Il generale Ripper vive a Pyongyang?

drstrangelove060pyxurzCi sarebbero centinaia di motivi per i quali pensare che una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord sia impossibile dal verificarsi, eppure questi potrebbero non bastare. Le cronache internazionali recenti sono sempre più contraddistinte dalle notizie di esperimenti nucleari nordcoreani e dalle conseguenti reazioni statunitensi. La situazione di tensione tra i due paesi, di lunga durata ma finora latente, si è intensificata con la salita al potere di Kim Jong-un nel 2011 e recentemente con l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che pure si era detto disponibile a dialogare con il regime di Pyongyang. La presenza ai vertici di questi due paesi di personalità forti ed imprevedibili rende ancora più pericoloso il confronto.

Il dato preoccupante è che un conflitto tra Stati Uniti e Corea del Nord comporterebbe uno scontro dalla portata globale, una nuova guerra mondiale, con scenari imponderabili e mutevoli, e che potrebbe riproporre una contrapposizione a blocchi che credevamo di aver superato dopo la caduta del muro di Berlino: da una parte uno schieramento occidentale a guida Usa e dall’altra uno schieramento post-comunista, con la Cina e Russia, rivali degli Stati Uniti ma non certamente alleati di Pyongyang, che a vario titolo e grado potrebbero far parte della contesa. Senza dimenticare che una guerra mondiale al giorno d’oggi significherebbe una guerra nucleare, con conseguenze devastanti per l’intera umanità. L’incubo di un “generale Ripper”, il folle personaggio del film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick che per via delle sue paranoie causa l’apocalisse, torna a vivere. Può la logica della deterrenza, che ha funzionato durante la Guerra Fredda, funzionare anche ora?

Per rispondere a questo quesito bisognerebbe indagare sulla razionalità degli attori. In una situazione di distruzione mutua assicurata (in inglese mutual assured destruction, MAD), in cui tutte le parti posseggono armi nucleari e perciò finirebbero per annientarsi l’un l’altra, nessuno si sognerebbe di eseguire l’attacco. Questo clima ha caratterizzato il periodo detto di “equilibrio del terrore” durante la guerra fredda che ha fondamentalmente tenuto in piedi il mondo, seppur sul ciglio di un burrone. Stati Uniti ed Unione Sovietica erano potenze che non solo capivano e ricercavano la deterrenza, ma sapevano anche farla funzionare: numerose erano infatti le occasioni di dialogo per darsi regole e porre limiti. I due attori della Guerra Fredda erano perciò totalmente razionali.

Su Kim Jong-un le opinioni sono ancora discordanti. Le storie che lo riguardano, riportate sui media occidentali, non ne tratteggiano un personaggio ragionevole e coscienzioso. È tuttavia da confermare la veridicità di tali storie, le quali potrebbero invece essere state confezionate per alimentare un certo tipo di narrazione ad uso e consumo occidentale. Quel che di certo si sa riguardo a Kim Jong-un, è che si tratta di un leader risoluto e spietato, che ha concentrato e consolidato nelle sue mani un potere che prima non aveva. Potrebbe essere capace di tutto, ma esperti non ne negano la razionalità. Kim Jong-un non sarebbe dunque soltanto un pazzo. Di Trump invece che cosa potremmo dire? 

La politica di Trump nei riguardi della Corea del Nord è meno indulgente rispetto a quella di Obama, che invece puntava sulla “pazienza strategica“, ovvero l’attesa di una crisi interna al regime di Pyongyang che ne avesse sancito la fine. L’aggressività e l’escandescenza di Trump nei confronti della Corea del Nord e del suo leader, già manifestata prima ancora della sua elezione, potrebbe aver influito sul comportamento del regime che con l’acquisizione dell’arma nucleare non cercherebbe altro che un motivo di esistere di fronte alla comunità internazionale. 

Trump e Kim, i due ossi duri della politica mondiale, si ritrovano quasi per caso protagonisti di un gioco di brinkmanship dove a rischiare ancora una volta non sono solo le due parti in gioco, ma è il mondo intero, come nella Guerra Fredda. Una situazione che da apparentemente innocua e gestibile diviene incontrollabile, proprio come nel film di Kubrick. Speriamo solo non finisca allo stesso modo. 

 

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Periferie di tutto il mondo (unitevi?)

Se dalle elezioni presidenziali americane 2016 abbiamo imparato qualcosa questa è l’importanza fondamentale e decisiva del voto delle cosiddette “periferie“: cioè di quelle zone lontane dai grandi agglomerati urbani e perciò dai centri di potere politici ed economici. Quella America già definita “profonda”, rurale e tradizionalista, costituita da quella “maggioranza silenziosa” (già invocata da Nixon) che questa volta ha alzato la voce. L’illusione che a contare potesse essere solo l’America delle due coste, il volto “mainstream” di Hollywood e della finanza newyorkese, è durata tutta la lunga campagna elettorale e si è infranta in una sola notte nel giro di poche proiezioni, per il gran sgomento di cronisti e commentatori che nulla di tutto ciò avevano previsto (o che forse non volevano prevedere).

Il malessere e il risentimento contro la classe politica al potere covato nelle periferie sono stati facilmente catalizzati da movimenti di natura populistica, che con argomenti e atteggiamenti semplici (e semplicistici, spesso banalizzanti) hanno gioco facile nell’ottenimento del consenso. Un fenomeno dalla caratura internazionale e dalla diffusione ampia e trasversale nel mondo occidentale: l’elezione di Trump alla Casa Bianca non è che una ulteriore conferma dopo il voto sulla Brexit. E ora potrebbe toccare ad altri paesi europei con le elezioni nel 2017 in Francia, dove Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha grandi chances nella partita presidenziale, e in Germania, dove l’ascesa del partito populista e xenofobo AFD sta facendo tremare la solidità della cancelliera Angela Merkel.

Ma come si spiega questa rivolta internazionale delle periferie contro i governi al potere? Per lungo tempo ci siamo illusi che la prosperità promessa dall’economia globalizzata potesse favorire tutti in modo indistinto garantendo un innalzamento generalizzato del livello di benessere: dal finanziere di Wall Street all’allevatore del Wyoming, e anche più là nel mondo, fino agli abitanti degli slum di Nuova Delhi e delle favelas di Rio. A quanto pare non è andata così. La sfiducia verso la globalizzazione è la chiave per capire l’esito del voto americano e di quello britannico, e probabilmente anche di quelli a venire. In questi casi la reazione è stata cieca ed istintiva, frutto di un malcontento raccolto e cavalcato da campioni della demagogia.

In un’epoca in cui gli uomini politici si schierano o si arrendono alle logiche, spesso nefaste, della globalizzazione, chi promette di riprendere in mano le redini della situazione e di riportare la barra dritta ottiene facilmente il consenso, soprattutto in quegli strati di popolazione poco educata, anziana, e appartenente alla classe media impoverita che infatti sono stati decisivi per la vittoria di Trump. Con il paradossale risultato che araldi del neoliberismo e delle élite finanziarie mondiali si ritrovano a propugnare le cause del popolo. E la toppa, purtroppo, potrebbe essere peggio del buco.

Una analisi più approfondita del fenomeno, però, ci dirà che il decadimento della politica non è il problema, ma una conseguenza. Se la stessa classe politica non riuscirà a riparare lo scollamento che c’è tra il centro e le periferie socio-economiche, e a rimediare agli effetti negativi della globalizzazione, il populismo non potrà che avere terreno fertile, e sarà concepito come unica e adeguata risposta. Le crescenti disuguaglianze, la marginalizzazione di poveri e minoranze, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e del welfare state, il dilagare di corruzione e criminalità organizzata, l’inefficienza e la burocrazia delle strutture statali: sono questi i fattori che generano sfiducia nella gente e sono alla base del divario tra centro e periferia. Ricucire questo strappo deve essere l’obiettivo principale di una classe politica che non vuole perdere e non vuole perdersi. Qualsiasi soluzione all’insegna della continuità sarà destinata al fallimento e ad avere conseguenze ben peggiori di una sconfitta elettorale. Fintanto che questo non sarà fatto la rivolta delle periferie sarà da prendere come un chiaro avvertimento. E guai a dire che non ne sapevamo niente. 

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“No, you can’t”: il sogno obamiano è giunto al capolinea

Non è insolito perdere le elezioni di midterm per il presidente americano in carica. Capita quasi sempre, e si contano solo poche eccezioni nella storia, come quelle di George W. Bush e Clinton. Non è nemmeno un dramma per la tenuta politica dell’esecutivo: sappiamo che la forma di governo statunitense, di tipo presidenziale, assicura sempre il completamento del mandato ma sappiamo anche che nonostante brutte batoste ai midterms, molti presidenti sono stati rieletti alle presidenziali di due anni dopo. E questo è successo anche ad Obama. Ma questa volta il significato delle elezioni di midterm era diverso. Non ci sono più elezioni presidenziali da vincere fra due anni; ci sarebbe invece un obiettivo ben più importante per Obama da centrare al termine del suo secondo mandato: quello di lasciare il suo segno, la sua eredità al popolo americano. Di realizzare quel cambiamento che aveva promesso.

