Capire i No Expo

Bene, ora che tutti ci siamo indignati per gli scontri e le devastazioni, ora che ci siamo adirati contro i soliti black bloc e ora che abbiamo condannato questi «quattro teppistelli figli di papà» forse è arrivato il momento di fare alcune riflessioni non solo su cosa è successo, ma soprattutto sul perché. Prima di tutti i danni causati alla città e ai cittadini, la cosa che può sembrare più assurda è proprio contestare l’Esposizione Universale. Forse è questo che più sconvolge l’opinione pubblica. Di scontri, di manifestazioni di protesta ormai ne sappiamo abbastanza. Ma contestare una manifestazione di prestigio internazionale, con un tema nobile come quello del cibo, proprio è un’azione che non è comprensibile. Di Esposizioni Universali se ne fanno da tantissimo tempo e se ne continuano a fare senza troppi intoppi più o meno ogni due anni in giro per i mondo. E queste sono grandi occasioni in cui il meglio della scienza e della tecnologia vengono presentate al mondo, dove si da una grande accelerata al progresso dell’umanità. E quindi perché mai protestare? Forse Milano è un caso particolare.

È chiaro, comunque, che nessuno è contro la manifestazione in sé. L’Expo non è altro che una grande fiera di paese dove ogni espositore mette in mostra il meglio che ha da offrire. Ed è difficile essere contro una gran bella fiera di paese. Il no all’Expo deriva, invece, da un movimento molto più ampio, da un “No” contro un certo ordine socio-economico globalizzato di cui l’Expo non ne è che una manifestazione. È vero che è difficile essere contro una bella fiera di paese, ma qualcuno potrebbe  non essere pienamente contento di una fiera dove l’organizzazione non viene retribuita, dove le grandi opere realizzate vanno sempre a favore dei i soliti noti e dove a finanziare i progetti ci sono aziende che producono a danno di salute e ambiente. Ecco, a questo punto già è più difficile essere entusiasti di un evento del genere.

Sarebbe lecito però obiettare: ci sono modi e modi di protestare. Certamente. Come di recente siamo abituati a vedere (da Genova in poi), nel grande movimento di protesta “no global“, formazioni perlopiù pacifiche si mescolano con formazioni violente, di matrice anarchica (i cosiddetti black bloc). Di queste ultime si potrebbe dire che non sono animate solo dal gusto della devastazione e dello scontro, ma che affondano le loro radici  in un’azione politica ben determinata: quella di Proudhon e Bakunin per intenderci. Ma forse così si finisce per sopravvalutare dei violenti che vedono tra le loro fila anche dei pirla qualsiasi. Inoltre è difficile capire dove questi anarchici vogliano arrivare: sfasciare la vetrina di qualche banca non scatenerà di certo la rivoluzione del proletariato e approfittare di eventi isolati e sporadici, seppur di grande richiamo, alla fine sembra più somigliare al casino che fa una scolaresca in gita scolastica che ad una vera azione politica.

Il guaio del movimento No Expo, del vero movimento che voleva denunciare pericoli e contraddizioni dell’Esposizione milanese, è che non è riuscito a comunicare per bene il suo messaggio, mettendosi troppe volte di traverso ad una manifestazione che pure qualche aspetto positivo, almeno negli intenti, ce l’ha (vedi il coinvolgimento della Società Civile o l’impegno per il diritto al cibo presente nella Carta di Milano). Il tema dell’alimentazione è allo stesso tempo condanna e salvezza dell’Esposizione Universale: se da una parte ci sono a sponsorizzare l’evento le multinazionali che distruggono ambiente e salute umana, simbolo e causa di un mondo consumistico e insostenibile, dall’altra l’obiettivo “Nutrire il pianeta” è quantomai una delle più importanti sfide dei governi di tutto il mondo. Poteva essere l’ennesima esposizione di oggetti ad uso e consumo dei paesi ad economia avanzata. Potrebbe invece essere qualcos’altro. Non lasciamoci sfuggire questa occasione.

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L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»

Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.


Cosa rende particolare questo fenomeno? È da rubricare come l’ultima moda del momento o sotto c’è qualcosa di più profondo? Alla base c’è sicuramente la crisi economica degli ultimi anni caratterizzata da una notevole contrazione dei consumi. Questa difficoltà nella spesa, unita alla voglia di non rinunciare ad alcuni abitudini tipiche di una società del benessere (viaggi, hobby), hanno segnato il successo di questi servizi che consentono di non rinunciare ai nostri svaghi, ma al tempo stesso di risparmiare. È come se all’austerità della spesa pubblica, quella che viene dall’alto, che impone tagli e sacrifici, si sia contrapposta un’austerità dal basso, che ottimizza la spesa, abbatte lo spreco, e trova comunque il modo di concedersi dei passatempi. Ma non è stata solo la congiuntura economica ad aver contribuito alla nascita della sharing economy. Tutti i servizi di condivisione menzionati, e molti altri ancora, nascono e crescono sul web, e potrebbero essere visti come una nuova evoluzione dei Reti Sociali che dal virtuale portano le esperienze al reale.

La questione è ora capire se la sharing economy è solo una moda passeggera o è invece l’inizio di un vero e proprio cambiamento della società e del sistema economico. Se questa «austerità dal basso» può, ad esempio, essere riconducibile a quella auspicata da Enrico Berlinguer nel suo controverso discorso del 1977 quando sosteneva che l’austerità è uno strumento per rivoluzionare una società «i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». La sharing economy come fine della società consumistica? Una possibile interpretazione. Certamente, è alla base della sharing economy l’idea di consumo collaborativo: un consumo più intelligente e più consapevole, particolarmente attento a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane.

Ma prima di Berlinguer, chi già parlava di qualcosa più simile all’attuale sharing economy era Karl Polanyi, padre della moderna antropologia economica. Nel suo famoso testo «La grande trasformazione», uscito nel 1944, Polanyi muove una forte critica e intravede l’inevitabile fallimento della «società di mercato»: una società dominata dall’economia, dove tutto è guadagno, fondata sullo scambio mercantile. Il contrario della sharing economy, dove l’accento ultimo, almeno in teoria, non viene posto sull’arricchimento monetario, ma sull’arricchimento personale, quello espresso in termini di esperienze. È difficile, in verità, prevedere se la tesi di Polanyi possa trovare effettiva applicazione nella sharing economy, se questo fenomeno cioè possa concretarsi in un sostanziale cambiamento della società, o se invece si tratta solo di un modo di risparmiare in tempo di ristrettezze. Per il momento, sappiamo solo che grazie alla Rete e alle nuove tecnologie stanno cambiando innanzitutto le relazioni tra gli individui, e che se due perfetti sconosciuti vogliono dividersi le spese del viaggio da Roma a Milano e al tempo stesso fare due chiacchiere possono benissimo farlo, senza scomodare né Polanyi e né Berlinguer.

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Perché la nostra è una generazione di stagisti

Le difficoltà del mondo del lavoro italiano sono ormai risapute e dibattute da tempo e dappertutto. Si parla di licenziamenti, di delocalizzazioni, di art. 18 cancellato e di disoccupazione dilagante. Ma ci sono storie che in pochi raccontano e situazioni che non solo la politica ma anche i sindacati sembrano ignorare. Sono le storie degli attuali ventenni italiani, la maggior parte dei quali un lavoro non ce l’ha, o se ce l’ha non è un vero lavoro. Essi sono gli stagisti, un popolo di centinaia di migliaia di ragazzi, spesso altamente formati, che terminati gli studi non trova altra porta d’accesso al mondo del lavoro se non quella dello stage.

Ma cos’è lo stage? Da dove viene? E perché va così tanto di moda? Lo stage non è un contratto di lavoro. Esso è semplicemente un «periodo di orientamento al lavoro e di formazione» come previsto nelle «Linee-guida in materia di tirocini» elaborate dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2013. Secondo la norma, lo stagista sarebbe un semplice ospite nell’azienda dove ha sede lo stage e sarebbe il soggetto che in questo rapporto trae il massimo vantaggio. Ma la realtà purtroppo non è questa. Nella maggior parte dei casi, infatti, lo stage si trasforma in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato dove allo stagista vengono assegnati compiti del tutto simili a quelli svolti da un normale dipendente a contratto della stessa azienda.

Ma il vero problema non sono i datori di lavoro che non rispettano la legge. Il vero problema è stata l’introduzione di un simile strumento. Lo stage non ha praticamente nessun senso. Se introdotto davvero per poter orientare i giovani nel mondo del lavoro, ciò deve avvenire all’interno del percorso di studi e non fino a 12 mesi dalla laurea, come attualmente previsto. In questo modo il neolaureato appena uscito dall’Università saprà già cosa fare. Se, invece, si tratta di un periodo di formazione volto all’inserimento in azienda, questo istituto già esiste e si chiama apprendistato. Se, infine, si tratta molto più banalmente di un periodo di prova al quale l’azienda sottopone la risorsa al fine di valutare se meritevole di continuare il rapporto lavorativo, esiste anche questo, e si chiama patto di prova.

Come visto, le alternative ci sono, e garantiscono un minimo di tutele anche a chi sia affaccia al mondo del lavoro. Con lo stage, invece, si allontanano i nuovi lavoratori da diritti acquisiti, di cui invece beneficiano gli attuali occupati, e si compie uno dei più grandi furti generazionali mai avuti prima. Alle imprese lo stage costa quasi zero mentre al dipendente costa la privazione di un reale stipendio basato sulle ore lavorate, ferie, permessi e ammortizzatori sociali. Si torna praticamente all’Ottocento: la nostra storia pare quella di un un novello «Oliver Twist».

Come mai è potuto succedere tutto questo? Lo stage ha visto la sua prima comparsa negli anni ’80, nel pieno dell’ebbrezza liberista e deregolamentatrice targata Reagan-Thatcher. Da quel momento in poi l’intero mercato del lavoro e l’intera economia mondiale sono cambiati. L’ondata di globalizzazione degli anni 2000, poi, ha contribuito ad acuire il fenomeno. Il modello che si è imposto è quello che privilegia il mercato e ignora i diritti delle persone. E la situazione attuale di precariato per migliaia di giovani non ne è che un naturale sviluppo. Tutti purtroppo sono rimasti a guardare, dalla politica, che si è ritirata sotto il forte peso del mondo imprenditoriale, ai sindacati, organizzazioni impolverate e autoreferenziali che hanno preferito difendere i lavoratori presenti e disinteressarsi totalmente di quelli futuri. Il problema è che la situazione attuale non è sostenibile. L’economia non può reggere all’infinito su una occupazione precaria e i sindacati se continuano così non avranno più nessuno da difendere. Per il momento a pagarne i conti sono gli attuali ventenni. Una storia triste e ingiusta. Ma che fortunatamente non è ancora finita.

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Alexis Tsipras alla prova della Realpolitik

Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con la Realpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più  al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque:Le elezioni in Grecia del 25 gennaio hanno delineato un quadro più che mai chiaro: Syriza, una delle formazioni politiche di sinistra più forti che il Paese ellenico e l’intera Europa abbiano mai potuto conoscere, ha vinto. Syriza, una formazione politica che proviene dall’esperienza delle sinistre comuniste, della lotta di classe e della dialettica borghesia-proletariato, ora non è più una forza di opposizione, ma di governo. Ed il passaggio da una parte all’altra può essere stravolgente. Alexis Tsipras ora dovrà vedersela con laRealpolitik. Significa, in parole povere, passare dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dalle idee alla realtà. Ed è inutile ricordare che la campagna elettorale ed il programma di governo di Syriza sono pregni di rivendicazioni ideologiche ed obiettivi politici che appartengono più  al piano dell’astratto che a quello del concreto, come il pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania.
Ma Alexis Tsipras non verrà certo colto di sorpresa dal confronto con la Realpolitik. Il nuovo premier greco, infatti, pare trattarla più come alleata che come nemica. È evidente come grazie alle sue posizioni mai troppo estremiste (e forse mai troppo ben definite) – contro l’austerità ma in favore dell’euro e dell’Europa unita, non più per la cancellazione del debito ma per la sua negoziazione – il partito Syriza sia riuscito a conquistare questo grande consenso elettorale e sia soprattutto riuscito a portare via voti ai socialisti del PASOK. Il pragmatismo di Tsipras lo si nota anche e soprattutto dall’alleanza di governo fatta con gli indipendentisti di ANEL, una formazione di destra con la quale Syriza ha in comune solo il no all’austerità e poco altro.
La domanda che si fanno tutti è dunque: cosa cambierà in Europa con l’avvento di Tsipras al governo greco? Probabilmente nulla. O meglio, nulla che non stia già cambiando. E il quantitative easing lanciato dal presidente della BCE Mario Draghi, una misura in realtà “in gestazione” già da molto tempo, è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.è indubbiamente un segnale di questo cambiamento. Un cambiamento che senza l’ondata rossa proveniente da Atene avrebbe ancora stentato ad arrivare. Probabilmente verrà anche convocata la tanto richiesta “Conferenza sul debito europeo” che dovrebbe rivedere e rilassare la situazione debitoria dei Paesi in difficoltà. Ma più di questo nient’altro. Nessuna rivoluzione bolscevica a Bruxelles, nessuna dittatura del proletariato europeo. Alla Grecia potrà essere concesso più tempo per ripagare i debiti con interessi meno onerosi oltre alla possibilità di poter accedere all’iniezione di miliardi offerta dalla BCE. E questo sarà già un grande risultato per Tsipras. Tsipras che, se sarà capace di adeguarsi al meglio alla Realpolitik, se saprà trattarla come una soluzione più che come un ostacolo, riuscirà a portare fuori dalla crisi economica il suo Paese senza sconquassi né per lo stesso Paese ellenico e né per il resto dell’Europa. E potrà divenire un leader di sinistra di successo che ha sapientemente coniugato opportunismo politico, carisma, e rivendicazioni ideologiche.

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Podemos, ovvero quello che doveva essere il MoVimento 5 stelle

Due movimenti anti-casta, due leader carismatici, due Paesi attanagliati dalla crisi economica. Una origine comune ma destinazioni diverse, quelle di Podemos in Spagna e del MoVimento 5 stelle in Italia, due forze politiche recenti ed inconsuete nel panorama politico dei due Paesi che ne sono divenute le maggiori rivelazioni elettorali. Podemos, appena pochi mesi dopo la sua nascita avvenuta lo scorso febbraio, ha ottenuto l’8% alle elezioni europee ed ora è dato come primo partito secondo i sondaggi. Il MoVimento, un po’ più vecchiotto, fondato nel 2009, ha conosciuto il suo “boom” alle ultime elezioni politiche del febbraio 2013, ottenendo il 25%. Ma ora la musica sta cambiando per quest’ultimo.

Se la formazione di Pablo Iglesias sta vivendo il suo migliore momento, ciò non si può dire per la creazione di Beppe Grillo, che è reduce da una sonora batosta elettorale alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, e sconta contestazioni dalla base e divisioni interne. Storia di un declino prevedibile. Eppure il MoVimento poteva davvero essere quella rivoluzione nella politica italiana, quell’«apriscatole» che doveva smascherare e poi stracciare tutti i privilegi della casta, quel nuovo modo di fare politica, quella nuova idea di democrazia partecipativa che opera grazie alla rete, o almeno esserne un onesto tentativo. Invece no. La sbandierata democrazia diretta di Beppe Grillo si è trasformata nella tirannia di un capo-popolo che ha utilizzato l’agorà digitale come un plebiscito per l’approvazione di decisioni già prese (basti pensare che tutte le votazioni per espellere parlamentari alla fine hanno visto questo esito e sul sito del MoVimento non è possibile la presentazione di proposte di legge da parte degli iscritti).

Podemos invece sembra essere quel cambiamento. Sembra essere quel ciclone anti-casta e anti-privilegi, soprattutto per il fatto di essere una evoluzione del movimento degli indignados. Sembra anche essere quel nuovo modo di fare politica, inclusivo e partecipativo, che coniuga le votazioni web con l’attività dei più tradizionali circoli territoriali. In questi casi Podemos può dimostrare di avercela fatta rispetto al MoVimento, suo corrispettivo italiano. Una cosa importante però, oltre all’attuale riscontro di consensi, differenzia le due formazioni politiche. Podemos è apertamente ed esplicitamente un partito di sinistra. È stato messo in piedi da un documento firmato da intellettuali della sinistra spagnola e non si esclude per il futuro una alleanza con Izquierda Unida. 

Il movimento di Beppe Grillo invece ha cercato la strada della distinzione assoluta dall’attuale classe politica, intraprendendo quel tentativo di essere “oltre“, ma finendo invece per smarrire se stesso e tantissimi sostenitori.  Nato con posizioni fondamentalmente di sinistra (le battaglie ambientali, il pacifismo, l’idea di decrescita e di democrazia dal basso) ha finito col solleticare la pancia della destra xenofoba (si vedano le posizioni sull’immigrazione che dividono internamente il MoVimento) pur di racimolare voti facili. Forse se fosse stato più fedele alle origini e meno accentrato nelle decisioni, il MoVimento sarebbe potuto essere il Podemos italiano, che convince i suoi sostenitori e mira al governo. Ma forse è meglio dare tempo a questa nuova entità politica spagnola per confermarsi e cercare di non deludere tutte le aspettative. In fondo non hanno ancora dimostrato niente di eccezionale. Come il MoVimento 5 stelle. 

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Ma i rifugiati non sono immigrati. Tutto il brutto che c’è dietro la rivolta di Tor Sapienza

Possiamo anche prendercela con gli immigrati. Mica vengono tutti in Italia a cercare un lavoro dignitoso e affrancarsi dalla povertà. Alcuni sono qui anche per delinquere, anche se la percentuale di delinquenti italiani e stranieri è pressoché la stessa. Possiamo anche pensare ad un inasprimento della politica migratoria e quindi parlare di restrizione agli ingressi e alla permanenza, di ridefinizione delle quote eccetera, come d’altronde è avvenuto con la legge Bossi-Fini. Sono posizioni perfettamente legittime e in teoria più che condivisibili, a patto che vengano rispettati i diritti fondamentali delle persone.

Ma quando parliamo della questione di Tor Sapienza non stiamo parlando di semplici immigrati. I residenti nel centro di prima accoglienza di viale Morandi sono 72 persone, 36 delle quali minorenni, richiedenti asilo in attesa che la loro posizione venga esaminata. Stiamo parlando quindi di rifugiati, il cui status è disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. I rifugiati sono coloro che emigrano non solo per sperare di trovare una vita migliore, ma soprattutto perché perseguitati dal loro stesso Paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppo sociale o opinioni politiche. Trattasi di persone che hanno bisogno di una certa protezione, una protezione che deriva da norme del diritto internazionale.

Di quartieri periferici e disagiati con problemi di integrazione ce ne sono a Roma e in tutta Italia,  ma di situazioni di aggressione ad un centro rifugiati non se ne sente in nessun’altra parte del mondo. Sicuramente la convivenza tra italiani e stranieri non è stata facile e non può essere facile se le istituzioni e le autorità non la gestiscono meglio. Ma è praticamente sorprendente assistere al triste spettacolo dell’odio razzista, perché di questo si tratta. Si trattasse di proteste per condannare determinati episodi di delinquenza da parte degli stranieri del centro, il tutto sarebbe più comprensibile e giustificabile, ma agli stranieri si vogliono addossare tutti i problemi del quartiere Tor Sapienza, un quartiere che da tempo vive una situazione di lontananza e abbandono da parte dell’amministrazione comunale, così come tante altre zone periferiche romane.

La nota preoccupante è che c’è proprio qualcosa che non va se centinaia di persone se la prendono con gli ospiti di un centro rifugiati che per la maggior parte sono minorenni che forse non sanno nemmeno perché sono lì e da dove vengono. A chi imputare quindi le colpe di questa degenerazione? Certo i richiedenti asilo angeli non sono, e se sperano di poter ottenere protezione dallo Stato italiano faranno bene a rispettarne le leggi e a non creare disordini. Certo l’amministrazione poteva trovare un posto migliore dove allocare il centro e garantire magari quella sicurezza e quella cura del quartiere che i cittadini di Tor Sapienza non si vedono garantita. Ma sicuramente è da deplorare il comportamento di tutti quelli che vogliono cavalcare il disagio sociale di una zona difficile per criminalizzare lo straniero e gli immigrati in genere, nel tentativo così di poter risolvere ogni tipo di problema. No, questo non è ammissibile.

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“No, you can’t”: il sogno obamiano è giunto al capolinea

Non è insolito perdere le elezioni di midterm per il presidente americano in carica. Capita quasi sempre, e si contano solo poche eccezioni nella storia, come quelle di George W. Bush e Clinton. Non è nemmeno un dramma per la tenuta politica dell’esecutivo: sappiamo che la forma di governo statunitense, di tipo presidenziale, assicura sempre il completamento del mandato ma sappiamo anche che nonostante brutte batoste ai midterms, molti presidenti sono stati rieletti alle presidenziali di due anni dopo. E questo è successo anche ad Obama. Ma questa volta il significato delle elezioni di midterm era diverso. Non ci sono più elezioni presidenziali da vincere fra due anni; ci sarebbe invece un obiettivo ben più importante per Obama da centrare al termine del suo secondo mandato: quello di lasciare il suo segno, la sua eredità al popolo americano. Di realizzare quel cambiamento che aveva promesso.

La crisi di popolarità che attraversa il primo presidente afro-americano nella storia degli USA aveva già anticipato questa débâcle elettorale. Ciò indica che l’America è stanca di Obama, si è risvegliata dall’ubriacatura successiva alle elezioni che lo hanno portato alla vittoria nel 2008 e sta già guardando avanti, in una direzione che non per forza è quella repubblicana, anzi, molto probabilmente di nuovo democratica, vista la fortissima candidatura di Hillary Clinton, ma sicuramente una direzione  post-obamiana. Eppure Obama non ha governato male, tutt’altro: finora il suo operato si può dire sia stato più che soddisfacente. L’economia è tornata a riprendersi, la disoccupazione è calata, e qualche milione di americano in più può contare su una assicurazione medica grazie all’Obamacare. Per quanto riguarda gli esteri da quando c’è Obama non ci sono più invece Osama , Gheddafi e Ahmadinejad, anche se il mondo lì fuori non è molto più sicuro date le nuove minacce che incombono, vedi l’IS. Il problema è che “più che soddisfacente” per Obama non basta.

Obama ha deluso. Ha deluso forse perché erano troppo alte le aspettative nei suoi confronti. Parecchie, delle promesse che aveva fatto, non sono state mantenute. Guantanamo è ancora aperta, la rivoluzione della green economy non c’è stata, la riforma sull’immigrazione non è arrivata e le disuguaglianze in America sono ancora forti. Ed in questo modo un presidente non può lasciare il segno. Queste elezioni potevano essere cruciali per la svolta obamiana. Sgombrato il campo dalle preoccupazioni per una ri-elezione, vincendole il presidente avrebbe potuto utilizzare la maggioranza al Congresso per approvare delle vere e coraggiose riforme. Obama però è arrivato stanco e sfibrato a questo appuntamento, sotto il peso delle sue stesse promesse. Ora, con entrambi i rami del Congresso contro, sarà quasi impossibile per lui dimostrare di non essere esso stesso una grande promessa mancata, una grande illusione, una speranza spesa invano. No, Obama, you can’t. Not anymore. 

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Il grande balzo in avanti dei diritti civili

Non solo Jobs Act e 80 euro. L’attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l’acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt’ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l’opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.

Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l’omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l’un l’altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L’apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l’azione del governo in tal senso.

Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un’ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l’appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz’altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all’interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.

L’ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l’Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all’evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l’Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L’Italia, invece, risulta essere   sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell’oblio dei diritti.

È sempre e subito facile individuare dove l’Italia è un Paese arretrato. Lo è nella ricerca e nell’innovazione, nelle infrastrutture, nella lotta all’evasione e al malaffare (nel post precedente abbiamo invece visto come non lo sia nelle tutele dei lavoratori), ma forse non ci viene in mente che lo è anche nei diritti civili, e specialmente nei diritti delle coppie. È importante avere ben presente questo se vogliamo che il nostro Paese si voglia di nuovo mettere al passo con il resto d’Europa, è importante sapere che l’Italia deve ancora fare un grande balzo in avanti nei diritti civili.

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Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male

Immagine: formiche.net

Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l’articolo 18? Null’altro. L’articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l’articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po’ l’abitudine.

A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell’anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall’articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.


È tutto sbagliato. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ormai non esiste (quasi) più da due anni, esattamente da quando l’ex ministra Fornero ha introdotto la sua riforma che ha previsto, indovinate cosa, la possibilità del solo indennizzo al lavoratore in luogo del reintegro  per licenziamento dovuto a cause economiche. Cioè la stessa cosa di cui si discute tanto ora. La tutela reale della riforma Fornero viene mantenuta solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Chi voleva opporsi e scatenare il putiferio contro la riduzione dei diritti dei lavoratori avrebbe dovuto farlo due anni fa, non ora.
Ecco il quadro. Parlare di articolo 18 sembra ora irrimediabilmente inutile, a meno che non si voglia farlo per conservare quelle poche tutele che ancora restano, per i già citati licenziamenti discriminatori e disciplinari, tutele che potrebbero pericolosamente anch’esse essere smantellate. Ma anche quest’ultima strenua difesa potrebbe perdere di significato visto che, soprattutto per il licenziamento discriminatorio, è difficilissimo fornire delle prove, e quindi questa fattispecie veniva coperta dal reintegro previsto dal licenziamento economico. Ora che questa non c’è più, sarà più facile licenziare in qualsiasi caso.

La definitiva eliminazione della tutela reale prevista dall’articolo 18 indica quanto noi italiani siamo bravi a farci del male. Nell’unico campo normativo in cui l’Italia era all’avanguardia, la legislazione a tutela del lavoratori, siamo retrocessi. Nessun altro Paese europeo prevedeva una normativa così avanzata. In Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, c’è quasi praticamente soltanto l’indennizzo al lavoratore per licenziamento senza giustificato motivo. Diciamocelo, c’era un’unica intuizione, semplice e geniale, da fare: sanzionare i datori di lavoro che licenziano senza un giustificato motivo, e noi ci siamo arrivati. Nel 1970. E ora vogliamo tornare indietro. Una normale legge che va a punire le ingiustizie. Nessun diritto di licenziare viene tolto al datore di lavoro perché se ci sono validi motivi l’imprenditore potrà sempre e comunque licenziare, e ci mancherebbe altro. 

Ma ciò che è davvero curioso in tutta la vicenda è il ruolo che dovrebbe avere questo articolo 18 nella ripresa dell’economia e nella creazione di occupazione. Infatti, se il problema dell’Italia è la disoccupazione, perché fare una legge che facilita i licenziamenti? E non una che incoraggia le assunzioni? Stranezze. D’altronde, nessuno ormai, neppure gli imprenditori, credono davvero che l’articolo 18 sia un freno per la crescita economica del nostro Paese. Periodi di crescita ne abbiamo avuti tanti, nei vari decenni ’80, ’90, e 2000, e l’articolo 18 già c’era. Siamo la seconda manifattura d’Europa anche con l’articolo 18. 
Sembra chiaro, ormai, che la disputa sull’articolo 18 sia solo ed esclusivamente una contrapposizione politica, finalizzata all’eliminazione dell’avversario, e cioè detto chiaro e tondo Renzi che vuole sbarazzarsi definitivamente della componente più «tradizionalista» del suo partito. Chi vede la volontà del governo come quella finalmente di ridare dinamicità al mercato del lavoro e puntare a investimenti esteri che non aspettano altro che l’articolo 18 venga abolito per entrare nel nostro Paese, potrebbe sbagliarsi di grosso. Se fosse questo il fine, sarebbe un’ipotesi tanto migliore. Renzi, in realtà, così facendo vuole definitivamente concludere una epoca politica, quella della sinistra che va a braccetto con i sindacati per aprirne una nuova, la sua. 

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La guerra in streaming dell’IS tra social network e sogni di califfato

La terribile guerra nel nome dell’Islam condotta dal neo ed autoproclamatosi Stato Islamico (IS) non è una guerra come tutte le altre. Quello di cui il gruppo terroristico fattosi Stato si sta rendendo protagonista è un nuovo modo di concepire le ostilità, un nuovo modo di diffondere la paura, un nuovo modo di parlare al mondo occidentale. E ciò non è dovuto alle efferate decapitazioni, alle crudeli crocifissioni o ai cruenti massacri degli infedeli. Questo genere di atrocità sono in realtà grosso modo perpetrate off-the-record dovunque vi sia la presenza di gruppi fondamentalisti, e cioè in parecchi posti nel mondo.

Ciò che caratterizza l’IS è invece la cura e l’attenzione con cui utilizzano i mass media, e soprattutto i social media, per amplificare il loro messaggio di guerra e di terrore. I mezzi di comunicazione sono diventati nelle loro mani una potentissima arma forse ancora più efficace delle abbondanti scorte di kalashnikov su cui possono fare affidamento.
Che il terrorismo si servisse del potere della comunicazione per raggiungere i proprio i scopi, era già un aspetto noto, quasi ovvio e scontato, dal momento che terrorismo implica diffusione, propagazione, contagio della paura nella mente dello spettatore. È dunque inevitabile che il terrorismo assuma una relazione quasi simbiotica con la comunicazione. Ricordiamo ancora troppo bene i videomessaggi di Osama Bin Laden, nei quali l’ex capo di Al Qaida lanciava anatemi contro l’Occidente. Ma quei monotoni clip a bassa risoluzione sono ora stati sostituiti da ben più cinematografici (genere horror/splatter) video in HD ad opera del califfato più virtuale che ci sia
La guerra in streaming dell’IS porta le atrocità e le barbarie dei tempi remoti verso nuove frontiere: il mix letale di jihad e social network spalanca le porte all’orrore che entra direttamente nella quotidianità delle nostre vite digitali, suggellando una macabra e perversa logica del “selfie col morto.” 
Ma aldilà dello shock e del turbamento,  quali sono le ragioni per cui l’IS ha deciso di manifestare on-line le sue nefandezze? Quali vantaggi può trarre da questa strategia? E, più generalmente, qual è la reale portata, non solo virtuale, ma anche geopolitica, di questo nuovo soggetto?
La svolta “social” del gruppo jihadista che opera tra Siria ed Iraq, e sogna di ristabilire un grande califfato per riunire sotto un’unica autorità tutti i musulmani, è arrivata per due motivi: uno è la natura assai giovane e ampiamente tecnologizzata del movimento di lotta islamica, l’altro è un fine assai pratico: la facilità di proselitismo che offre il web. Infatti, grazie a internet, l‘IS è riuscito ad arruolare tra le sue fila migliaia di combattenti provenienti dall’estero e soprattutto dall’Occidente, che si sono convertiti alla causa dell’Islam. È indubbio che l’ISIS abbia portato la guerra ad un altro livello. Ormai il campo di battaglia non è più solo quello reale, fatto di polvere e trincee, ma anche quello virtuale. L’IS ha sposato una logica di grassrooting grazie alla quale è riuscito a sviluppare un considerevole contingente di forze che opera su tastiera tramite Twitter, Facebook e Instagram, ottenendo, inoltre, un notevole numero di followers e una grande quantità di like. Grazie a questo approccio, essi sono già riusciti ad affermarsi sugli altri gruppi fondamentalisti islamici, meno avvezzi all’uso delle nuove tecnologie.

Tuttavia, l’ostentazione della violenza e dell’odio on-line sembra essere fatta più per impressionare che per dimostrare autentiche  forze in campo. L’IS ha ancora troppi nemici dal notevole peso specifico per poter realmente pensare di realizzare i proprio sogni di gloria. 
Prima di tutto c’è il nemico interno. L’ex ISIS è solo l’ultimo arrivato in una galassia di formazioni fondamentaliste in rivalità anche tra loro. Al Qaida, tramite il suo numero uno Al Zahawairi ha già sconfessato il movimento di Al Baghdadi, definendolo troppo estremista e radicale. Secondo, c’è un attore molto importante nell’area che spesso non viene ricordato e che non è da non sottovalutare: l’Iran. Lo Stato sciita si trova alle porte di casa un nemico pericolosissimo che odia tanto i miscredenti occidentali quanto i “traditori” della vera fede islamica. E perciò non è da escludere un più ampio impegno dell’Iran in questo teatro di guerra, anche in cooperazione con Paesi con i quali non intrattiene felici rapporti come, per esempio, l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita è un altro attore fondamentale nel palcoscenico mediorentale, preoccupato come altri dell’ascesa dell’IS. L’estremismo e il populismo di quest’ultimo sono motivi di agitazione per la monarchia di casa Saud che teme di vedersi spazzata via da un ondata di Islam dal basso. Poi c’è la Turchia, che si ritrova ad essere la vittima di un effetto boomerang scatenato da una politica estera a sostegno delle opposizioni ad Assad, ISIS compreso, e che ora vede lo Stato Islamico una minaccia che bussa alla porta di casa, prova ne è la cattura di 49 turchi tenuti come ostaggi dalle milizie di Al Baghdadi. Finora la Turchia non ha fatto molto per impedire l’espansione dell’IS, ma è arrivato il momento che si rendi anch’essa un attore attivo nella lotta contro il terrorismo islamico: la Turchia è un paese troppo importante nella zona per poterne fare a meno. Più defilato, invece, Israele, che non vuole gettarsi nella mischia di guerra che, per il momento, non pone troppe minacce alla sicurezza dello Stato ebraico.
Infine l’Occidente. Esso non è un last but not least. Se sono stati elencati prima gli attori regionali è proprio perché essi possono avere un ruolo maggiore nella risoluzione della crisi mediorientale piuttosto che il mondo occidentale. La linea in politica estera di Obama è chiaramente quella di smarcarsi dai più cruenti e complicati teatri di guerra nel mondo, anche se gli USA non possono drasticamente dismettere i panni di gendarme del mondo, soprattutto quando vengono direttamente tirati in ballo dai terroristi (che decapitano suoi cittadini o che dichiarano di “alzare la bandiera di Allah sulla Casa Bianca”). Resta il fatto che le bombe sganciate dall’alto, sebbene utili a distruggere i punti logistici dei fondamentalisti, non riusciranno mai a dare stabilità alla zona, e in questo sono indispensabili gli attori regionali.
Date le circostanze, quindi, spargere sangue on-line difficilmente permetterà a all’IS di stabilire il califfato islamico, ma se non altro avrà contribuito ad una nuova evoluzione della guerra, che integra in modo professionale l’aspetto della comunicazione web, e che coniuga perfettamente lo sfizio dell’apparire della società moderna con il fine pratico dell’arruolare della guerra come è sempre stata. 

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