La straordinaria e improvvisa fine della Padania

stock-photo-italian-elections-candidate-and-lega-nord-current-leader-matteo-salvini-getting-ready-for-a-1030089424-ilo-iloveimg-resized

C’è un fatto nella politica italiana che è passato in secondo piano nel trambusto generale di questa lunga ed estenuante campagna elettorale. Si tratta della fine del “sogno padano”, di quella indomita e ossessiva voglia di indipendentismo del Nord Italia, ricco e produttivo, da un Sud pigro e arretrato. Questo chiaramente secondo la versione degli ex indipendentisti. Con la scomparsa della dicitura “Nord” dal nome della attuale Lega si è messa fine a questa rivendicazione durata più di venti anni e capace di costituire un partito di grande consenso e successo, tuttora il più longevo della scena politica italiana.

Ora il programma politico della Lega è passato dall’indipendentismo del Nord (o autonomismo nella più moderata delle ipotesi) al nazionalismo e al sovranismo (la nuova parola d’ordine della politica) dell’intera Repubblica italiana. È comprensibilmente un netto cambiamento per una delle più importanti forze politiche in Italia, già avviato da tempo, ma che ora si conferma in tutta la sua verità. Inspiegabilmente, però, a tale evento non sembra essere stata riservata la giusta attenzione, quasi fosse un processo prevedibile e atteso, oppure perché ha vinto la distrazione generata da altri avvenimenti, ritenuti più importanti, probabilmente in seguito ad un difetto di valutazione.

Due sono le implicazioni, di una certa rilevanza, di questa trasformazione della Lega. La prima è la scomparsa di un forte movimento indipendentistico nel nostro paese. Un movimento che, paradossalmente, si era fatto forte su una idea debole. L’indipendentismo della Padania, regione inventata dalla politica e non costruita dalla storia, era riuscito ad affermarsi rispetto ad altre istanze  territoriali di questa natura molto più autentiche e legittime, quali quelle della Sardegna e della Sicilia, ma anche del vecchio Regno delle Due Sicilie. Esse, infatti, potrebbero contare su un patrimonio storico e culturale reale e su confini geografici certi. Evidentemente la carenza di queste caratteristiche è stata fondamentale per la fine del progetto politico della Padania. Una notizia senza dubbio positiva, dal momento che le istanze autonomiste rappresentano per il nostro paese un serio pericolo, essendo il nostro uno Stato ancora giovane e piuttosto fragile, già soggetto a numerosi problemi di grave entità quali criminalità organizzata e terrorismo interno. La fine dell’indipendentismo settentrionale italiano sarebbe poi una notevole eccezione nel panorama europeo, dove le spinte secessionistiche sono più forti che mai (si veda il caso della Catalogna) e rischiano di mettere in crisi gli Stati nazionali, entità che si credeva solide ed inscalfibili.

D’altra parte, al tramonto dell’indipendentismo del Nord subentra, quasi a continuare il paradosso di cui si diceva prima, la nascita di un forte senso di nazionalismo. Qui si rileva la seconda implicazione della trasformazione della Lega, stavolta di segno negativo. Le idee xenofobe e identitarie, già presenti nella versione autonomista, trovano maggiore sfogo e legittimità in un discorso nazionalista. Alle incertezze date dalla globalizzazione si risponde con il concetto di sovranismo ed il rafforzamento dei confini nazionali. La mutazione della Lega va in questo senso e segue, questa volta, una tendenza molto diffusa in tutta Europa. C’è da chiedersi quale delle due nature della Lega possa essere più pericolosa. La risposta pare purtroppo essere la seconda, quella di una Lega sovranista. Le rivendicazioni della vecchia Lega Nord non si configuravano come un vero pericolo, proprio per la mancanza di validi requisiti per una battaglia volta all’indipendenza. Il discorso sovranista, invece, trova più spazio di affermazione e riscuote maggiore successo, perché atto a dare risposte, di dubbia validità ma comunque risposte, ai problemi dell’attualità. La morte della Padania sarà pure una bella notizia, ma ora tocca preoccuparsi delle nuove idee di Italia che vengono proposte e possibilmente attrezzarsi al meglio contro di esse.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