La crisi di popolarità che attraversa il primo presidente afro-americano nella storia degli USA aveva già anticipato questa débâcle elettorale. Ciò indica che l’America è stanca di Obama, si è risvegliata dall’ubriacatura successiva alle elezioni che lo hanno portato alla vittoria nel 2008 e sta già guardando avanti, in una direzione che non per forza è quella repubblicana, anzi, molto probabilmente di nuovo democratica, vista la fortissima candidatura di Hillary Clinton, ma sicuramente una direzione  post-obamiana. Eppure Obama non ha governato male, tutt’altro: finora il suo operato si può dire sia stato più che soddisfacente. L’economia è tornata a riprendersi, la disoccupazione è calata, e qualche milione di americano in più può contare su una assicurazione medica grazie all’Obamacare. Per quanto riguarda gli esteri da quando c’è Obama non ci sono più invece Osama , Gheddafi e Ahmadinejad, anche se il mondo lì fuori non è molto più sicuro date le nuove minacce che incombono, vedi l’IS. Il problema è che “più che soddisfacente” per Obama non basta.

Obama ha deluso. Ha deluso forse perché erano troppo alte le aspettative nei suoi confronti. Parecchie, delle promesse che aveva fatto, non sono state mantenute. Guantanamo è ancora aperta, la rivoluzione della green economy non c’è stata, la riforma sull’immigrazione non è arrivata e le disuguaglianze in America sono ancora forti. Ed in questo modo un presidente non può lasciare il segno. Queste elezioni potevano essere cruciali per la svolta obamiana. Sgombrato il campo dalle preoccupazioni per una ri-elezione, vincendole il presidente avrebbe potuto utilizzare la maggioranza al Congresso per approvare delle vere e coraggiose riforme. Obama però è arrivato stanco e sfibrato a questo appuntamento, sotto il peso delle sue stesse promesse. Ora, con entrambi i rami del Congresso contro, sarà quasi impossibile per lui dimostrare di non essere esso stesso una grande promessa mancata, una grande illusione, una speranza spesa invano. No, Obama, you can’t. Not anymore. 

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La guerra in streaming dell’IS tra social network e sogni di califfato

La terribile guerra nel nome dell’Islam condotta dal neo ed autoproclamatosi Stato Islamico (IS) non è una guerra come tutte le altre. Quello di cui il gruppo terroristico fattosi Stato si sta rendendo protagonista è un nuovo modo di concepire le ostilità, un nuovo modo di diffondere la paura, un nuovo modo di parlare al mondo occidentale. E ciò non è dovuto alle efferate decapitazioni, alle crudeli crocifissioni o ai cruenti massacri degli infedeli. Questo genere di atrocità sono in realtà grosso modo perpetrate off-the-record dovunque vi sia la presenza di gruppi fondamentalisti, e cioè in parecchi posti nel mondo.

Ciò che caratterizza l’IS è invece la cura e l’attenzione con cui utilizzano i mass media, e soprattutto i social media, per amplificare il loro messaggio di guerra e di terrore. I mezzi di comunicazione sono diventati nelle loro mani una potentissima arma forse ancora più efficace delle abbondanti scorte di kalashnikov su cui possono fare affidamento.
Che il terrorismo si servisse del potere della comunicazione per raggiungere i proprio i scopi, era già un aspetto noto, quasi ovvio e scontato, dal momento che terrorismo implica diffusione, propagazione, contagio della paura nella mente dello spettatore. È dunque inevitabile che il terrorismo assuma una relazione quasi simbiotica con la comunicazione. Ricordiamo ancora troppo bene i videomessaggi di Osama Bin Laden, nei quali l’ex capo di Al Qaida lanciava anatemi contro l’Occidente. Ma quei monotoni clip a bassa risoluzione sono ora stati sostituiti da ben più cinematografici (genere horror/splatter) video in HD ad opera del califfato più virtuale che ci sia
La guerra in streaming dell’IS porta le atrocità e le barbarie dei tempi remoti verso nuove frontiere: il mix letale di jihad e social network spalanca le porte all’orrore che entra direttamente nella quotidianità delle nostre vite digitali, suggellando una macabra e perversa logica del “selfie col morto.” 
Ma aldilà dello shock e del turbamento,  quali sono le ragioni per cui l’IS ha deciso di manifestare on-line le sue nefandezze? Quali vantaggi può trarre da questa strategia? E, più generalmente, qual è la reale portata, non solo virtuale, ma anche geopolitica, di questo nuovo soggetto?
La svolta “social” del gruppo jihadista che opera tra Siria ed Iraq, e sogna di ristabilire un grande califfato per riunire sotto un’unica autorità tutti i musulmani, è arrivata per due motivi: uno è la natura assai giovane e ampiamente tecnologizzata del movimento di lotta islamica, l’altro è un fine assai pratico: la facilità di proselitismo che offre il web. Infatti, grazie a internet, l‘IS è riuscito ad arruolare tra le sue fila migliaia di combattenti provenienti dall’estero e soprattutto dall’Occidente, che si sono convertiti alla causa dell’Islam. È indubbio che l’ISIS abbia portato la guerra ad un altro livello. Ormai il campo di battaglia non è più solo quello reale, fatto di polvere e trincee, ma anche quello virtuale. L’IS ha sposato una logica di grassrooting grazie alla quale è riuscito a sviluppare un considerevole contingente di forze che opera su tastiera tramite Twitter, Facebook e Instagram, ottenendo, inoltre, un notevole numero di followers e una grande quantità di like. Grazie a questo approccio, essi sono già riusciti ad affermarsi sugli altri gruppi fondamentalisti islamici, meno avvezzi all’uso delle nuove tecnologie.

Tuttavia, l’ostentazione della violenza e dell’odio on-line sembra essere fatta più per impressionare che per dimostrare autentiche  forze in campo. L’IS ha ancora troppi nemici dal notevole peso specifico per poter realmente pensare di realizzare i proprio sogni di gloria. 
Prima di tutto c’è il nemico interno. L’ex ISIS è solo l’ultimo arrivato in una galassia di formazioni fondamentaliste in rivalità anche tra loro. Al Qaida, tramite il suo numero uno Al Zahawairi ha già sconfessato il movimento di Al Baghdadi, definendolo troppo estremista e radicale. Secondo, c’è un attore molto importante nell’area che spesso non viene ricordato e che non è da non sottovalutare: l’Iran. Lo Stato sciita si trova alle porte di casa un nemico pericolosissimo che odia tanto i miscredenti occidentali quanto i “traditori” della vera fede islamica. E perciò non è da escludere un più ampio impegno dell’Iran in questo teatro di guerra, anche in cooperazione con Paesi con i quali non intrattiene felici rapporti come, per esempio, l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita è un altro attore fondamentale nel palcoscenico mediorentale, preoccupato come altri dell’ascesa dell’IS. L’estremismo e il populismo di quest’ultimo sono motivi di agitazione per la monarchia di casa Saud che teme di vedersi spazzata via da un ondata di Islam dal basso. Poi c’è la Turchia, che si ritrova ad essere la vittima di un effetto boomerang scatenato da una politica estera a sostegno delle opposizioni ad Assad, ISIS compreso, e che ora vede lo Stato Islamico una minaccia che bussa alla porta di casa, prova ne è la cattura di 49 turchi tenuti come ostaggi dalle milizie di Al Baghdadi. Finora la Turchia non ha fatto molto per impedire l’espansione dell’IS, ma è arrivato il momento che si rendi anch’essa un attore attivo nella lotta contro il terrorismo islamico: la Turchia è un paese troppo importante nella zona per poterne fare a meno. Più defilato, invece, Israele, che non vuole gettarsi nella mischia di guerra che, per il momento, non pone troppe minacce alla sicurezza dello Stato ebraico.
Infine l’Occidente. Esso non è un last but not least. Se sono stati elencati prima gli attori regionali è proprio perché essi possono avere un ruolo maggiore nella risoluzione della crisi mediorientale piuttosto che il mondo occidentale. La linea in politica estera di Obama è chiaramente quella di smarcarsi dai più cruenti e complicati teatri di guerra nel mondo, anche se gli USA non possono drasticamente dismettere i panni di gendarme del mondo, soprattutto quando vengono direttamente tirati in ballo dai terroristi (che decapitano suoi cittadini o che dichiarano di “alzare la bandiera di Allah sulla Casa Bianca”). Resta il fatto che le bombe sganciate dall’alto, sebbene utili a distruggere i punti logistici dei fondamentalisti, non riusciranno mai a dare stabilità alla zona, e in questo sono indispensabili gli attori regionali.
Date le circostanze, quindi, spargere sangue on-line difficilmente permetterà a all’IS di stabilire il califfato islamico, ma se non altro avrà contribuito ad una nuova evoluzione della guerra, che integra in modo professionale l’aspetto della comunicazione web, e che coniuga perfettamente lo sfizio dell’apparire della società moderna con il fine pratico dell’arruolare della guerra come è sempre stata. 

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