Tutto quello di cui non dovremmo spaventarci sulla Brexit

Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cosiddetto Brexit,  è finora la consultazione elettorale che sta facendo più paura all’Europa Unita. In passato già altri voti popolari hanno minacciato Bruxelles, ma mai come questo. Recentemente è toccato alle elezioni in Austria, che hanno visto il leader euroscettico dell’ultradestra Norbert Hofer mancare di un soffio la vittoria. Ma non solo, i referendum si può dire siano il vero spauracchio dell’Europa e del processo d’integrazione, portatori di grandi delusioni. Le più cocenti sono quelle dei due referendum che si sono tenuti in Francia e Paesi Bassi nel 2005, con il quale i due paesi fondatori dell’attuale Unione, hanno bocciato la Costituzione europea, un ulteriore e fondamentale step nel processo di integrazione.

Ma ci sono anche i referendum con i quali Svezia e Danimarca hanno rinunciato all’adozione dell’euro (nel 2000 e nel 2003) e quelli con il quale la Norvegia ha rifiutato per ben due volte di entrare nell’Europa Unita (1972 e 1994). Ce ne sono anche tanti altri finiti bene: la stessa Gran Bretagna nel 1975 con un referendum ha confermato la permanenza nell’allora Comunità Europea, ma stiamo parlando di un’altra epoca oppure di referendum che hanno riguardato paesi di minor rilievo, come quelli che si sono tenuti nei paesi dell’Est Europa prima del grande allargamento dei primi anni 2000 (vedi Repubblica Ceca, Slovacchia, Paesi Baltici, ecc.).

Eppure questa volta le paure e le ansie su una eventuale Brexit sembrano piuttosto esagerate e forse anche immotivate, frutto più che altro di una avvelenata battaglia politica interna al Regno Unito, caratterizzata da manipolazioni e strumentalizzazioni (si veda il tema dell’invasione dei profughi o la polemica su quanto il paese conferisce in milioni ogni anno a Bruxelles), che non da un autentico confronto su tematiche europee. Inoltre, non si tiene sufficientemente conto del fatto che la Gran Bretagna è già ora un passo fuori dall’Unione anche se è dentro il mercato unico, potendo così contare sui benefici economici ma non essendo sottoposta a vari altri obblighi, tra cui quelli derivanti da Schengen, grazie a precise clausole di opt-out. E se anche il risultato delle urne decidesse per l’uscita a pieno titolo dall’UE, per Londra e Bruxelles sarebbe facile stipulare nuovi accordi con i quali intrattenere relazioni economiche più o meno intense, come già avviene con Norvegia, Svizzera o Turchia. In poche parole l’esito referendario potrebbe essere disconosciuto quasi immediatamente, proprio come avvenne esattamente un anno fa in Grecia con il referendum sull’approvazione del piano di aiuto europeo.

Vero è che, se da un lato le conseguenze economiche di una eventuale Brexit non sono di grande rilievo nell’immediato, né per la Gran Bretagna e né tantomeno per l’UE, ciò che può destare maggiore preoccupazione sono le conseguenze politiche, soprattutto per la Gran Bretagna. In caso di una vittoria del Leave, infatti, il regno di Elisabetta II vedrebbe certamente rinvigorirsi le spinte indipendentistiche della Scozia, in maggioranza favorevole al Remain. Con molta probabilità si vedrà anche un rafforzamento delle posizioni populistiche e nazionalistiche di partiti come l’Ukip di Nigel Farage e di tutta la galassia di partiti xenofobi e di estrema destra. Per quanto riguarda la politica estera, potrebbero verificarsi diversi attriti a livello strategico oltre che con i paesi più convintamente europei, anche con gli alleati di sempre e cioè gli americani: Barack Obama ha già espresso la sua posizione contraria e preoccupata rispetto alla Brexit.

Per l’UE le conseguenze politiche riguarderebbero il processo di integrazione europea e sarebbero comunque più incerte. Sintetizzando, si possono intravedere tre possibili scenari. Nel primo ci sarebbe una accelerazione verso la disgregazione, con altri paesi che a loro volta si appresterebbero a indire referendum sulla permanenza nell’UE. Uno scenario possibile, ma in verità poco probabile.  Al contrario, la Brexit potrebbe dare un nuovo slancio verso una maggiore integrazione europea in una situazione con meno veto players, come lo è la Gran Bretagna. Uno scenario magari auspicale, ma forse ancor meno probabile del primo. Nel terzo scenario si vedrebbe un perdurare dell’attuale situazione di stallo all’interno della UE ancora per diverso tempo: l’uscita della Gran Bretagna, da paese isolazionista già con un piede fuori non inciderebbe in maniera sostanziale su equilibri e dinamiche europee. E questo scenario è quello più probabile. 

Il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016 sarà sicuramente un avvenimento storico da ricordare, con il quale i britannici avranno deciso se rivendicare a gran voce il loro splendido isolazionismo o concedersi a tenui aperture ai vicini di casa europei. Ma se questo referendum deve decidere sul destino politico dell’Europa e dell’economia internazionale temo non ci riuscirà.

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Ambiente: la Cop21 di Parigi tra vecchie speranze e nuove illusioni

Il 30 novembre cominceranno a Parigi i lavori della Cop21, la Conferenza delle Parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) sottoscritta nel 1992. L’obiettivo è quello, rincorso da tempo ormai, di sostituire il vecchioProtocollo di Kyoto del 1997 (già scaduto e poi rinnovato) sulla riduzione delle emissioni climalteranti con un nuovo accordo internazionale più aggiornato e, possibilmente, più ambizioso. Le attese alla vigilia sono alte, come lo sono sempre state prima di ogni summit sull’ambiente, ma questa volta ci sono buone ragioni per essere ottimisti sul risultato finale. O almeno così pare.
In primo luogo, la Francia, che ospita il summit, punta molto al buon esito delle trattative. Il presidente francese Francois Hollande è intervenuto in prima persona invocando, durante il suo discorso alle Nazioni Unite di fine settembre, un maggiore impegno finanziario dei Paesi ad economia avanzata in favore dei Paesi del Sud del mondo nella sfida ai cambiamenti climatici. Una questione che rappresenta il vero nodo dei negoziati e che, verosimilmente, risulta essere il vero modo per contrastare l’emissione di gas climalteranti in tutto il pianeta. L’occasione, poi, di tenere un meeting sull’ambiente così importante a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, organismo internazionale ad avereuna delle politiche ambientali più rigorose al mondo, può essere un motivo di spinta ulteriore nei negoziati.
In secondo luogo ci sono gli impegni sul taglio di Co2 già presentati dai paesi partecipanti alla Cop21. Le parti, infatti, sono state chiamate a sottoscrivere in alcuni incontri preliminari il cosiddetto “Contributo determinato a livello nazionale” (Indc). GliStati Uniti, ad esempio, hanno promesso un taglio del 26-28% delle emissioni entro il 2025 e la Cina del 60-65% per unità di Pil (la cosiddetta carbon intensity). Proprio la Cinasembra aver dato finalmente una svolta al suo atteggiamento nei confronti della questione climatica, finora per niente presa in considerazione. Considerato anche il Brasile, si tratta di impegni tutto sommato importanti, e che segnano una netta inversione di tendenza rispetto al passato, ma che potrebbero non bastare per rientrare nella fatidica soglia dei due gradi di innalzamento della temperatura globale entro la fine del secolo, come notano alcuni esperti.
In definitiva, l’attenzione a livello globale per quanto riguarda la questione ambientale appare maggiore, dopo anni di relativa noncuranza. Perlomeno la quasi totalità dei leader mondiali riconosce l’importanza del tema e sembra intenzionato ad agire. Ma da qui ad impegnarsi concretamente per la riduzione dei gas serra ce ne passa. Il pericolo è quello, ancora una volta, di accontentarsi di impegni volontari e unilaterali come già avvenuto a Copenaghen nel 2009, in un altro di quei vertici sul clima considerato cruciale per le sorti del pianeta.
L’ambiente sarà pure nelle agende dei grandi governi, ma il vero problema è la mancanza di un’effettiva governance ambientale globale, vale a dire una reale integrazione internazionale su questi temi con istituzioni e meccanismi legittimi e riconosciuti. Questo è avvenuto, ad esempio, per quanto riguarda il commercio mondiale con la creazione delGATT prima, e l’istituzione del WTO poi. Come notato da Naomi Klein nel suo ultimo libro, il processo d’integrazione economica e commerciale globale è andato di pari passo con quello della sensibilizzazione verso le principali problematiche ambientali solo che il primo ha prodotto regole chiare, condivise e vincolanti, mentre il secondo ha lasciato alla volontarietà degli stati la scelta di quali e quanti impegni prendere. Finché non sarà applicato anche per l’ambiente un sistema simile, tutti i summit internazionali come quello di Parigi saranno la solita passerella per capi di stato e di governo per dimostrare quanto ci tengono al verde e alla sostenibilità. La Cop21 potrà essere pure un successo sul piano pratico degli obiettivi che era chiamata a centrare, ma non sarà certo la soluzione.
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