I fatti di Goro e quello che siamo

barricate gorino-2Partiamo dal presupposto che nessun sano di mente si sognerebbe mai di alzare le barricate per negare l’accoglienza a 12 donne, di cui una incinta, che fuggono da guerra e miseria. Eppure questo è successo. Tutti ci siamo sforzati a dare un significato alla vicenda di Goro, dividendoci tra chi ha difeso la ribellione dei residenti definendola una “nuova Resistenza” e chi invece l’ha considerata vergognosa, e non degna di rappresentare il paese. Di cosa si tratta quindi? Di zoticoni razzisti manipolati da parti politiche o di cittadini esasperati in lotta contro le istituzioni? Proviamo a scomporre l’intero caso per identificarne i singoli elementi.

I cittadini protagonisti della rivolta sono quasi tutti vongolari e pescatori di Gorino, un frazione di Goro di 400 anime dove i cellulari non prendono, Internet non arriva e praticamente non ci sono luoghi di aggregazione. Un luogo ai margini, dimenticato da Dio verrebbe da dire. Una comunità isolata costituita fondamentalmente da una fascia sociale a basso livello di istruzione e scarso grado di apertura. Una situazione che probabilmente non aiuta ad empatizzare con chi si trova in difficoltà. Questo, chiaramente, non è una colpa, ma  al contrario è indice di grande vulnerabilità: in un tale contesto trovano terreno fertile xenofobia e intolleranza.

Di conseguenza, l’attività di formazioni estremiste e xenofobe che sfruttano tale situazione catalizzando il malcontento gioca un ruolo rilevante. D’altronde, la zona rientra nel raggio d’azione della Lega Nord, che già da tempo stava organizzando la protesta, e la continua opera di disinformazione sempre condotta da organi schierati politicamente ha sicuramente fomentato odio e rancore.

D’altro canto, la popolazione che ha alzato la voce contro i migranti è anche espressione di quella classe media impoverita a causa dell’interminabile crisi economica. Una categoria socio-economica che credeva di aver raggiunto un livello di sicurezza inalienabile e che ora invece si ritrova a rischio povertà. Il territorio di Goro e del delta del Po è infatti colpito da una crisi economica ed ambientale di grave portata, tuttora al di fuori delle cronache nazionali. Inserendo l’accaduto in questo preoccupante contesto, la protesta assume senz’altro un diverso significato.

Inoltre, la protesta è anche frutto dell’esasperazione per il modo in cui i residenti sono stati trattati dalle istituzioni nella gestione della vicenda. Una vicenda che indica anche il totale dilettantismo con il quale la procedura di accoglienza viene gestita a livello nazionale. Portare dei profughi in un posto che non ne aveva mai visti prima con una ordinanza immediata di requisizione dell’unico ostello presente in città non è stato certo un colpo di genio. Se in questo posto isolato l’unica presenza delle istituzioni si manifesta in situazioni come questa, la reazione della popolazione residente non può che essere di segno negativo. Fermo restando che si è evidentemente ceduto in eccessi, per via delle motivazioni succitate.

Proprio quest’ultimo punto può essere cruciale per interpretare l’intero caso: la spiegazione va fondamentalmente ricercata nella rottura del nesso fiduciario tra cittadini ed istituzioni, aggravata dalla pesante crisi economica. In una situazione diversa, di sintonia con la classe politica al comando, e di sicurezza e stabilità economica, sollevazioni del genere, veicolate dal solo fattore identitario e dall’esigenza di maggiore sicurezza, difficilmente si sarebbero viste. Sembrerebbe una conclusione troppo semplice, ma proprio per questa sua natura spesso si tende ad ignorarla.

Tornando alla domanda di partenza: cosa siamo, quindi? Siamo ignoranti razzisti o cittadini arrabbiati? Siamo il risultato di questa miscela di fattori che si alimentano a vicenda. La povertà, l’emarginazione sociale, l’arretratezza culturale e l’influenza di movimenti xenofobi tendono a generare dei mostri. Questa volta si è trattato di un eccesso, anche se nessuno può ancora dirci se si tratterà dell’unico caso di eccesso.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il Natale è già una festa laica

Il Natale 2015 sembra essere un Natale diverso. Nei media e per le strade gli argomenti di dibattito sulla festa più importante della cristianità per la prima volta non si limitano ai sempre angoscianti interrogativi su cosa sia meglio regalare a parenti e amici o al classico confronto pandoro – panettone. Questa volta si parla anche di questioni più impegnative, seppure con la sempre immancabile superficialità e sprovvedutezza. 

Quest’anno il Natale 2015 sarà ricordato come il Natale che hanno cercato di cancellare, con duri colpi ai nostri usi e costumi: dal presepe alla recita a scuola. Quest’anno il Natale sarà ricordato per tutti coloro che volevano renderlo laico, che volevano snaturarlo del suo più autentico significato religioso, minando alle nostre più profonde e radicate tradizioni. 

Il casus belli è, chiaramente, quello del Natale “cancellato” a Rozzano, comune alle porte di Milano, dove il preside dell’Istituto comprensivo Garofani ha deciso di rimandare la tradizionale recita dei bambini a dopo le festività e di ribattezzarla in “Festa dell’Inverno”. Un vero sacrilegio. E dopo questo episodio altri ne sono seguiti, come un’invasione barbarica contro i nostri valori. Tanto che si è parlato di Natale come festa laica quasi fosse una bestemmia

Ma è un bene che sia scoppiato il caso. È un bene che si parli di un argomento tanto ignorato e tanto bistrattato in Italia: quello della laicità. E quello, precisamente, della laicità nel giorno del Santo Natale. Quasi un ossimoro, una contraddizione, ma in realtà un’occasione per lanciare una seria riflessione su quanti, per davvero, vivono questa festa in modo religioso. Perché il Natale, per gran parte della popolazione italiana, è già una festa laica. Lo è da quando abbiamo perso l’abitudine di andare in Chiesa il 25 dicembre, da quando la frenesia dei regali ha preso il posto del raccoglimento nel periodo dell’avvento, da quanto abbiamo smesso di pregare la sera della vigilia per giocare a tombola. 

Lo è, in poche parole, da quando il consumismo ha preso il sopravvento sulla fede. Da quando la Coca-Cola ha inventato Babbo Natale così come lo conosciamo e ne ha fatto un personaggio più venerato di Gesù Bambino. Potremmo addirittura dire che il Natale è tornato ad essere una festa pagana, come lo era alle origini. Ma forse è meglio definirlo come una festa laica e secolarizzata per un semplice motivo: perché ognuno lo può festeggiare come vuole. Lo può festeggiare in modo religioso andando in chiesa e pregando o in modo più profano comprando regali e organizzando cenoni. O in entrambi i modi, come forse siamo più abituati a fare. Ed è per questo che il Natale è già una festa laica.

Non solo: il Natale non è l’unica festività religiosa travolta dall’ondata di frivolezza e mondanità. Basti pensare al giorno dell’Assunzione di Maria (Ferragosto) dove normalmente siamo incolonnati in autostrada piuttosto che tra i banchi di una chiesa, o al giorno di Sant’Ambrogio che a Milano viene ricordato più che altro per la prima della Scala. Ecco, la difesa dei canti di Natale o del presepe di fronte a tutto ciò non può che perdere di significato.  

Per tornare al caso di Rozzano, proprio la scuola pubblica, luogo laico per eccellenza, non può essere l’istituzione issata come simbolo del Natale, ultimo bastione della fede. Sarebbe senz’altro un travisamento del ruolo e delle funzioni che la scuola deve svolgere in una società. Nonché un’ammissione di sconfitta degli stessi credenti che camuffano un luogo di formazione e di insegnamento aperto a tutti (art. 34 Cost.), in un luogo di culto destinato ad una parte. Se vogliamo festeggiare il Natale da buoni credenti è meglio farlo nel posto più adatto: in Chiesa. Per chi davvero crede.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail