specifici. A giocare un ruolo fondamentale qui è il quesito: esso può essere troppo tecnico e quindi di difficile comprensione, può essere legato ad un tema troppo complicato e specifico, distante dalle esperienze individuali della maggioranza dei votanti. Tutto ciò contribuisce chiaramente a tenere i cittadini lontani dai seggi. Oppure ci possono essere problemi con l’informazione relativa al referendum. In particolare, ci può essere stata scarsa copertura mediatica della consultazione, che risulta invece essere di vitale importanza per i referendum, per via del fatto che non presentano la natura periodica e cadenzata delle tradizionali elezioni e vanno quindi annunciati con appositi spazi e tempi.

Se quindi, come è stato detto, l’astensione può manifestarsi come una scelta cercata e ponderata da parte di un elettorato consapevole, perché la nostra Costituzione prevede un quorum per considerare un referendum valido? Essenzialmente per evitare che una minoranza rovesci una legge approvata dal Parlamento.

Il problema è che un referendum così congegnato è viziato: un voto per il NO, infatti, va a favorire invece il SÌ dal momento che contribuisce a raggiungimento del quorum. Si finisce così con il mortificare la scelta di chi, conformemente alla previsione costituzionale di esercitare il voto in quanto “dovere civico” (art. 48), si reca ai seggi per esprimere la sua contrarietà all’abrogazione di una certa norma. Praticamente la scelta fatta al seggio non è quella espressa, e ciò genera un pericoloso cortocircuito per un paese democratico.

Questo non vuol dire che i nostri padri costituenti fossero degli sprovveduti e degli incompetenti. La scelta di prevedere un quorum della maggioranza degli aventi diritto è stata maturata in un’epoca in cui la partecipazione alle elezioni era molto alta e un’affluenza inferiore al 50% sarebbe stata in ogni caso considerata troppo esigua. Inoltre, il referendum è stato sostanzialmente concepito come uno strumento correttivo dell’azione del Parlamento, il quale resta il principale organo di produzione normativa, perché sede della sovranità popolare ottenuta mediante l’elezione dei suoi membri.

Tutto ciò però funziona quando c’è fiducia nella classe politica, come poteva essere nel momento in cui è nata la Repubblica, ma meno quando questa fiducia, per vari motivi, si è incrinata. Cosa fare allora? Due sono le possibili soluzioni. Una è quella di ridurre il quorum, per collegarlo alla partecipazione elettorale corrente. Questa è infatti la soluzione prevista dalla riforma costituzionale voluta dal governo, che si voterà proprio con un referendum in ottobre (ma questa volta senza quorum, perché non abrogativo). L’altra soluzione è quella di eliminare il quorum e lasciare la decisione in mano ai soli elettori che si recano ai seggi; a votanti decisi e informati, non eccessivamente minoritari vista la necessità iniziale di raccogliere le firme per l’indizione del referendum. Entrambe soluzioni valide, con i loro pro e contro, ma sicuramente migliori della situazione attuale e di quell’orribile quorum.

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Il caso Riina junior, tanto rumore per nulla

Come un fulmine a ciel sereno, tra scandali petroliferi, ministri che si dimettono, pericoli terrorismo e crisi di migranti varie, uno nuovo caso mediatico è scoppiato. È la tanto contestata partecipazione al programma tv “Porta a Porta” di Salvo Riina, il figlio del boss di Cosa Nostra Totò Riina, condannato ad innumerevoli ergastoli. Una avvenimento che ha destato un clamore alquanto eccessivo e che ha generato una serie di polemiche ancora prima che la puntata andasse in onda e che continuano ben oltre la data della trasmissione. Un polverone mediatico piuttosto incomprensibile, principalmente per due motivi.

Prima di tutto, perché non è la prima volta che un mafioso va in tv. Enzo Biagi già ne intervistato diversi, da MIchele Sindona a Luciano Liggio a Raffaele Cutolo. Michele Santoro non è stato da meno, portando sul piccolo schermo Rosario Spatola, Enzo Brusca e recentemente Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. In secondo luogo, proprio pochi giorni fa, il 4 aprile, Salvo Riina è stato intervistato dal “Corriere della Sera” sempre per lo stesso motivo: l’uscita del suo libro. Ma nessuno lo sa. Perché allora così tanto clamore per la sua intervista a “Porta a Porta”?

Qualcuno ha rinnovato la solita polemica sull’uso improprio del servizio pubblico. Una polemica ormai sterile e superficiale, che viene usata arbitrariamente ad ogni giro. Infatti, quale sia davvero il ruolo del servizio pubblico nessuno lo ha mai capito; in fondo vorremmo che trasmettesse programmi e informazioni che ci pare e piace, ma a quel punto non sarebbe più un servizio pubblico ma privato. Questa è comunque un’altra storia. Il vero problema in realtà è che ad intervistare Riina junior sia stato Bruno Vespa, quel giornalista che ci ha già abituato ad ospitate controverse (vedi la vicenda dei Casamonica), e ad interviste non proprio scomode, anche definite “scendiletto”.

Ma come si evince dalle stesse parole di Vespa che introduce il colloquio oggetto della diatriba, si tratta di un’intervista senza nessuna ambizione giornalistica o d’inchiesta, che ha conosciuto il suo successo grazie allo scalpore mediatico sicuramente voluto e ricercato. L’intervista viene proprio presentata come un “ritratto” della vita della famiglia del mafioso più famoso d’Italia. Una piccola indagine senza troppe pretese, che però contribuisce a svelare la banalità del male che si annida nella nostra società, e che può avere tratti e manifestazioni a noi sconvolgenti.

Ma fondamentalmente non si è trattato altro che di una operazione di marketing ben riuscita. L’esca è stata lanciata a dovere ed i pesci hanno abboccato: Vespa continuerà a dare notorietà ed audience alla sua trasmissione, Salvo Riina riuscirà a vendere svariate copie di un libro probabilmente inutile ed insignificante, pubblicato da una casa editrice semi-sconosciuta. Vespa è un giornalista astuto e navigato, che sa solleticare gli umori della gente. Il suo programma compie vent’anni e le celebrazioni richiedono gli immancabili botti. Stolti noi che abbiamo scambiato un piccolo petardo per fuochi d’artificio.

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Se serve un’immagine

La diffusione su tutti i media della foto del bimbo siriano morto durante un naufragio e restituito dalle onde su una spiaggia turca sta destando sdegno e sconcerto in tutto il mondo. Sta destando sdegno e sconcerto non solo perché con la sua crudezza rende vivido e palpabile il dramma dell’immigrazione anche a chi lo segue ogni giorno seduto dal divano casa propria, ma soprattutto perché intorno a questa foto si è scatenato un dibattito: se pubblicare o meno un’immagine così forte e terribile. Alcuni giornali hanno deciso di non pubblicarla, ma molti lo hanno fatto. Si è chiesto il rispetto per la morte, un freno ai facili sensazionalismi e se ne è denunciata la strumentalizzazione. Ma tra i pericoli maggiori di tutto questo tam-tam mediatico c’è soprattutto il fatto che, tra qualche giorno, ci saremo già dimenticati del piccolo Aylan e la nostra effimera indignazione “social” svanirà nello stesso modo in cui era sopraggiunta. 

Cosa cambia un’immagine? In fondo ogni giorno affogano migranti, e chissà quanti ce ne sono, negli abissi del mare, in attesa di divenire pasto per i pesci. Solo perché questa volta si tratta di un bambino dovremmo indignarci? Un bambino che assomiglia tanto ai nostri (non è nemmeno nero)? Che differenza fa, per esempio, da quei 49 migranti morti asfissiati nella stiva di un barcone lo scorso 15 agosto? O da quei 900 migranti morti perché si è ribaltato il peschereccio sul quale viaggiavano lo scorso 18 aprile? Solo perché non c’è una foto come quella di Aylan non meritano forse la nostra compassione? Una semplice foto, però, questa volta può contribuire a squarciare questo soffocante velo di ipocrisia

La foto di Aylan serve. La foto di Aylan non è facile sensazionalismo né strumentalizzazione. E la sua rapida diffusione lo dimostra. Una diffusione che è autentica e spontanea. Questa volta non stiamo parlando del piccolo John, il bimbo divenuto simbolo (nel bene e nel male) della campagna di Save the Children, icona del dolore che ci impietosisce all’ora di pranzo. Questa volta la pietà sale dal basso e sconvolge, forse per la sua naturalezza, in modo più incisivo le nostre coscienze. Non si sottovaluti il potere di un’immagine. Sono tanti gli esempi in cui una semplice foto ha cambiato il corso della storia. Si pensi a Kim Puch, la bambina di 9 anni che corre nuda in fuga da un bombardamento al napalm. La foto ha svelato gli orrori della guerra in Vietnam e ha contribuito al ritiro delle truppe Usa. Oppure si pensi alle foto degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Grazie ad esse sappiamo della Shoah ed ogni 27 gennaio celebriamo la giornata della Memoria. 

Purtroppo non si possono comprendere appieno le tragedie fin quando non le si vivono. La lontananza, sia in termini di spazio che di esperienze, contribuisce ad aumentare il distacco dalle situazioni reali. I nostri nonni che hanno vissuto sulla pelle il dramma dell’immigrazione perché costretti a emigrare loro stessi, difficilmente proveranno odio o anche solo indifferenza verso i nuovi migranti. E per noi che fortunatamente non sfuggiamo da povertà o guerre un’immagine può facilmente ricongiungerci alla realtà. Forse potrà non bastare. Non sono solo le nostre coscienze doversi smuovere, ma anche e soprattutto quelle dei governi che chiudono le frontiere e che rifiutano soluzioni condivise all’emergenza. Checché se ne dica la foto di Ayalan ha già fatto la storia. Non l’ha ancora cambiata però. 

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Evviva le bufale su Internet!

È degli ultimi tempi una curiosa e interessante sortita del famoso semiologo, filosofo e scrittore Umberto Eco il quale si è scagliato contro la pericolosa e apparentemente inarrestabile diffusione di bufale online. La soluzione proposta dall’intellettuale torinese per fronteggiare questo fenomeno è però ingenuamente semplice: affidare alla stampa responsabile il compito di sbugiardare le notizie false. È immediatamente comprensibile perché questa idea non può essere una soluzione: il numero di persone che legge i giornali è enormemente inferiore rispetto a quello che di solito reperisce informazioni online e proprio chi legge i giornali è comunemente un pubblico più consapevole, più edotto e dunque meno permeabile alle bufale. Sarebbe perciò un servizio fondamentalmente inutile perché non indirizzato a chi delle bufale ne è vittima.

Il punto è che ancora ci sfuggono i contorni del fenomeno della diffusione virale di contenuti falsi. Vediamo perché. Primo, le bufale esistevano già prima di Internet e non è detto che con il web si diffondano più facilmente. Semmai proprio grazie al web è più facile individuarle, condannarle e forse anche fermarle. Inoltre, tra mondo reale e mondo virtuale sostanzialmente non cambiano i soggetti che ne sono preda: il solo fatto di informarsi su Internet non ci rende tutti a rischio contagio; una buona cultura e una buona istruzione dovrebbero bastare a garantirci l’immunità.

Secondo, quando parliamo di bufale online forse non ci è ancora chiaro di cosa stiamo parlando. La maggior parte dei siti Internet che diffondono bufale hanno intento meramente satiricoL’esempio migliore e di maggior successo è sicuramente quello di Lercio.it, una miniera di notizie grottesche ed esilaranti costruite intorno a scenari veri o verosimili. Il sito non vuole celare la natura falsa ed improbabile della notizia, anzi a tratti sembra anche volersi smascherare; ma questo non basta ad evitare che numerose persone prendano sul serio queste notizie.

La satira poi, unita alla capacità dei social network di verificare l’impatto di una bufala sulla comunità virtuale, genera il fenomeno del trolling. Con questo termine si vuole indicare l’azione pungente e provocatoria con la quale la notizia inventata viene posta di fronte un pubblico non in grado di recepirne la natura fasulla e ironica. È forse proprio questo il motore che alimenta la diffusione delle bufale online e il proliferare di siti che creano questi contenuti: la netta separazione tra chi è in grado di riconoscere una notizia falsa e chi invece abbocca. Se si fa parte degli uni non si può far parte degli altri: insomma, o credi a tante delle bufale che girano su Internet, o non ne credi a nessuna.

Purtroppo, però, non di sola satira sono fatte le bufale. Sulla base delle tantissime persone che non riescono a distinguere una notizia vera da una inventata sono nati numerosi siti che sfruttano creduloneria e ignoranza a fini di lucro. E lo fanno su temi delicati e controversi come immigrazione e zingari. Qui non si tratta di motivazioni politiche o razziali: la creazione di tali contenuti è prettamente business (il numero di click sulla pagina infatti fa aumentare i guadagni). La successiva disseminazione, invece, gioca su xenofobie e intolleranze dell’utente-italiano medio.

La diffusione e la condivisione di bufale online è un indicatore importante per capire quanto una società sia culturalmente arretrata. Con tutti i pericoli che ne derivano. Le persone che credono alle burle di Internet sono, infatti, le stesse che periodicamente (e democraticamente) sono chiamate alle urne. Ed il passo tra credere ad una bufala online e credere ad una sparata fatta da un politico in campagna elettorale è breve, anzi brevissimo. Grazie alla diffusione virale e virtuale dei contenuti falsi, però, è possibile ricavare le dimensioni di questo fenomeno e studiarne i possibili rimedi.

Dovremmo guardare a Internet non solo come la causa, ma anche come la soluzione al problema: con l’immensa mole di informazioni reperibili online è un gioco da ragazzi smascherare le notizie false, per chi ha la voglia e l’onestà di farlo. E, una volta sbugiardata la bufala, non c’è soddisfazione migliore nel vedere dipingersi sul volto della persona che ne è stata vittima quel misto di incredulità, vergogna e malcelata rassegnazione che è proprio il motivo per il quale le bufale (la maggior parte di esse) sono messe in giro.

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La Concordia è a posto (tutto il resto no)

È singolare tutto il can-can mediatico scoppiato intorno all’epilogo della vicenda della Costa Concordia, del suo mesto ritorno in porto, della celebrazione delle esequie di un ex gigante del mare, in attesa che questo enorme cadavere metallico venga definitivamente smembrato e rottamato, come per porre fine ad un lungo incubo.
La notizia è stata negli ultimi giorni in prima pagina su tutti i giornali ed in primo piano in tutti i notiziari televisivi. Notizia magari di rilievo, da commentare, ma sicuramente non di pari importanza che ne so, ad una sanguinosa guerra in Palestina, o ad una altrettanto grave e preoccupante situazione in Ucraina. E invece giorno dopo giorno, per tutta la durata del suo lento cammino la Concordia era lì placida, che solcava i nostri teleschermi mentre la voce del giornalista (a volte fuoricampo e a volte in primo piano davanti all’azzurro mar Tirreno) raccontava ammirata dei dettagli tecnico-ingegneristici dell’operazione, con immancabile il servizio che ripercorre tutta la vicenda fin dall’inizio (“vada a bordo, cazzo!”).
Ora, è innegabile che l’operazione, terminata con successo e realizzata da un consorzio italo-americano , sia stata un impresa unica e grandiosa nella storia del recupero di relitti fin dal parbuckling, il raddrizzamento della nave, ma tutto ciò non spiega l’eccessivo clamore, la suspence e le vittoriose celebrazioni  finali. L’arrivo della Concordia a Genova, una notizia che avrebbe dovuto al massimo conquistare le prime pagine dei giornali locali liguri, ha invece catalizzato l’attenzione di tutti i media italiani in tutta la durata dell’evento. Ma questo solo in Italia, e non altrove. Se il parbuckling aveva giustamente suscitato attenzione nei media stranieri, poco è stato invece l’interesse dimostrato da questi per il suo ultimo viaggio verso Genova. 
Il “Guardian” on-line ha però dedicato un interessante articolo alla vicenda nel quale rimarca la consistente e “jubilant” copertura dell’evento data dai media italiani, come se il successo dell’operazione dovesse dare un prezioso incoraggiamento ad un Paese che, ahinoi, si trova proprio nelle condizioni della Concordia, ma forse ancora adagiato su un fianco. In effetti, durante la rotazione della nave lo scorso gennaio, in molti hanno paragonato il raddrizzamento del relitto al raddrizzamento dell’Italia. Che fantasia.
Ma non è così che si salva un Paese. Non stando a guardare. Non con inutili maestose celebrazioni. Se l’euforia di una buona notizia serve a farci dimenticare le questioni davvero importanti che deve affrontare il nostro Paese, la necessità di riforme, la lotta agli sprechi e all’evasione fiscale, questa Italia non solo è ancora lontana dall’imboccare la strada per un porto sicuro, ma è nel bel mezzo del naufragio.
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Scettico dell’euroscettico

Si sa, queste prossime elezioni europee saranno quelle che secondo le impressioni di tutti i commentatori e di tutti gli esperti decreteranno una consistente affermazione dei partiti e movimenti euroscettici di tutto il vecchio continente. Proprio tutto. I populisti e antieuropeisti sono cresciuti in maniera impetuosa nei sondaggi, ma anche nelle ultime elezioni alle quali si sono presentati. I più importanti, tuttavia, sono tre, anche perché importanti sono i Paesi ai quali appartengono. Ovviamente c’è il nostro Movimento 5 stelle che però è più populista che euroscettico. Il suo euroscetticismo è una vetrina per attirare la rabbia e il malcontento diffuso che in qualche modo devono essere scaricati. L’Europa è pertanto il bersaglio più facile, ma lo è perché si tratta di elezioni europee, infatti nelle elezioni politiche la rabbia è stata scagliata contro la casta, e molto facilmente Grillo si lascia anche andare in singulti anti-italiani, vedi le recenti dichiarazioni in favore di chi ha fischiato l’inno nazionale alla finale di Coppa Italia. L’Euroscetticismo del Movimento 5 stelle non è definitivo né distintivo. Basti aggiungere che l’uscita dall’euro non è una condizione fondamentale del movimento, ma anzi è successiva solo ad un referendum che attesti la volontà del popolo italiano di abbandonare la moneta unica. Per il resto, il Movimento non ha espresso la benché minima intenzione di uscire dall’Unione Europea.

Gli altri partiti euroscettici forti si trovano in Francia e in Gran Bretagna. Nella Repubblica d’oltralpe il successo del Front National di Marine Le Pen non è più una sorpresa. Il partito nazionalista, infatti, ha ottenuto un grandi consensi alle ultime presidenziali con Mairne Le Pen e un ottimo risultato alle recenti amministrative. Il Front National, però, a differenza del Movimento 5 stelle italiano, ha ben chiare le sue idee in Europa: uscire immediatamente dall’euro e ripartire da una Europa di stati-nazione. Il suo successo in Francia, d’altra parte, è legato motivi simili a quelli che hanno portato al successo il movimento di Grillo: ha canalizzato il malcontento della popolazione contro il fallimento del governo in carica ed è cresciuto in concomitanza con lo sfacelo della destra moderata francese, rappresentata dall’UMP. Ma la forza politica neofascista (anche se ora rivisitata in chiave “responsabile”) non è nuova a successi di questo genere: già con il padre di Marine, Jean-Marie, il fronte era riuscito ad arrivare al ballottaggio con Chirac nelle presidenziali del 2002, ma l’affermazione del fronte è arrivata soprattutto in altre elezioni europee dove in più di una occasione in passato è riuscito ad andare oltre il 10%.

In Gran Bretagna l’Ukip di Nigel Farage gode parimenti di uno strepitoso momento di gloria. Alle elezioni amministrative dello scorso anno ha ottenuto il 23% dei consensi, a soli due punti percentuali dai conservatori di David Cameron, con i quali condividono la stessa tradizione politica. Il fenomeno dell’euroscetticismo in Gran Bretagna e molto più normale e consolidato, dal momento che la “perfida Albione” ha sempre voluto vantare un certo isolazionismo messo in cantina durante il travolgente momento dell’integrazione europea degli anni ’70, quando anche il regno della regina Elisabetta II è entrato a far parte della comunità, e poi resuscitato a piene forze con la crisi dell’Europa unita degli ultimi anni. Nigel Farage, anche lui, sa bene cosa vuole fare con l’Europa: salutarla, e uscire direttamente dall’Unione, visto che l’euro non può preoccuparlo dal momento che la Gran Bretagna non ne fa parte.

Nel resto dell’Europa, come detto, tutti i partiti estremisti ed euroscettici riscontrano un particolare successo. Succede in Ungheria con il partito di ultradestra Jobbik, che vuole che l’Ungheria esca dall’Unione, succede in Finlandia con i Veri Finladesi che, anche loro reduci da ultimi grandi successi elettorali, si scagliano contro l’aspetto solidale dell’Unione e tutti i progetti di salvataggiodi stati in difficoltà con i conti, succede in Svezia con i Democratici Svedesi, formazione politica di discreto successo che lotta contro l’immigrazione. In generale i partiti ed i movimenti euroscettici di successo sono populisti e di estrema destra, ma non mancano Paesi in cui l’antieuropeismo è rivendicazione politica dell’estrema sinistra come in Spagna con Izquierda Unita e in Portogallo con il partito comunista portoghese.

Ma non lasciamoci incantare dai numeri e dagli strilli. L’euroscetticismo dilagante oltre a non essere una assoluta novità e oltre ad andare abbastanza di moda vista la situazione di crisi economica e monetaria, è un fenomeno abbastanza esagerato nella sostanza. Uno sguardo un attimino più pacato dei dati, come quello fatto dal Guardian, ci dice che secondo i sondaggi in tutta Europa la percentuale di voto popolare in favore delle forze euroscettiche equivale al 30%, di soli 5 punti percentuali in più rispetto alle passate elezioni, e il numero dei seggi su cui siederanno parlamentari euroscettici potrebbe essere di 218 su 751, rappresentando poco più di un quarto del Parlamento di Strasburgo, che non è un risultato da buttare, ma senz’altro contenuto e contenibile. E questi sono solo sondaggi. I risultati, in effetti, potrebbero superare le aspettative, ma potrebbero anche andare al di sotto. In realtà il fenomeno ci appare di ampia portata perché trattato ormai quasi  ossessivamente dai media sulla scia dei successi riportati in patria da ognuno di questi partiti ma per vicende di politica interna, di sfiducia nei singoli governi nazionali, non certo per una ben precisa critica al modello di integrazione europeo. Il successo in patria dell’euroscettico non è dire lo stesso del successo in Europa. D’altronde stenta ad affermarsi una vera trasversalità  di tutte le forze euroscettiche; ci ha provato Marine Le Pen tendendo la mano a Grillo, ma si è vista rispondere picche per la pericolosità del progetto che potrebbe portare nocumento ad ogni singola formazione piuttosto che benefici vista l’eterogeneità vistosa tra tutti questi. In ultimo, tra i cinque candidati alla presidenza della Commissioneeuropea non ce n’è uno euroscettico, anzi tra loro è quasi una gara a chi chiede più Europa. Solo Tsipras, il leader greco di Syriza, la coalizione di partiti di estrema sinistra, è critico nei confronti di questa Europa, ma per lui l’Unione non è mai stata in discussione e nemmeno l’euro.

Il vero euroscetticismo, in fin dei conti, non si ritrova nei ben conosciuti movimenti populisti, nazionalisti o razzisti, bensì nell’astensione alle elezioni europee, la quale risulta elevatissima. Così come il dissenso verso un governo in carica viene anche dimostrato rinunciando a partecipare alle elezioni, in Europa la bassissima affluenza alle urne, che nel 2009, per esempio, si è attestata al 43%, è indicatore di quanto tutti siamo poco europei. Il motivo è da imputare anche ai media che destinano pochissimo spazio ad una vera informazione europea. I media di tutta europa, non solo italiani, sono dominati ancora dalla politica interna come se questa funzionasse in maniera pienamente indipendente non solo dalla politica europea, ma  dalla politica internazionale in generale. Ci sono stati ben due confronti tra i cinque candidati alla presidenza della commissione europea, ma questo avvenimento stenta a trovare risalto nella nostra tv, per esempio. Se continua così, se una cappa di disinformazione e un velo di apatia continueranno ad incombere su tutti i cittadini europei, i veri euroscettici non saranno quelli che strillano e che lanciano invettive contro Bruxelles, ma tutto il resto.

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lantipanico: istruzioni per l’uso

Salve,
questo è l’ennesimo blog, sulle ennesime notizie degli ennesimi problemi dell’Italia, dell’Italia nel mondo, e del mondo nell’Italia. Qui troverete commenti personali (ennesimi) basati su spunti e opinioni (devo ripetere un’altra volta ennesime?) sicuramente migliori e più valide delle mie. Solo una cosa, forse, è un po’ diversa da tutto il resto. Qui si cercherà di affrontare ogni argomento senza tabù, sfatando i miti, smantellando le montature, profanando le sacralità.Ciò, sia chiaro, non avverrà in maniera cinica e barbara. Si agirà sempre sulla base di chiari ragionamenti, tentando di guardare le cose da una diversa prospettiva, che non sia a tutti i costi quella dominante, o meglio, mainstream (come si dice oggi). Si tenterà, insomma, di sviluppare osservazioni quanto più esterne e distaccate possibile, al fine di evitare alcuni dei peggiori mali  del racconto delle vicende italiane: il coinvolgimento, la compromissione, il tifo.

L’informazione all’italiana, e soprattutto quella televisiva, per non parlare di alcuni effetti indesiderati di quella via web, presenta delle storture. In primo luogo, i fatti molto spesso, o forse molto più che i fatti, i contesti, non vengono spiegati. Specie nella televisione, le informazioni sono veloci e frammentarie, senza delle vere ricostruzioni, senza delle indagini. Nemmeno mi addentro a parlare dell’imparzialità o meno dell’informazione, basterebbe davvero solo una genuina ricomposizione dell’avvenuto per assistere ad un notevole salto di qualità. Conseguentemente a ciò, l’illustrazione dell’avvenuto non può pervenire a delle soluzioni perché non ne ha i mezzi, e se lo fa, questa risulta essere la più semplice, la più immediata, e molto spesso la più sbagliata.

A questa carenza si aggiunge un vizio: come ho già accennato, questo riguarda l‘estremo coinvolgimento, le preventive prese di posizione, la troppa passione che, per carità, in giuste dosi può anzi fare bene. L’informazione si fa molto spesso culto di una religione, rispetto di un dogma, atto di fede. Non posso pensarla diversamente da ciò che avevo già deciso di pensare. Nessuna obiezione. In questo modo il racconto della realtà diventa finto, inutile. E così mi scontro con chi ha deciso di pensarla diversamente da me senza però riuscire a raggiungere una soluzione, senza districare la matassa. D’altronde, siamo il popolo del gioco del calcio, dove la squadra per cui teniamo è sempre la più forte, mentre tutte le altre fanno schifo. In realtà si può vivere diversamente anche il tifo per il calcio, ma in realtà noi proprio non ci riusciamo.

Infine, un altro problema, ma sicuramente non l’ultimo dell’informazione in Italia, è una certa enfasi su questioni riconosciute importanti ma che in realtà non lo sono. Molto spesso ci si concentra troppo su un determinato aspetto di un problema lasciandosene sfuggire altri di ben più grande importanza. Questo può essere fatto per negligenza, ma anche per dolo. Si creano dei miti intorno ai quali ragionarci non è attività possibile: ed è così che l’euro ci ha rovinati, che gli immigrati portano solo danni, che mandiamo affanculo tutti i politici.

Per concludere, in questo blog troverete un piuttosto ambizioso (“velleitario”) tentativo di svincolarsi (“uscita di sicurezza”) dalla banalità e dall’enfatizzazione di chiacchieratissimi problemi (“psicodrammi”) dell’intero nostro Paese, ma anche del mondo tutto (“collettivi”).
Spero apprezziate il tentativo.

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