Bene, ora che tutti ci siamo indignati per gli scontri e le devastazioni, ora che ci siamo adirati contro i soliti black bloc e ora che abbiamo condannato questi «quattro teppistelli figli di papà» forse è arrivato il momento di fare alcune riflessioni non solo su cosa è successo, ma soprattutto sul perché. Prima di tutti i danni causati alla città e ai cittadini, la cosa che può sembrare più assurda è proprio contestare l’Esposizione Universale. Forse è questo che più sconvolge l’opinione pubblica. Di scontri, di manifestazioni di protesta ormai ne sappiamo abbastanza. Ma contestare una manifestazione di prestigio internazionale, con un tema nobile come quello del cibo, proprio è un’azione che non è comprensibile. Di Esposizioni Universali se ne fanno da tantissimo tempo e se ne continuano a fare senza troppi intoppi più o meno ogni due anni in giro per i mondo. E queste sono grandi occasioni in cui il meglio della scienza e della tecnologia vengono presentate al mondo, dove si da una grande accelerata al progresso dell’umanità. E quindi perché mai protestare? Forse Milano è un caso particolare.
È chiaro, comunque, che nessuno è contro la manifestazione in sé. L’Expo non è altro che una grande fiera di paese dove ogni espositore mette in mostra il meglio che ha da offrire. Ed è difficile essere contro una gran bella fiera di paese. Il no all’Expo deriva, invece, da un movimento molto più ampio, da un “No” contro un certo ordine socio-economico globalizzato di cui l’Expo non ne è che una manifestazione. È vero che è difficile essere contro una bella fiera di paese, ma qualcuno potrebbe non essere pienamente contento di una fiera dove l’organizzazione non viene retribuita, dove le grandi opere realizzate vanno sempre a favore dei i soliti noti e dove a finanziare i progetti ci sono aziende che producono a danno di salute e ambiente. Ecco, a questo punto già è più difficile essere entusiasti di un evento del genere.
Sarebbe lecito però obiettare: ci sono modi e modi di protestare. Certamente. Come di recente siamo abituati a vedere (da Genova in poi), nel grande movimento di protesta “no global“, formazioni perlopiù pacifiche si mescolano con formazioni violente, di matrice anarchica (i cosiddetti black bloc). Di queste ultime si potrebbe dire che non sono animate solo dal gusto della devastazione e dello scontro, ma che affondano le loro radici in un’azione politica ben determinata: quella di Proudhon e Bakunin per intenderci. Ma forse così si finisce per sopravvalutare dei violenti che vedono tra le loro fila anche dei pirla qualsiasi. Inoltre è difficile capire dove questi anarchici vogliano arrivare: sfasciare la vetrina di qualche banca non scatenerà di certo la rivoluzione del proletariato e approfittare di eventi isolati e sporadici, seppur di grande richiamo, alla fine sembra più somigliare al casino che fa una scolaresca in gita scolastica che ad una vera azione politica.
Il guaio del movimento No Expo, del vero movimento che voleva denunciare pericoli e contraddizioni dell’Esposizione milanese, è che non è riuscito a comunicare per bene il suo messaggio, mettendosi troppe volte di traverso ad una manifestazione che pure qualche aspetto positivo, almeno negli intenti, ce l’ha (vedi il coinvolgimento della Società Civile o l’impegno per il diritto al cibo presente nella Carta di Milano). Il tema dell’alimentazione è allo stesso tempo condanna e salvezza dell’Esposizione Universale: se da una parte ci sono a sponsorizzare l’evento le multinazionali che distruggono ambiente e salute umana, simbolo e causa di un mondo consumistico e insostenibile, dall’altra l’obiettivo “Nutrire il pianeta” è quantomai una delle più importanti sfide dei governi di tutto il mondo. Poteva essere l’ennesima esposizione di oggetti ad uso e consumo dei paesi ad economia avanzata. Potrebbe invece essere qualcos’altro. Non lasciamoci sfuggire questa occasione.
L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»
Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.
Perché la nostra è una generazione di stagisti
Le difficoltà del mondo del lavoro italiano sono ormai risapute e dibattute da tempo e dappertutto. Si parla di licenziamenti, di delocalizzazioni, di art. 18 cancellato e di disoccupazione dilagante. Ma ci sono storie che in pochi raccontano e situazioni che non solo la politica ma anche i sindacati sembrano ignorare. Sono le storie degli attuali ventenni italiani, la maggior parte dei quali un lavoro non ce l’ha, o se ce l’ha non è un vero lavoro. Essi sono gli stagisti, un popolo di centinaia di migliaia di ragazzi, spesso altamente formati, che terminati gli studi non trova altra porta d’accesso al mondo del lavoro se non quella dello stage.
Ma cos’è lo stage? Da dove viene? E perché va così tanto di moda? Lo stage non è un contratto di lavoro. Esso è semplicemente un «periodo di orientamento al lavoro e di formazione» come previsto nelle «Linee-guida in materia di tirocini» elaborate dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2013. Secondo la norma, lo stagista sarebbe un semplice ospite nell’azienda dove ha sede lo stage e sarebbe il soggetto che in questo rapporto trae il massimo vantaggio. Ma la realtà purtroppo non è questa. Nella maggior parte dei casi, infatti, lo stage si trasforma in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato dove allo stagista vengono assegnati compiti del tutto simili a quelli svolti da un normale dipendente a contratto della stessa azienda.
Ma il vero problema non sono i datori di lavoro che non rispettano la legge. Il vero problema è stata l’introduzione di un simile strumento. Lo stage non ha praticamente nessun senso. Se introdotto davvero per poter orientare i giovani nel mondo del lavoro, ciò deve avvenire all’interno del percorso di studi e non fino a 12 mesi dalla laurea, come attualmente previsto. In questo modo il neolaureato appena uscito dall’Università saprà già cosa fare. Se, invece, si tratta di un periodo di formazione volto all’inserimento in azienda, questo istituto già esiste e si chiama apprendistato. Se, infine, si tratta molto più banalmente di un periodo di prova al quale l’azienda sottopone la risorsa al fine di valutare se meritevole di continuare il rapporto lavorativo, esiste anche questo, e si chiama patto di prova.
Come visto, le alternative ci sono, e garantiscono un minimo di tutele anche a chi sia affaccia al mondo del lavoro. Con lo stage, invece, si allontanano i nuovi lavoratori da diritti acquisiti, di cui invece beneficiano gli attuali occupati, e si compie uno dei più grandi furti generazionali mai avuti prima. Alle imprese lo stage costa quasi zero mentre al dipendente costa la privazione di un reale stipendio basato sulle ore lavorate, ferie, permessi e ammortizzatori sociali. Si torna praticamente all’Ottocento: la nostra storia pare quella di un un novello «Oliver Twist».
Come mai è potuto succedere tutto questo? Lo stage ha visto la sua prima comparsa negli anni ’80, nel pieno dell’ebbrezza liberista e deregolamentatrice targata Reagan-Thatcher. Da quel momento in poi l’intero mercato del lavoro e l’intera economia mondiale sono cambiati. L’ondata di globalizzazione degli anni 2000, poi, ha contribuito ad acuire il fenomeno. Il modello che si è imposto è quello che privilegia il mercato e ignora i diritti delle persone. E la situazione attuale di precariato per migliaia di giovani non ne è che un naturale sviluppo. Tutti purtroppo sono rimasti a guardare, dalla politica, che si è ritirata sotto il forte peso del mondo imprenditoriale, ai sindacati, organizzazioni impolverate e autoreferenziali che hanno preferito difendere i lavoratori presenti e disinteressarsi totalmente di quelli futuri. Il problema è che la situazione attuale non è sostenibile. L’economia non può reggere all’infinito su una occupazione precaria e i sindacati se continuano così non avranno più nessuno da difendere. Per il momento a pagarne i conti sono gli attuali ventenni. Una storia triste e ingiusta. Ma che fortunatamente non è ancora finita.
Alexis Tsipras alla prova della Realpolitik
Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con la Realpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque:Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con laRealpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque: cosa cambierà in Europa con l’avvento di Tsipras al governo greco? Probabilmente nulla. O meglio, nulla che non stia già cambiando. E il quantitative easing lanciato dal presidente della BCE Mario Draghi, una misura in realtà “in gestazione” già da molto tempo, è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.
Podemos, ovvero quello che doveva essere il MoVimento 5 stelle
Due movimenti anti-casta, due leader carismatici, due Paesi attanagliati dalla crisi economica. Una origine comune ma destinazioni diverse, quelle di Podemos in Spagna e del MoVimento 5 stelle in Italia, due forze politiche recenti ed inconsuete nel panorama politico dei due Paesi che ne sono divenute le maggiori rivelazioni elettorali. Podemos, appena pochi mesi dopo la sua nascita avvenuta lo scorso febbraio, ha ottenuto l’8% alle elezioni europee ed ora è dato come primo partito secondo i sondaggi. Il MoVimento, un po’ più vecchiotto, fondato nel 2009, ha conosciuto il suo “boom” alle ultime elezioni politiche del febbraio 2013, ottenendo il 25%. Ma ora la musica sta cambiando per quest’ultimo.
Se la formazione di Pablo Iglesias sta vivendo il suo migliore momento, ciò non si può dire per la creazione di Beppe Grillo, che è reduce da una sonora batosta elettorale alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, e sconta contestazioni dalla base e divisioni interne. Storia di un declino prevedibile. Eppure il MoVimento poteva davvero essere quella rivoluzione nella politica italiana, quell’«apriscatole» che doveva smascherare e poi stracciare tutti i privilegi della casta, quel nuovo modo di fare politica, quella nuova idea di democrazia partecipativa che opera grazie alla rete, o almeno esserne un onesto tentativo. Invece no. La sbandierata democrazia diretta di Beppe Grillo si è trasformata nella tirannia di un capo-popolo che ha utilizzato l’agorà digitale come un plebiscito per l’approvazione di decisioni già prese (basti pensare che tutte le votazioni per espellere parlamentari alla fine hanno visto questo esito e sul sito del MoVimento non è possibile la presentazione di proposte di legge da parte degli iscritti).
Podemos invece sembra essere quel cambiamento. Sembra essere quel ciclone anti-casta e anti-privilegi, soprattutto per il fatto di essere una evoluzione del movimento degli indignados. Sembra anche essere quel nuovo modo di fare politica, inclusivo e partecipativo, che coniuga le votazioni web con l’attività dei più tradizionali circoli territoriali. In questi casi Podemos può dimostrare di avercela fatta rispetto al MoVimento, suo corrispettivo italiano. Una cosa importante però, oltre all’attuale riscontro di consensi, differenzia le due formazioni politiche. Podemos è apertamente ed esplicitamente un partito di sinistra. È stato messo in piedi da un documento firmato da intellettuali della sinistra spagnola e non si esclude per il futuro una alleanza con Izquierda Unida.
Il movimento di Beppe Grillo invece ha cercato la strada della distinzione assoluta dall’attuale classe politica, intraprendendo quel tentativo di essere “oltre“, ma finendo invece per smarrire se stesso e tantissimi sostenitori. Nato con posizioni fondamentalmente di sinistra (le battaglie ambientali, il pacifismo, l’idea di decrescita e di democrazia dal basso) ha finito col solleticare la pancia della destra xenofoba (si vedano le posizioni sull’immigrazione che dividono internamente il MoVimento) pur di racimolare voti facili. Forse se fosse stato più fedele alle origini e meno accentrato nelle decisioni, il MoVimento sarebbe potuto essere il Podemos italiano, che convince i suoi sostenitori e mira al governo. Ma forse è meglio dare tempo a questa nuova entità politica spagnola per confermarsi e cercare di non deludere tutte le aspettative. In fondo non hanno ancora dimostrato niente di eccezionale. Come il MoVimento 5 stelle.
Ma i rifugiati non sono immigrati. Tutto il brutto che c’è dietro la rivolta di Tor Sapienza
Possiamo anche prendercela con gli immigrati. Mica vengono tutti in Italia a cercare un lavoro dignitoso e affrancarsi dalla povertà. Alcuni sono qui anche per delinquere, anche se la percentuale di delinquenti italiani e stranieri è pressoché la stessa. Possiamo anche pensare ad un inasprimento della politica migratoria e quindi parlare di restrizione agli ingressi e alla permanenza, di ridefinizione delle quote eccetera, come d’altronde è avvenuto con la legge Bossi-Fini. Sono posizioni perfettamente legittime e in teoria più che condivisibili, a patto che vengano rispettati i diritti fondamentali delle persone.
Ma quando parliamo della questione di Tor Sapienza non stiamo parlando di semplici immigrati. I residenti nel centro di prima accoglienza di viale Morandi sono 72 persone, 36 delle quali minorenni, richiedenti asilo in attesa che la loro posizione venga esaminata. Stiamo parlando quindi di rifugiati, il cui status è disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. I rifugiati sono coloro che emigrano non solo per sperare di trovare una vita migliore, ma soprattutto perché perseguitati dal loro stesso Paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppo sociale o opinioni politiche. Trattasi di persone che hanno bisogno di una certa protezione, una protezione che deriva da norme del diritto internazionale.
Di quartieri periferici e disagiati con problemi di integrazione ce ne sono a Roma e in tutta Italia, ma di situazioni di aggressione ad un centro rifugiati non se ne sente in nessun’altra parte del mondo. Sicuramente la convivenza tra italiani e stranieri non è stata facile e non può essere facile se le istituzioni e le autorità non la gestiscono meglio. Ma è praticamente sorprendente assistere al triste spettacolo dell’odio razzista, perché di questo si tratta. Si trattasse di proteste per condannare determinati episodi di delinquenza da parte degli stranieri del centro, il tutto sarebbe più comprensibile e giustificabile, ma agli stranieri si vogliono addossare tutti i problemi del quartiere Tor Sapienza, un quartiere che da tempo vive una situazione di lontananza e abbandono da parte dell’amministrazione comunale, così come tante altre zone periferiche romane.
La nota preoccupante è che c’è proprio qualcosa che non va se centinaia di persone se la prendono con gli ospiti di un centro rifugiati che per la maggior parte sono minorenni che forse non sanno nemmeno perché sono lì e da dove vengono. A chi imputare quindi le colpe di questa degenerazione? Certo i richiedenti asilo angeli non sono, e se sperano di poter ottenere protezione dallo Stato italiano faranno bene a rispettarne le leggi e a non creare disordini. Certo l’amministrazione poteva trovare un posto migliore dove allocare il centro e garantire magari quella sicurezza e quella cura del quartiere che i cittadini di Tor Sapienza non si vedono garantita. Ma sicuramente è da deplorare il comportamento di tutti quelli che vogliono cavalcare il disagio sociale di una zona difficile per criminalizzare lo straniero e gli immigrati in genere, nel tentativo così di poter risolvere ogni tipo di problema. No, questo non è ammissibile.
“No, you can’t”: il sogno obamiano è giunto al capolinea
Non è insolito perdere le elezioni di midterm per il presidente americano in carica. Capita quasi sempre, e si contano solo poche eccezioni nella storia, come quelle di George W. Bush e Clinton. Non è nemmeno un dramma per la tenuta politica dell’esecutivo: sappiamo che la forma di governo statunitense, di tipo presidenziale, assicura sempre il completamento del mandato ma sappiamo anche che nonostante brutte batoste ai midterms, molti presidenti sono stati rieletti alle presidenziali di due anni dopo. E questo è successo anche ad Obama. Ma questa volta il significato delle elezioni di midterm era diverso. Non ci sono più elezioni presidenziali da vincere fra due anni; ci sarebbe invece un obiettivo ben più importante per Obama da centrare al termine del suo secondo mandato: quello di lasciare il suo segno, la sua eredità al popolo americano. Di realizzare quel cambiamento che aveva promesso.
La crisi di popolarità che attraversa il primo presidente afro-americano nella storia degli USA aveva già anticipato questa débâcle elettorale. Ciò indica che l’America è stanca di Obama, si è risvegliata dall’ubriacatura successiva alle elezioni che lo hanno portato alla vittoria nel 2008 e sta già guardando avanti, in una direzione che non per forza è quella repubblicana, anzi, molto probabilmente di nuovo democratica, vista la fortissima candidatura di Hillary Clinton, ma sicuramente una direzione post-obamiana. Eppure Obama non ha governato male, tutt’altro: finora il suo operato si può dire sia stato più che soddisfacente. L’economia è tornata a riprendersi, la disoccupazione è calata, e qualche milione di americano in più può contare su una assicurazione medica grazie all’Obamacare. Per quanto riguarda gli esteri da quando c’è Obama non ci sono più invece Osama , Gheddafi e Ahmadinejad, anche se il mondo lì fuori non è molto più sicuro date le nuove minacce che incombono, vedi l’IS. Il problema è che “più che soddisfacente” per Obama non basta.
Obama ha deluso. Ha deluso forse perché erano troppo alte le aspettative nei suoi confronti. Parecchie, delle promesse che aveva fatto, non sono state mantenute. Guantanamo è ancora aperta, la rivoluzione della green economy non c’è stata, la riforma sull’immigrazione non è arrivata e le disuguaglianze in America sono ancora forti. Ed in questo modo un presidente non può lasciare il segno. Queste elezioni potevano essere cruciali per la svolta obamiana. Sgombrato il campo dalle preoccupazioni per una ri-elezione, vincendole il presidente avrebbe potuto utilizzare la maggioranza al Congresso per approvare delle vere e coraggiose riforme. Obama però è arrivato stanco e sfibrato a questo appuntamento, sotto il peso delle sue stesse promesse. Ora, con entrambi i rami del Congresso contro, sarà quasi impossibile per lui dimostrare di non essere esso stesso una grande promessa mancata, una grande illusione, una speranza spesa invano. No, Obama, you can’t. Not anymore.
Il grande balzo in avanti dei diritti civili
Non solo Jobs Act e 80 euro. L’attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l’acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt’ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l’opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.
Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l’omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l’un l’altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L’apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l’azione del governo in tal senso.
Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un’ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l’appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz’altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all’interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.
L’ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l’Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all’evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l’Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L’Italia, invece, risulta essere sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell’oblio dei diritti.
Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male
Immagine: formiche.net |
Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l’articolo 18? Null’altro. L’articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l’articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po’ l’abitudine.
A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell’anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall’articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.
La guerra in streaming dell’IS tra social network e sogni di califfato
La terribile guerra nel nome dell’Islam condotta dal neo ed autoproclamatosi Stato Islamico (IS) non è una guerra come tutte le altre. Quello di cui il gruppo terroristico fattosi Stato si sta rendendo protagonista è un nuovo modo di concepire le ostilità, un nuovo modo di diffondere la paura, un nuovo modo di parlare al mondo occidentale. E ciò non è dovuto alle efferate decapitazioni, alle crudeli crocifissioni o ai cruenti massacri degli infedeli. Questo genere di atrocità sono in realtà grosso modo perpetrate off-the-record dovunque vi sia la presenza di gruppi fondamentalisti, e cioè in parecchi posti nel mondo.