Il diritto di non votare e quell’orribile quorum

referendum-696x298Ricorderemo il referendum del 17 aprile 2016 non solo per non aver raggiunto il quorum (cosa però non insolita negli ultimi anni), ma anche per le tante e velenosissime polemiche contro chi non ha votato e soprattutto chi ha invitato a non votare. Che l’invito all’astensione da parte del capo di governo o di altra carica pubblica sia una mossa inopportuna è sicuramente condivisibile, che rappresenti un reato punibile con il carcere forse un po’ meno, ma che ce la si prenda con chi ha deciso di non recarsi alle urne non è un atteggiamento degno di un paese libero e democratico. E questo non riguarda solo i referendum, dove con il non voto si assume una precisa posizione, ma tutte le consultazioni elettorali.

È errato dipingere l’astensionismo come un male assoluto da debellare, come una manifestazione di ignavia e di indifferenza da contrastare a tutti i costi. Molto spesso, invece, questo è frutto di una precisa scelta politica, una sincera espressione del processo democratico. È possibile individuare due motivi principali per i quali si ricorre all’astensionismo: per scarso interessamento e coinvolgimento alle questioni politiche o come atteggiamento critico nei confronti della classe politica e delle istituzioni. Nel primo caso l’elettore non esercita il proprio diritto di voto per mancanza di tempo e/o voglia nell’approfondire le questioni politiche. Tutti i cittadini italiani maggiori di 18 anni sono elettori ma saranno pure persone con interessi diversi dalla politica e con una inclinazione al pragmatismo che tende a mettere in secondo piano la partecipazione al voto quando si è presi da altri impegni. Si tratta di quella naturale “indifferenza” dell’uomo democratico individuata anni or sono dal filosofo francese Alexis de Tocqueville. In questa ottica l’astensione è un fenomeno normale e comprensibile, che può essere addirittura considerato positivo. D’altronde, meglio un non elettore che un elettore inconsapevole e male informato. La partecipazione politica, poi, non si manifesta solo con la partecipazione elettorale, ma ci sono altre forme, alle volte più efficaci, di prender parte alla vita politica di un paese.

L’astensionismo può anche essere espressione di una precisa scelta politica. Chi non vota può decidere di farlo per manifestare la sua sfiducia nei confronti della classe politica, delle istituzioni o anche delle elezioni in generale (vedi gli anarchici). Più comunemente, chi, seppur interessato alle vicende politiche, non si reca alle urne lo fa perché non trova partiti o candidati da votare. Questa situazione è anche conseguenza della fine delle ideologie e del declino dei partiti di massa. In Italia l’astensionismo segue questo trend: più aumenta la sfiducia degli italiani nei confronti della classe politica, più aumenta l’astensionismo.

Nel caso dei referendum, a questi motivi di astensione se ne aggiungono altri specifici. A giocare un ruolo fondamentale qui è il quesito: esso può essere troppo tecnico e quindi di difficile comprensione, può essere legato ad un tema troppo complicato e specifico, distante dalle esperienze individuali della maggioranza dei votanti. Tutto ciò contribuisce chiaramente a tenere i cittadini lontani dai seggi. Oppure ci possono essere problemi con l’informazione relativa al referendum. In particolare, ci può essere stata scarsa copertura mediatica della consultazione, che risulta invece essere di vitale importanza per i referendum, per via del fatto che non presentano la natura periodica e cadenzata delle tradizionali elezioni e vanno quindi annunciati con appositi spazi e tempi.

Se quindi, come è stato detto, l’astensione può manifestarsi come una scelta cercata e ponderata da parte di un elettorato consapevole, perché la nostra Costituzione prevede un quorum per considerare un referendum valido? Essenzialmente per evitare che una minoranza rovesci una legge approvata dal Parlamento.

Il problema è che un referendum così congegnato è viziato: un voto per il NO, infatti, va a favorire invece il SÌ dal momento che contribuisce a raggiungimento del quorum. Si finisce così con il mortificare la scelta di chi, conformemente alla previsione costituzionale di esercitare il voto in quanto “dovere civico” (art. 48), si reca ai seggi per esprimere la sua contrarietà all’abrogazione di una certa norma. Praticamente la scelta fatta al seggio non è quella espressa, e ciò genera un pericoloso cortocircuito per un paese democratico.

Questo non vuol dire che i nostri padri costituenti fossero degli sprovveduti e degli incompetenti. La scelta di prevedere un quorum della maggioranza degli aventi diritto è stata maturata in un’epoca in cui la partecipazione alle elezioni era molto alta e un’affluenza inferiore al 50% sarebbe stata in ogni caso considerata troppo esigua. Inoltre, il referendum è stato sostanzialmente concepito come uno strumento correttivo dell’azione del Parlamento, il quale resta il principale organo di produzione normativa, perché sede della sovranità popolare ottenuta mediante l’elezione dei suoi membri.

Tutto ciò però funziona quando c’è fiducia nella classe politica, come poteva essere nel momento in cui è nata la Repubblica, ma meno quando questa fiducia, per vari motivi, si è incrinata. Cosa fare allora? Due sono le possibili soluzioni. Una è quella di ridurre il quorum, per collegarlo alla partecipazione elettorale corrente. Questa è infatti la soluzione prevista dalla riforma costituzionale voluta dal governo, che si voterà proprio con un referendum in ottobre (ma questa volta senza quorum, perché non abrogativo). L’altra soluzione è quella di eliminare il quorum e lasciare la decisione in mano ai soli elettori che si recano ai seggi; a votanti decisi e informati, non eccessivamente minoritari vista la necessità iniziale di raccogliere le firme per l’indizione del referendum. Entrambe soluzioni valide, con i loro pro e contro, ma sicuramente migliori della situazione attuale e di quell’orribile quorum.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il caso Riina junior, tanto rumore per nulla

Come un fulmine a ciel sereno, tra scandali petroliferi, ministri che si dimettono, pericoli terrorismo e crisi di migranti varie, uno nuovo caso mediatico è scoppiato. È la tanto contestata partecipazione al programma tv “Porta a Porta” di Salvo Riina, il figlio del boss di Cosa Nostra Totò Riina, condannato ad innumerevoli ergastoli. Una avvenimento che ha destato un clamore alquanto eccessivo e che ha generato una serie di polemiche ancora prima che la puntata andasse in onda e che continuano ben oltre la data della trasmissione. Un polverone mediatico piuttosto incomprensibile, principalmente per due motivi.

Prima di tutto, perché non è la prima volta che un mafioso va in tv. Enzo Biagi già ne intervistato diversi, da MIchele Sindona a Luciano Liggio a Raffaele Cutolo. Michele Santoro non è stato da meno, portando sul piccolo schermo Rosario Spatola, Enzo Brusca e recentemente Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. In secondo luogo, proprio pochi giorni fa, il 4 aprile, Salvo Riina è stato intervistato dal “Corriere della Sera” sempre per lo stesso motivo: l’uscita del suo libro. Ma nessuno lo sa. Perché allora così tanto clamore per la sua intervista a “Porta a Porta”?

Qualcuno ha rinnovato la solita polemica sull’uso improprio del servizio pubblico. Una polemica ormai sterile e superficiale, che viene usata arbitrariamente ad ogni giro. Infatti, quale sia davvero il ruolo del servizio pubblico nessuno lo ha mai capito; in fondo vorremmo che trasmettesse programmi e informazioni che ci pare e piace, ma a quel punto non sarebbe più un servizio pubblico ma privato. Questa è comunque un’altra storia. Il vero problema in realtà è che ad intervistare Riina junior sia stato Bruno Vespa, quel giornalista che ci ha già abituato ad ospitate controverse (vedi la vicenda dei Casamonica), e ad interviste non proprio scomode, anche definite “scendiletto”.

Ma come si evince dalle stesse parole di Vespa che introduce il colloquio oggetto della diatriba, si tratta di un’intervista senza nessuna ambizione giornalistica o d’inchiesta, che ha conosciuto il suo successo grazie allo scalpore mediatico sicuramente voluto e ricercato. L’intervista viene proprio presentata come un “ritratto” della vita della famiglia del mafioso più famoso d’Italia. Una piccola indagine senza troppe pretese, che però contribuisce a svelare la banalità del male che si annida nella nostra società, e che può avere tratti e manifestazioni a noi sconvolgenti.

Ma fondamentalmente non si è trattato altro che di una operazione di marketing ben riuscita. L’esca è stata lanciata a dovere ed i pesci hanno abboccato: Vespa continuerà a dare notorietà ed audience alla sua trasmissione, Salvo Riina riuscirà a vendere svariate copie di un libro probabilmente inutile ed insignificante, pubblicato da una casa editrice semi-sconosciuta. Vespa è un giornalista astuto e navigato, che sa solleticare gli umori della gente. Il suo programma compie vent’anni e le celebrazioni richiedono gli immancabili botti. Stolti noi che abbiamo scambiato un piccolo petardo per fuochi d’artificio.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Unioni civli ma non troppo

family dayIl dibattito sulle unioni civili che sta spaccando la politica italiana non è, come tutti avranno ormai capito, un dibattito sulle unioni civili. È un dibattito invece sulla possibilità per le coppie gay di avere bambini. Il che va anche bene: significa che abbiamo fatto un passo in avanti. Significa, cioè, che sulle unioni civili siamo tutti più o meno d’accordo, anche su quelle per gli omosessuali: ciò che ci preoccupa di più, invece, è la questione della genitorialità delle coppie gay, e dell’aspetto etico su come i loro figli vengano concepiti. Peccato però che il no a questo argomento farebbe saltare l’intero ddl Cirinnà in votazione alle Camere, e con esso il riconoscimento che aspettano da tempo numerosissime coppie di fatto, non solo gay, ma anche eterosessuali.

Una legge sul tema la si aspettava da tempo, e i tentativi negli anni son stati pure numerosi. I tempi sembravano ormai maturi affinché la politica facesse il passo che la società ha già fatto, ma come al solito quando in Italia si vuole fare qualcosa non c’è verso che la si faccia per bene. Con il risultato che alla fine o non si fa un bel nulla, o si combina un pastrocchio. E i motivi per cui questo ddl Cirinnà può essere definito un pastrocchio sono essenzialmente due: la natura poco chiara e confusa del provvedimento che disciplina le unioni civili ma concentrando tutta l’attenzione sulle unioni omosessuali, e la presenza, in maniera sfortunatamente frettolosa e superficiale, della questione adozioni con l’introduzione della stepchild adoption, una previsione che aggiunge un elemento di conflittualità ad una proposta di legge che, in mancanza, avrebbe potuto superare il dibattito politico e sociale con discreto successo. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, se l’intento del governo era quello di riconoscere alle coppie omosessuali uguali diritti rispetto a quelle eterosessuali, e di metterci al passo con il resto dei paesi europei, forse il tentativo non è stato abbastanza coraggioso. Infatti, la soluzione ideale a questo duplice scopo sarebbe stata quella del matrimonio. Una soluzione che non solo non è in contrasto con la nostra Costituzione (che all’articolo 29 sancisce “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” senza escludere le nozze tra persone dello stesso sesso), ma che è anche quella più facilmente praticabile rispetto alle unioni civili, proprio per la centralità data dalla Carta all’istituto del matrimonio. Inoltre, i matrimoni gay sono già previsti in numerosi paesi europei tra cui Spagna, Francia, e Gran Bretagna oltre ai paesi della Scandinavia: ottimi esempi se non vogliamo rimanere indietro.

C’è poi il tema delle adozioni. La stepchild adoption è, in teoria, una misura atta a tutelare i diritti di un minore che, trovandosi in mancanza di uno dei due genitori biologici (per divorzio, separazione o morte del coniuge), può essere adottato dalla nuova famiglia venutasi a formare. Un istituto già presente in Italia per le coppie eterosessuali, ma non per quelle dello stesso sesso. Un diritto senza dubbio da estendere, visto anche il pronunciamento del Tribunale dei minorenni di Roma che ha riconosciuto l’adozione ad un coppia di donne, ma non bisogna prescindere da tutte le conseguenze che questo può comportare. E sì, una delle conseguenze in questo caso si chiama utero in affitto, una questione talmente controversa che nemmeno sinistra e femministe sono compatte, e che andrebbe affrontata con serietà e serenità con tempi e modi diversi. 

Con questo non si vuole dire che il provvedimento sulle unioni civili sia inutile, anzi, le unioni civili sono necessariamente da introdurre nell’ordinamento proprio per ampliare il ventaglio di diritti che una normale democrazia cerca di assicurare. Il problema è che utilizzare le unioni civili come principale strumento per aumentare i diritti degli omosessuali è una mossa sbagliata sia nella teoria che nella pratica. Un vero peccato, perché la legge Cirinnà avrebbe potuto riportare il paese nella modernità dei diritti civili, ma ancora una volta è stata l’occasione per dare fiato ai tromboni del bigottismo.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il Natale è già una festa laica

Il Natale 2015 sembra essere un Natale diverso. Nei media e per le strade gli argomenti di dibattito sulla festa più importante della cristianità per la prima volta non si limitano ai sempre angoscianti interrogativi su cosa sia meglio regalare a parenti e amici o al classico confronto pandoro – panettone. Questa volta si parla anche di questioni più impegnative, seppure con la sempre immancabile superficialità e sprovvedutezza. 

Quest’anno il Natale 2015 sarà ricordato come il Natale che hanno cercato di cancellare, con duri colpi ai nostri usi e costumi: dal presepe alla recita a scuola. Quest’anno il Natale sarà ricordato per tutti coloro che volevano renderlo laico, che volevano snaturarlo del suo più autentico significato religioso, minando alle nostre più profonde e radicate tradizioni. 

Il casus belli è, chiaramente, quello del Natale “cancellato” a Rozzano, comune alle porte di Milano, dove il preside dell’Istituto comprensivo Garofani ha deciso di rimandare la tradizionale recita dei bambini a dopo le festività e di ribattezzarla in “Festa dell’Inverno”. Un vero sacrilegio. E dopo questo episodio altri ne sono seguiti, come un’invasione barbarica contro i nostri valori. Tanto che si è parlato di Natale come festa laica quasi fosse una bestemmia

Ma è un bene che sia scoppiato il caso. È un bene che si parli di un argomento tanto ignorato e tanto bistrattato in Italia: quello della laicità. E quello, precisamente, della laicità nel giorno del Santo Natale. Quasi un ossimoro, una contraddizione, ma in realtà un’occasione per lanciare una seria riflessione su quanti, per davvero, vivono questa festa in modo religioso. Perché il Natale, per gran parte della popolazione italiana, è già una festa laica. Lo è da quando abbiamo perso l’abitudine di andare in Chiesa il 25 dicembre, da quando la frenesia dei regali ha preso il posto del raccoglimento nel periodo dell’avvento, da quanto abbiamo smesso di pregare la sera della vigilia per giocare a tombola. 

Lo è, in poche parole, da quando il consumismo ha preso il sopravvento sulla fede. Da quando la Coca-Cola ha inventato Babbo Natale così come lo conosciamo e ne ha fatto un personaggio più venerato di Gesù Bambino. Potremmo addirittura dire che il Natale è tornato ad essere una festa pagana, come lo era alle origini. Ma forse è meglio definirlo come una festa laica e secolarizzata per un semplice motivo: perché ognuno lo può festeggiare come vuole. Lo può festeggiare in modo religioso andando in chiesa e pregando o in modo più profano comprando regali e organizzando cenoni. O in entrambi i modi, come forse siamo più abituati a fare. Ed è per questo che il Natale è già una festa laica.

Non solo: il Natale non è l’unica festività religiosa travolta dall’ondata di frivolezza e mondanità. Basti pensare al giorno dell’Assunzione di Maria (Ferragosto) dove normalmente siamo incolonnati in autostrada piuttosto che tra i banchi di una chiesa, o al giorno di Sant’Ambrogio che a Milano viene ricordato più che altro per la prima della Scala. Ecco, la difesa dei canti di Natale o del presepe di fronte a tutto ciò non può che perdere di significato.  

Per tornare al caso di Rozzano, proprio la scuola pubblica, luogo laico per eccellenza, non può essere l’istituzione issata come simbolo del Natale, ultimo bastione della fede. Sarebbe senz’altro un travisamento del ruolo e delle funzioni che la scuola deve svolgere in una società. Nonché un’ammissione di sconfitta degli stessi credenti che camuffano un luogo di formazione e di insegnamento aperto a tutti (art. 34 Cost.), in un luogo di culto destinato ad una parte. Se vogliamo festeggiare il Natale da buoni credenti è meglio farlo nel posto più adatto: in Chiesa. Per chi davvero crede.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Ambiente: la Cop21 di Parigi tra vecchie speranze e nuove illusioni

Il 30 novembre cominceranno a Parigi i lavori della Cop21, la Conferenza delle Parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) sottoscritta nel 1992. L’obiettivo è quello, rincorso da tempo ormai, di sostituire il vecchioProtocollo di Kyoto del 1997 (già scaduto e poi rinnovato) sulla riduzione delle emissioni climalteranti con un nuovo accordo internazionale più aggiornato e, possibilmente, più ambizioso. Le attese alla vigilia sono alte, come lo sono sempre state prima di ogni summit sull’ambiente, ma questa volta ci sono buone ragioni per essere ottimisti sul risultato finale. O almeno così pare.
In primo luogo, la Francia, che ospita il summit, punta molto al buon esito delle trattative. Il presidente francese Francois Hollande è intervenuto in prima persona invocando, durante il suo discorso alle Nazioni Unite di fine settembre, un maggiore impegno finanziario dei Paesi ad economia avanzata in favore dei Paesi del Sud del mondo nella sfida ai cambiamenti climatici. Una questione che rappresenta il vero nodo dei negoziati e che, verosimilmente, risulta essere il vero modo per contrastare l’emissione di gas climalteranti in tutto il pianeta. L’occasione, poi, di tenere un meeting sull’ambiente così importante a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, organismo internazionale ad avereuna delle politiche ambientali più rigorose al mondo, può essere un motivo di spinta ulteriore nei negoziati.
In secondo luogo ci sono gli impegni sul taglio di Co2 già presentati dai paesi partecipanti alla Cop21. Le parti, infatti, sono state chiamate a sottoscrivere in alcuni incontri preliminari il cosiddetto “Contributo determinato a livello nazionale” (Indc). GliStati Uniti, ad esempio, hanno promesso un taglio del 26-28% delle emissioni entro il 2025 e la Cina del 60-65% per unità di Pil (la cosiddetta carbon intensity). Proprio la Cinasembra aver dato finalmente una svolta al suo atteggiamento nei confronti della questione climatica, finora per niente presa in considerazione. Considerato anche il Brasile, si tratta di impegni tutto sommato importanti, e che segnano una netta inversione di tendenza rispetto al passato, ma che potrebbero non bastare per rientrare nella fatidica soglia dei due gradi di innalzamento della temperatura globale entro la fine del secolo, come notano alcuni esperti.
In definitiva, l’attenzione a livello globale per quanto riguarda la questione ambientale appare maggiore, dopo anni di relativa noncuranza. Perlomeno la quasi totalità dei leader mondiali riconosce l’importanza del tema e sembra intenzionato ad agire. Ma da qui ad impegnarsi concretamente per la riduzione dei gas serra ce ne passa. Il pericolo è quello, ancora una volta, di accontentarsi di impegni volontari e unilaterali come già avvenuto a Copenaghen nel 2009, in un altro di quei vertici sul clima considerato cruciale per le sorti del pianeta.
L’ambiente sarà pure nelle agende dei grandi governi, ma il vero problema è la mancanza di un’effettiva governance ambientale globale, vale a dire una reale integrazione internazionale su questi temi con istituzioni e meccanismi legittimi e riconosciuti. Questo è avvenuto, ad esempio, per quanto riguarda il commercio mondiale con la creazione delGATT prima, e l’istituzione del WTO poi. Come notato da Naomi Klein nel suo ultimo libro, il processo d’integrazione economica e commerciale globale è andato di pari passo con quello della sensibilizzazione verso le principali problematiche ambientali solo che il primo ha prodotto regole chiare, condivise e vincolanti, mentre il secondo ha lasciato alla volontarietà degli stati la scelta di quali e quanti impegni prendere. Finché non sarà applicato anche per l’ambiente un sistema simile, tutti i summit internazionali come quello di Parigi saranno la solita passerella per capi di stato e di governo per dimostrare quanto ci tengono al verde e alla sostenibilità. La Cop21 potrà essere pure un successo sul piano pratico degli obiettivi che era chiamata a centrare, ma non sarà certo la soluzione.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Se serve un’immagine

La diffusione su tutti i media della foto del bimbo siriano morto durante un naufragio e restituito dalle onde su una spiaggia turca sta destando sdegno e sconcerto in tutto il mondo. Sta destando sdegno e sconcerto non solo perché con la sua crudezza rende vivido e palpabile il dramma dell’immigrazione anche a chi lo segue ogni giorno seduto dal divano casa propria, ma soprattutto perché intorno a questa foto si è scatenato un dibattito: se pubblicare o meno un’immagine così forte e terribile. Alcuni giornali hanno deciso di non pubblicarla, ma molti lo hanno fatto. Si è chiesto il rispetto per la morte, un freno ai facili sensazionalismi e se ne è denunciata la strumentalizzazione. Ma tra i pericoli maggiori di tutto questo tam-tam mediatico c’è soprattutto il fatto che, tra qualche giorno, ci saremo già dimenticati del piccolo Aylan e la nostra effimera indignazione “social” svanirà nello stesso modo in cui era sopraggiunta. 

Cosa cambia un’immagine? In fondo ogni giorno affogano migranti, e chissà quanti ce ne sono, negli abissi del mare, in attesa di divenire pasto per i pesci. Solo perché questa volta si tratta di un bambino dovremmo indignarci? Un bambino che assomiglia tanto ai nostri (non è nemmeno nero)? Che differenza fa, per esempio, da quei 49 migranti morti asfissiati nella stiva di un barcone lo scorso 15 agosto? O da quei 900 migranti morti perché si è ribaltato il peschereccio sul quale viaggiavano lo scorso 18 aprile? Solo perché non c’è una foto come quella di Aylan non meritano forse la nostra compassione? Una semplice foto, però, questa volta può contribuire a squarciare questo soffocante velo di ipocrisia

La foto di Aylan serve. La foto di Aylan non è facile sensazionalismo né strumentalizzazione. E la sua rapida diffusione lo dimostra. Una diffusione che è autentica e spontanea. Questa volta non stiamo parlando del piccolo John, il bimbo divenuto simbolo (nel bene e nel male) della campagna di Save the Children, icona del dolore che ci impietosisce all’ora di pranzo. Questa volta la pietà sale dal basso e sconvolge, forse per la sua naturalezza, in modo più incisivo le nostre coscienze. Non si sottovaluti il potere di un’immagine. Sono tanti gli esempi in cui una semplice foto ha cambiato il corso della storia. Si pensi a Kim Puch, la bambina di 9 anni che corre nuda in fuga da un bombardamento al napalm. La foto ha svelato gli orrori della guerra in Vietnam e ha contribuito al ritiro delle truppe Usa. Oppure si pensi alle foto degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Grazie ad esse sappiamo della Shoah ed ogni 27 gennaio celebriamo la giornata della Memoria. 

Purtroppo non si possono comprendere appieno le tragedie fin quando non le si vivono. La lontananza, sia in termini di spazio che di esperienze, contribuisce ad aumentare il distacco dalle situazioni reali. I nostri nonni che hanno vissuto sulla pelle il dramma dell’immigrazione perché costretti a emigrare loro stessi, difficilmente proveranno odio o anche solo indifferenza verso i nuovi migranti. E per noi che fortunatamente non sfuggiamo da povertà o guerre un’immagine può facilmente ricongiungerci alla realtà. Forse potrà non bastare. Non sono solo le nostre coscienze doversi smuovere, ma anche e soprattutto quelle dei governi che chiudono le frontiere e che rifiutano soluzioni condivise all’emergenza. Checché se ne dica la foto di Ayalan ha già fatto la storia. Non l’ha ancora cambiata però. 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Evviva le bufale su Internet!

È degli ultimi tempi una curiosa e interessante sortita del famoso semiologo, filosofo e scrittore Umberto Eco il quale si è scagliato contro la pericolosa e apparentemente inarrestabile diffusione di bufale online. La soluzione proposta dall’intellettuale torinese per fronteggiare questo fenomeno è però ingenuamente semplice: affidare alla stampa responsabile il compito di sbugiardare le notizie false. È immediatamente comprensibile perché questa idea non può essere una soluzione: il numero di persone che legge i giornali è enormemente inferiore rispetto a quello che di solito reperisce informazioni online e proprio chi legge i giornali è comunemente un pubblico più consapevole, più edotto e dunque meno permeabile alle bufale. Sarebbe perciò un servizio fondamentalmente inutile perché non indirizzato a chi delle bufale ne è vittima.

Il punto è che ancora ci sfuggono i contorni del fenomeno della diffusione virale di contenuti falsi. Vediamo perché. Primo, le bufale esistevano già prima di Internet e non è detto che con il web si diffondano più facilmente. Semmai proprio grazie al web è più facile individuarle, condannarle e forse anche fermarle. Inoltre, tra mondo reale e mondo virtuale sostanzialmente non cambiano i soggetti che ne sono preda: il solo fatto di informarsi su Internet non ci rende tutti a rischio contagio; una buona cultura e una buona istruzione dovrebbero bastare a garantirci l’immunità.

Secondo, quando parliamo di bufale online forse non ci è ancora chiaro di cosa stiamo parlando. La maggior parte dei siti Internet che diffondono bufale hanno intento meramente satiricoL’esempio migliore e di maggior successo è sicuramente quello di Lercio.it, una miniera di notizie grottesche ed esilaranti costruite intorno a scenari veri o verosimili. Il sito non vuole celare la natura falsa ed improbabile della notizia, anzi a tratti sembra anche volersi smascherare; ma questo non basta ad evitare che numerose persone prendano sul serio queste notizie.

La satira poi, unita alla capacità dei social network di verificare l’impatto di una bufala sulla comunità virtuale, genera il fenomeno del trolling. Con questo termine si vuole indicare l’azione pungente e provocatoria con la quale la notizia inventata viene posta di fronte un pubblico non in grado di recepirne la natura fasulla e ironica. È forse proprio questo il motore che alimenta la diffusione delle bufale online e il proliferare di siti che creano questi contenuti: la netta separazione tra chi è in grado di riconoscere una notizia falsa e chi invece abbocca. Se si fa parte degli uni non si può far parte degli altri: insomma, o credi a tante delle bufale che girano su Internet, o non ne credi a nessuna.

Purtroppo, però, non di sola satira sono fatte le bufale. Sulla base delle tantissime persone che non riescono a distinguere una notizia vera da una inventata sono nati numerosi siti che sfruttano creduloneria e ignoranza a fini di lucro. E lo fanno su temi delicati e controversi come immigrazione e zingari. Qui non si tratta di motivazioni politiche o razziali: la creazione di tali contenuti è prettamente business (il numero di click sulla pagina infatti fa aumentare i guadagni). La successiva disseminazione, invece, gioca su xenofobie e intolleranze dell’utente-italiano medio.

La diffusione e la condivisione di bufale online è un indicatore importante per capire quanto una società sia culturalmente arretrata. Con tutti i pericoli che ne derivano. Le persone che credono alle burle di Internet sono, infatti, le stesse che periodicamente (e democraticamente) sono chiamate alle urne. Ed il passo tra credere ad una bufala online e credere ad una sparata fatta da un politico in campagna elettorale è breve, anzi brevissimo. Grazie alla diffusione virale e virtuale dei contenuti falsi, però, è possibile ricavare le dimensioni di questo fenomeno e studiarne i possibili rimedi.

Dovremmo guardare a Internet non solo come la causa, ma anche come la soluzione al problema: con l’immensa mole di informazioni reperibili online è un gioco da ragazzi smascherare le notizie false, per chi ha la voglia e l’onestà di farlo. E, una volta sbugiardata la bufala, non c’è soddisfazione migliore nel vedere dipingersi sul volto della persona che ne è stata vittima quel misto di incredulità, vergogna e malcelata rassegnazione che è proprio il motivo per il quale le bufale (la maggior parte di esse) sono messe in giro.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Tsipras è il pollo

chicken run james dean

E così dopo mesi di trattative estenuanti, di rinvii, e di accuse reciproche, la partita del debito greco si è infine conclusa con l’accordo su un nuovo doloroso piano di salvataggio. Ma la crisi è ancora lontana da una vera soluzione, anzi, se possibile le complicazioni adesso sono aumentate (tanto che persino il FMI ha duramente criticato l’accordo): l’austerità che ha messo in ginocchio la Grecia è ancora il paradigma dominante in Europa e la resa di Tsipras dinanzi la Troika ha riattizzato nazionalismi e populismi vari, spaccando ancor di più il paese e acuendo la crisi sociale.
Eppure il premier ellenico aveva in mano tutte le carte per portare a casa un risultato migliore. A cominciare dall’esito del referendum del 5 luglio sul precedente piano di salvataggio. Nonostante la vittoria del “No”, Tsipras ha pochi giorni dopo accettato un nuovo piano “lacrime e sangue” analogo a quello rigettato alle urne, sconfessando clamorosamente il mandato popolare. Con il risultato che una intelligente scelta tattica si è rivelata essere un pericoloso boomerang per il leader di Syriza che ora vede sempre più in bilico il suo incarico a capo dell’esecutivo.
Per quanto possa essere discutibile la validità di una convocazione referendaria su temi come fisco e prevenzione (chi mai voterebbe a favore di più tasse?), questa mossa aveva messo in risalto una questione di fondo ben più importante: ai popoli europei, che finora sono stati tenuti ai margini del processo d’integrazione, spetta più di ogni altro il diritto di esprimere la loro idea di Europa, idea che molto spesso, guarda caso, diverge da quella dei loro governanti. Senza considerare questo, il progetto d’integrazione non può andare lontano, e i risultati infatti si vedono.
Con il “No” del referendum, Tsipras aveva in mano un’ottima carta da giocarsi nei negoziati sia per strappare condizioni più favorevoli per il proprio paese, sia per imprimere un cambio di rotta nel processo d’integrazione, cosa, questa, molto più importante per le sorti dell’intera UE. Invece Tsipras ha mollato, lasciandosi spaventare troppo presto dal rischio di una “Grexit” brandita dai creditori più come una temibile minaccia che come una reale ipotesi. Diremmo che non ha avuto abbastanza fegato.
Per spiegare meglio quanto successo durante le trattative si può ricorrere alla “teoria dei giochi” e precisamente al “gioco del pollo” (Chicken game, tradotto in italiano anche come “gioco del coniglio”). Nel gioco, due sfidanti si lanciano simultaneamente con le loro auto verso un precipizio (ricordate la famosa scena di “Gioventù bruciata”?): il primo che sterza è il “pollo”. Se non lo farà nessuno, precipiteranno entrambi. Nel nostro caso gli sfidanti sono Grecia e Germania e il baratro verso cui andavano incontro era l’uscita della Grecia dall’euro, uno scenario dannoso per entrambe, non solo per gli ellenici. E Tsipras sembra aver fatto ben poco per evitare la figura del fifone. Prima ha scaricato il pilota più impavido, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (che la teoria dei giochi la conosce bene), poi ha impresso la frenata decisiva e la sfida si è conclusa così, con la Germania che ancora una volta impone la propria linea e riafferma le proprie convinzioni. Mentre nel baratro ci sta lentamente finendo l’Europa intera.
Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Movimento 5 Stelle sei pronto a governare?

Le elezioni amministrative del 31 maggio con i successivi ballottaggi avrebbero dovuto essere appuntamenti elettorali di relativa importanza, senza lasciare troppe conseguenze e dall’esito non determinante per il governo in carica, qualunque esso fosse stato. Solo 7 erano le regioni chiamate al voto (tra cui molte con risultati scontati), e solo i 20 comuni capoluogo, con l’attenzione puntata principalmente su Venezia. Eppure queste elezioni un segnale importante, e forse decisivo, l’hanno dato. Non tanto per l’esito numerico uscito dalle urne quanto per lo scenario politico generale in cui si sono collocate.

Se volessimo incoronare un unico vincitore, questo non potrebbe essere altro che il Movimento 5 Stelle. In realtà la forza politica di Beppe Grillo non ha conquistato nessuna regione  e solo in una manciata di comuni è riuscita a far eleggere i suoi candidati (di cui 5 su 5 ai ballottaggi), ma è l’unica che può capitalizzare un risultato che la vede ormai come secondo partito dietro un PD più che indebolito, e con una percentuale che si aggira stabilmente intorno al 20%. Numeri che sono un trampolino di lancio e non un punto di arrivo. Questo perché l’attuale scenario politico vede delle situazioni più che favorevoli al Movimento, con reali possibilità di sbaragliare l’intera concorrenza e affermarsi come prima forza politica.

Primo fra tutti, lo scandalo Mafia Capitale. L’inchiesta della Procura di Roma sta seriamente facendo tremare Palazzo Chigi, e il coinvolgimento del sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione non ne è che un esempio. Ma la mossa più rischiosa per l’esecutivo potrebbe essere la blindatura del sindaco Ignazio Marino al Campidoglio, dal momento che se le indagini dovessero continuare ad avvicinarsi pericolosamente al primo cittadino romano, lì il governo rischierebbe sicuro. E il Movimento 5 Stelle ne ha approfittato: già si prospetta una candidatura di peso come quella di Alessandro Di Battista al Comune in caso di elezioni anticipate. A Roma, come in tutta Italia, il Movimento si presenta come una forza politica estranea alle logiche di potere predominanti e al marciume corruttivo dilagante, che riguarda sia destra che sinistra. Per il momento.

In più la nuova legge elettorale. Chissà se Matteo Renzi quando preparava l’Italicum, che prevede un vero e proprio ballottaggio se nessuna lista supera il 40%, avrà pensato al Movimento 5 Stelle, che ai ballottaggi ha la innata abilità di ribaltare i pronostici, come dimostrano le ultime comunali, ma come hanno dimostrato soprattutto i casi di Parma nel 2012 e di Livorno lo scorso anno.

Tutti si affannano a trovare il Podemos o la Syriza italiana, ovvero quel movimento di rottura con la tradizionale classe politica, in grado di portare cambiamento e rinnovamento. In realtà quel movimento in Italia già c’è, anche da prima dei succitati, ed è il Movimento 5 Stelle.  Non sarà di sinistra, anche se qualche punto in comune lo si ritrova (vedi la battaglia per il reddito di cittadinanza). A ognuno il suo, dunque. Syriza è andata al governo in Grecia lo scorso gennaio e Podemos potrebbe fare la stessa cosa  in Spagna a fine anno. Non resta che il Movimento 5 Stelle in Italia. Le condizioni ci sono tutte, le elezioni non ancora, ma per quelle non c’è problema: potrebbero arrivare da un momento all’altro.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Pensioni, perché si tratta di una questione di decenza

La sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il blocco degli adeguamenti Istat per le pensioni superiori a 1500 euro non solo trafigge in modo inaspettato i piani del governo su conti pubblici e speranze di ripresa economica. In qualche modo apre anche uno squarcio su un tema troppe volte affrontato a senso unico nel dibattito politico e sociale dai media e dalle istituzioni. Da che mondo è mondo, e da che previdenza è previdenza, ci siamo sempre preoccupati di una sola cosa: le pensioni troppo basse. Giustissimo. Sono tanti gli anziani che vivono con miseri assegni, e che spesso non riescono nemmeno a provvedere ai bisogni vitali più essenziali. Ma purtroppo non ci siamo mai concentrati su un altro aspetto della questione, forse causa ed effetto di questo problema: le pensioni troppo alte

Aldilà dei ricchissimi vitalizi dei politici, vergogna italiana in Europa, e delle famigerate “pensioni d’oro” (per le quali la sacrosanta battaglia sì si fa ma ancora senza veri risultati), quello che veramente pesa sul sistema previdenziale italiano è quella percentuale di pensioni medio-alte (sopra i 3.000 euro al mese) che costano allo stato ben 45 miliardi. Si tratta di un 5% dei pensionati che assorbe il 17% della spesa previdenziale. Questa minoranza rumorosa è partita subito all’assalto una volta appreso della sentenza della Corte Costituzionale e ha levato subito gli scudi non appena il governo ha ipotizzato un bonus che escludesse le pensioni più alte. Il tutto con il sostegno di sindacati e associazioni dei consumatori, che magari nello stesso momento in cui minacciavano ricorsi, class actions e roboanti proteste, si dimenticavano di quella metà di pensionati italiani che non arrivano a percepire mille euro al mese, oppure di tutti quei giovani, pure disoccupati, che una pensione chissà se la vedranno.

Fare una battaglia per delle pensioni che superano nettamente ciò che un giovane italiano altamente formato normalmente percepisce, è un atto notevolmente indecente oltre che ingiusto.  E ha ragione il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti quando sostiene che  è «immorale rimborsare tutti». Per carità, di certo i pensionati non hanno rubato niente a nessuno e sicuramente quei soldi sono stati il frutto di duri anni di lavoro e numerosi sacrifici. Ma dobbiamo chiederci se siamo disposti ad accettare una situazione in cui pensionati che ricevono trattamenti più che dignitosi devono avere il diritto di alzare le barricate per qualche centinaio di euro in più, mentre centinaia di migliaia di giovani devono stare in silenzio in attesa di un vero lavoro che possa dar loro la minima soddisfazione di versare qualcosa all’Inps. Ciò che si chiede non è solidarietà intergenerazionale, né compassione: è puro e semplice decoro. Ma a quanto pare da un po’ di tempo a questa parte in Italia sembra un concetto del tutto sconosciuto. 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail