E se il ministro Poletti avesse un po’ ragione?

Diciamoci la verità, è propria dura essere un giovane italiano in questa epoca storica. Gli anni ’60 sono lontani, quelli della contestazione giovanile e del boom economico. Tutto allora sembrava più facile (ed effettivamente lo era): il lavoro non mancava, c’erano prospettive e fiducia nel futuro, i giovani erano finalmente riusciti a farsi ascoltare e avevano anche un po’ cambiato il mondo, con la rivoluzione dei costumi, delle relazioni sociali, della sessualità. Oggi l’economia arranca, il lavoro non c’è, i genitori si lamentano di noi, il governo ci ignora e i politici con una certa cadenza esprimono il loro disappunto nei confronti della nostra generazione.

In principio fu il compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi (già famoso per la dichiarazione d’amore sulle tasse), che se l’era presa con i “bamboccioni”, ragazzi che arrivata una certa età non lasciano la casa dei genitori. Poi toccò all’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, che nel 2012 definì i giovani “choosy”, cioè schizzinosi, nel senso che pretendono troppo quando si tratta di trovare un impiego lavorativo. Infine ecco l’attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti che, di fronte al dato di 100 mila giovani l’anno che emigrano all’estero,  ha affermato che alcuni di loro è meglio “non averli tra i piedi”. Parole che hanno immediatamente scatenato le polemiche, non fosse per le contestate riforme del mercato del lavoro che ha attuato il governo, dal Jobs Act ai voucher, proprio nel tentativo di dare occupazione ai giovani, a quanto pare con scarsi risultati. Ma, oltre alle critiche, sarebbe opportuna anche una riflessione.

I problemi del nostro paese che investono in modo particolare i giovani li sappiamo tutti. Scarsi fondi per la ricerca; sistema scolastico superiore antiquato e disallineato rispetto al mondo del lavoro; sistema universitario baronale, iniquo e labirintico; mercato del lavoro che spaccia la flessibilità come un premio e la stabilità come un fardello, portando al ribasso la qualità degli impieghi; inesistenti politiche di supporto alle giovani coppie. Solo per citarne alcuni. Aggiungiamoci poi una classe politica vecchia, inadeguata e autoreferenziale, prima causa di tutti questi malanni, e allora avremo il quadro completo della situazione.

Ma cosa facciamo noi giovani contro tutto questo? Se emigrare è una soluzione talvolta inevitabile, legata all’istinto di sopravvivenza, ed è insieme gesto di coraggio, sdegno e rifiuto, lamentarci e stare a guardare la barca che affonda non contribuirà a cambiare le cose. L’affermazione del ministro Poletti probabilmente non voleva invitare i giovani che sono rimasti nel nostro paese a fare la rivoluzione. Né voleva, ce lo si augura, insultare quelli andati via. Era più un gesto di stizza nei confronti di critiche politiche che in cuor suo ammetteva come motivate. Ad ogni modo il ministro ha colto un aspetto importante della questione. E questo riguarda la volontà di cambiamento. Lo spopolamento demografico e intellettuale del paese non è solo conseguenza di gravi deficienze politico-istituzionali, ma è anche, e soprattutto, causa di catastrofi future. Se dal disprezzo della politica non si passa all’impegno per un suo cambiamento la situazione finirà per peggiorare. E questo cambiamento non può che arrivare dai giovani: da quelli che hanno deciso loro malgrado di rimanere in Italia e che continuano ad avere fiducia. Non ci vuole un Poletti per capirlo.

**EDIT 29 marzo

Il ministro Poletti non smette di scatenare polemiche e a poco tempo dall’affermazione sui giovani che espatriano ha pensato bene di dare un consiglio a chi è in cerca di lavoro sostenendo che si “creano più opportunità giocando a calcetto che spedendo curricula”. Sebbene mal espresse, e soprattutto mal interpretate da chi opportunisticamente le strumentalizza a fini politici, queste parole contengono più di un fondo di verità. Oltre a dire ciò che tutti già sapevamo, che cioè spedire il curriculum non è abbastanza nella ricerca di un lavoro, e che molto spesso esso viene preso in considerazione o cestinato in modo del tutto aleatorio o a seconda di criteri che non per forza privilegiano il merito, queste parole sollevano il tema delle cosiddette “relazioni sociali“, e quindi di conoscenze e reti di amicizie che spesso vengono automaticamente equiparate a raccomandazioni. Ma non è sempre così, anzi. 

La capacità di costruire buoni rapporti sociali e di dimostrare la propria disponibilità e convinzione verso un certo impiego lavorativo è un elemento prezioso che vale molto più di un curriculum. Questo è evidente ora e lo era ancor di più in passato quando non esistevano candidature online e per trovare un lavoro si era costretti ad andare fisicamente in giro e a chiedere a parenti e amici. Sembra inutile, ma alla fine sorprendentemente non lo è, aggiungere che non sarà un curriculum a qualificarci come persone capaci e meritevoli di ottenere un posto di lavoro, e non sarà un curriculum a dimostrare appieno le nostre competenze e qualità. Per fortuna. 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Pensioni, perché si tratta di una questione di decenza

La sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il blocco degli adeguamenti Istat per le pensioni superiori a 1500 euro non solo trafigge in modo inaspettato i piani del governo su conti pubblici e speranze di ripresa economica. In qualche modo apre anche uno squarcio su un tema troppe volte affrontato a senso unico nel dibattito politico e sociale dai media e dalle istituzioni. Da che mondo è mondo, e da che previdenza è previdenza, ci siamo sempre preoccupati di una sola cosa: le pensioni troppo basse. Giustissimo. Sono tanti gli anziani che vivono con miseri assegni, e che spesso non riescono nemmeno a provvedere ai bisogni vitali più essenziali. Ma purtroppo non ci siamo mai concentrati su un altro aspetto della questione, forse causa ed effetto di questo problema: le pensioni troppo alte

Aldilà dei ricchissimi vitalizi dei politici, vergogna italiana in Europa, e delle famigerate “pensioni d’oro” (per le quali la sacrosanta battaglia sì si fa ma ancora senza veri risultati), quello che veramente pesa sul sistema previdenziale italiano è quella percentuale di pensioni medio-alte (sopra i 3.000 euro al mese) che costano allo stato ben 45 miliardi. Si tratta di un 5% dei pensionati che assorbe il 17% della spesa previdenziale. Questa minoranza rumorosa è partita subito all’assalto una volta appreso della sentenza della Corte Costituzionale e ha levato subito gli scudi non appena il governo ha ipotizzato un bonus che escludesse le pensioni più alte. Il tutto con il sostegno di sindacati e associazioni dei consumatori, che magari nello stesso momento in cui minacciavano ricorsi, class actions e roboanti proteste, si dimenticavano di quella metà di pensionati italiani che non arrivano a percepire mille euro al mese, oppure di tutti quei giovani, pure disoccupati, che una pensione chissà se la vedranno.

Fare una battaglia per delle pensioni che superano nettamente ciò che un giovane italiano altamente formato normalmente percepisce, è un atto notevolmente indecente oltre che ingiusto.  E ha ragione il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti quando sostiene che  è «immorale rimborsare tutti». Per carità, di certo i pensionati non hanno rubato niente a nessuno e sicuramente quei soldi sono stati il frutto di duri anni di lavoro e numerosi sacrifici. Ma dobbiamo chiederci se siamo disposti ad accettare una situazione in cui pensionati che ricevono trattamenti più che dignitosi devono avere il diritto di alzare le barricate per qualche centinaio di euro in più, mentre centinaia di migliaia di giovani devono stare in silenzio in attesa di un vero lavoro che possa dar loro la minima soddisfazione di versare qualcosa all’Inps. Ciò che si chiede non è solidarietà intergenerazionale, né compassione: è puro e semplice decoro. Ma a quanto pare da un po’ di tempo a questa parte in Italia sembra un concetto del tutto sconosciuto. 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Perché la nostra è una generazione di stagisti

Le difficoltà del mondo del lavoro italiano sono ormai risapute e dibattute da tempo e dappertutto. Si parla di licenziamenti, di delocalizzazioni, di art. 18 cancellato e di disoccupazione dilagante. Ma ci sono storie che in pochi raccontano e situazioni che non solo la politica ma anche i sindacati sembrano ignorare. Sono le storie degli attuali ventenni italiani, la maggior parte dei quali un lavoro non ce l’ha, o se ce l’ha non è un vero lavoro. Essi sono gli stagisti, un popolo di centinaia di migliaia di ragazzi, spesso altamente formati, che terminati gli studi non trova altra porta d’accesso al mondo del lavoro se non quella dello stage.

Ma cos’è lo stage? Da dove viene? E perché va così tanto di moda? Lo stage non è un contratto di lavoro. Esso è semplicemente un «periodo di orientamento al lavoro e di formazione» come previsto nelle «Linee-guida in materia di tirocini» elaborate dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2013. Secondo la norma, lo stagista sarebbe un semplice ospite nell’azienda dove ha sede lo stage e sarebbe il soggetto che in questo rapporto trae il massimo vantaggio. Ma la realtà purtroppo non è questa. Nella maggior parte dei casi, infatti, lo stage si trasforma in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato dove allo stagista vengono assegnati compiti del tutto simili a quelli svolti da un normale dipendente a contratto della stessa azienda.

Ma il vero problema non sono i datori di lavoro che non rispettano la legge. Il vero problema è stata l’introduzione di un simile strumento. Lo stage non ha praticamente nessun senso. Se introdotto davvero per poter orientare i giovani nel mondo del lavoro, ciò deve avvenire all’interno del percorso di studi e non fino a 12 mesi dalla laurea, come attualmente previsto. In questo modo il neolaureato appena uscito dall’Università saprà già cosa fare. Se, invece, si tratta di un periodo di formazione volto all’inserimento in azienda, questo istituto già esiste e si chiama apprendistato. Se, infine, si tratta molto più banalmente di un periodo di prova al quale l’azienda sottopone la risorsa al fine di valutare se meritevole di continuare il rapporto lavorativo, esiste anche questo, e si chiama patto di prova.

Come visto, le alternative ci sono, e garantiscono un minimo di tutele anche a chi sia affaccia al mondo del lavoro. Con lo stage, invece, si allontanano i nuovi lavoratori da diritti acquisiti, di cui invece beneficiano gli attuali occupati, e si compie uno dei più grandi furti generazionali mai avuti prima. Alle imprese lo stage costa quasi zero mentre al dipendente costa la privazione di un reale stipendio basato sulle ore lavorate, ferie, permessi e ammortizzatori sociali. Si torna praticamente all’Ottocento: la nostra storia pare quella di un un novello «Oliver Twist».

Come mai è potuto succedere tutto questo? Lo stage ha visto la sua prima comparsa negli anni ’80, nel pieno dell’ebbrezza liberista e deregolamentatrice targata Reagan-Thatcher. Da quel momento in poi l’intero mercato del lavoro e l’intera economia mondiale sono cambiati. L’ondata di globalizzazione degli anni 2000, poi, ha contribuito ad acuire il fenomeno. Il modello che si è imposto è quello che privilegia il mercato e ignora i diritti delle persone. E la situazione attuale di precariato per migliaia di giovani non ne è che un naturale sviluppo. Tutti purtroppo sono rimasti a guardare, dalla politica, che si è ritirata sotto il forte peso del mondo imprenditoriale, ai sindacati, organizzazioni impolverate e autoreferenziali che hanno preferito difendere i lavoratori presenti e disinteressarsi totalmente di quelli futuri. Il problema è che la situazione attuale non è sostenibile. L’economia non può reggere all’infinito su una occupazione precaria e i sindacati se continuano così non avranno più nessuno da difendere. Per il momento a pagarne i conti sono gli attuali ventenni. Una storia triste e ingiusta. Ma che fortunatamente non è ancora finita.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il “formidable” Belgio tra euforia e divisioni

La trepidazione nelle strade di Bruxelles per la partecipazione del Belgio a questi campionati mondiali era già palpabile tempo prima dell’inizio ufficiale della competizione calcistica. Dalle finestre delle abitazioni spuntavano parecchie bandiere del Regno e le automobili circolavano con dei buffi copri-specchietto in tessuto con i colori del Belgio. È vero, Bruxelles, un’enclave a straripante maggioranza francofona in terra fiamminga non rappresenta in maniera autentica l’intero popolo belga, ma anche nelle Fiandre si poteva respirare un certo entusiasmo, se anche il leader del partito separatista fiammingo, Bart De Wever, ultimamente uscito vincitore dalle recenti elezioni politiche, ha confidato di seguire le gesta dei «diables rouges» e cioè di una compagine così forte che non si era mai vista.
Il Belgio, infatti, può legittimamente avere importanti ambizioni per questo mondiale , e i risultati lo stanno confermando. Il successo, però, non è arrivato per caso. È per merito della federazione calcistica belga e del suo massimo dirigente Michel Sablon che, dopo anni bui in cui il Belgio era sparito dalla geografia calcio, ha deciso di rifondare questo sport  sulla base di due elementi chiave: i giovani e l’integrazione di promettenti stelle del calcio straniere. La formazione belga, infatti, caratterizzata da un’età media inferiore ai 25 anni, vede al suo interno oltre che la storica componente vallona e fiamminga, anche la presenza di belgi di seconda generazione o naturalizzati, oramai la maggioranza della compagine. Fuori dal campo, un’altra stella nazionale belga è il cantante Stromae, di padre rwandese e madre fiamminga, cantante francofono che nonostante la giovane età ha già guadagnato la ribalta internazionale.
Giovani e integrazione, abbiamo detto. E se questi non solo ad essere gli ingredienti per far ripartire una squadra, fossero anche gli ingredienti per far ripartire un Paese? Dopo essere stato uno dei paesi che ha meglio reagito alla crisi, il Belgio ha arrestato la propria crescita, scendendo anche a tassi di variazione del PIL negativi, provocando una fuga di cervelli all’estero.  Il modello «mondiale» del Belgio potrebbe ben funzionare in un Paese così variegato, così diviso, ma nel contempo così forte. Una ricetta che ovviamente non dovrebbe seguire solo il Belgio, ma anche il resto dell’Europa che arranca.

Certo, se la poltrona del primo ministro belga dovesse ancora rimanere vacante, Elio Di Rupo infatti si è dimesso dopo la sconfitta elettorale dello scorso 25 maggio e Bart De Wever è la persona incaricata di formare il nuovo governo, piuttosto che rimanere altri 500 giorni senza un governo, come avvenuto con la crisi istituzionale del 2011, un pensierino su Sablon alla guida del Paese sarebbe lecito farlo. 
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail