Le elezioni amministrative del 31 maggio con i successivi ballottaggi avrebbero dovuto essere appuntamenti elettorali di relativa importanza, senza lasciare troppe conseguenze e dall’esito non determinante per il governo in carica, qualunque esso fosse stato. Solo 7 erano le regioni chiamate al voto (tra cui molte con risultati scontati), e solo i 20 comuni capoluogo, con l’attenzione puntata principalmente su Venezia. Eppure queste elezioni un segnale importante, e forse decisivo, l’hanno dato. Non tanto per l’esito numerico uscito dalle urne quanto per lo scenario politico generale in cui si sono collocate.
Se volessimo incoronare un unico vincitore, questo non potrebbe essere altro che il Movimento 5 Stelle. In realtà la forza politica di Beppe Grillo non ha conquistato nessuna regione e solo in una manciata di comuni è riuscita a far eleggere i suoi candidati (di cui 5 su 5 ai ballottaggi), ma è l’unica che può capitalizzare un risultato che la vede ormai come secondo partito dietro un PD più che indebolito, e con una percentuale che si aggira stabilmente intorno al 20%. Numeri che sono un trampolino di lancio e non un punto di arrivo. Questo perché l’attuale scenario politico vede delle situazioni più che favorevoli al Movimento, con reali possibilità di sbaragliare l’intera concorrenza e affermarsi come prima forza politica.
Primo fra tutti, lo scandalo Mafia Capitale. L’inchiesta della Procura di Roma sta seriamente facendo tremare Palazzo Chigi, e il coinvolgimento del sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione non ne è che un esempio. Ma la mossa più rischiosa per l’esecutivo potrebbe essere la blindatura del sindaco Ignazio Marino al Campidoglio, dal momento che se le indagini dovessero continuare ad avvicinarsi pericolosamente al primo cittadino romano, lì il governo rischierebbe sicuro. E il Movimento 5 Stelle ne ha approfittato: già si prospetta una candidatura di peso come quella di Alessandro Di Battista al Comune in caso di elezioni anticipate. A Roma, come in tutta Italia, il Movimento si presenta come una forza politica estranea alle logiche di potere predominanti e al marciume corruttivo dilagante, che riguarda sia destra che sinistra. Per il momento.
In più la nuova legge elettorale. Chissà se Matteo Renzi quando preparava l’Italicum, che prevede un vero e proprio ballottaggio se nessuna lista supera il 40%, avrà pensato al Movimento 5 Stelle, che ai ballottaggi ha la innata abilità di ribaltare i pronostici, come dimostrano le ultime comunali, ma come hanno dimostrato soprattutto i casi di Parma nel 2012 e di Livorno lo scorso anno.
Tutti si affannano a trovare il Podemos o la Syriza italiana, ovvero quel movimento di rottura con la tradizionale classe politica, in grado di portare cambiamento e rinnovamento. In realtà quel movimento in Italia già c’è, anche da prima dei succitati, ed è il Movimento 5 Stelle. Non sarà di sinistra, anche se qualche punto in comune lo si ritrova (vedi la battaglia per il reddito di cittadinanza). A ognuno il suo, dunque. Syriza è andata al governo in Grecia lo scorso gennaio e Podemos potrebbe fare la stessa cosa in Spagna a fine anno. Non resta che il Movimento 5 Stelle in Italia. Le condizioni ci sono tutte, le elezioni non ancora, ma per quelle non c’è problema: potrebbero arrivare da un momento all’altro.
Categoria: renzi
Il grande balzo in avanti dei diritti civili
Non solo Jobs Act e 80 euro. L’attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l’acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt’ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l’opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.
Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l’omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l’un l’altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L’apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l’azione del governo in tal senso.
Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un’ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l’appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz’altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all’interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.
L’ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l’Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all’evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l’Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L’Italia, invece, risulta essere sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell’oblio dei diritti.
Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male
Immagine: formiche.net |
Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l’articolo 18? Null’altro. L’articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l’articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po’ l’abitudine.
A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell’anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall’articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.
La rivincita italiana in Europa
Strano ma vero noi italiani abbiamo finalmente qualcosa di cui gioire di fronte al resto dei Paesi europei. Il motivo di questo inaspettato sprazzo di orgoglio ci viene dato dai risultati delle elezioni europee. Al di là delle varie appartenenze politiche, della scelta elettorale che ognuno di noi ha espresso nelle urne, del “chi ha vinto” e “chi ha perso” tipico del dibattito politico italiano, se guardiamo con neutralità i dati e soprattutto se allarghiamo il campo visivo a tutto il terreno elettorale che in queste elezioni era l’Unione Europea, noteremo che ci sono alcune note positive dalle quali il nostro Paese può ripartire per tornare a giocare da protagonista la partita europea.
In ultimi anni in cui l’Italia, uno dei sei Paesi fondatori dell’attuale Unione, è stata bacchettata a più riprese per gli indisciplinati conti pubblici che hanno contribuito al malessere della moneta unica, finendo come bersaglio di sorrisetti ironici di capi di stato e pagelle piene di insufficienze della Commissione, ora finalmente il nostro Paese può avere principalmente tre motivi di cui farsi vanto di fronte alle altre forze europeiste nel continente e di fronte alle istituzioni dell’Unione. Prima di tutto, le elezioni europee dello scorso 25 maggio hanno dimostrato che l’Italia, insieme alla Germania, è uno dei maggiori Paesi europei in cui gli euroscettici non hanno brillato; in secondo luogo che il Partito Democratico, ancora in questo caso insieme alla tedesca CDU se consideriamo i maggiori Paesi dell’Unione, è il partito di governo che è uscito indenne dalla partita elettorale; infine che Renzi risulta essere tra tutti i leader europeisti nel continente, quello più amato e che riscuote maggiore fiducia. Vediamo questi motivi singolarmente.
Per quanto riguarda il fenomeno dell’euroscetticismo si può benissimo dire che esso non ha sfondato in Italia, al contrario degli strepitosi risultati che ha ottenuto in alcuni altri Paesi (soprattutto UK e Francia). È vero, se proviamo a sommare il risultato del Movimento 5 Stelle con quello della Lega Nord otterremo una percentuale che è addirittura superiore a quella del Front National in Francia. Ma ci sono alcuni rilievi da fare riguardo il M5S, un movimento di cui non si può espressamente dire che sia antieuropeista (la questione è stata già trattata precedentemente su questo blog). Ponendo comunque che si fosse trattato di una percentuale di euroscettici intorno al 25% (M5S + Lega), il risultato del PD (più altre formazioni europeiste) risulta imponente in rispetto. In Francia e in Gran Bretagna invece, i partiti euroscettici, Front National e UKIP, sono risultati essere i più votati.
Sempre in Francia e Gran Bretagna, i partiti al governo hanno ricevuto delle severe batoste. In realtà un po’ in tutta Europa i partiti al governo sono usciti malconci da queste elezioni (in Portogallo ed in Grecia hanno perso, in Austria e nella stessa Germania hanno raccolto meno voti delle precedenti tornate elettorali). Solo il PD non solo è riuscito a vincere nettamente, ma ha addirittura ottenuto il miglior risultato di sempre per un partito di centrosinistra. La vittoria del PD è dovuta essenzialmente ad una sola ragione: la forza carismatica del suo leader, Renzi. Egli risulta essere il politico più amato in Europa battendo quindi anche Angela Merkel, se con un (non troppo) ardito sforzo teorico vogliamo trasferire i voti ottenuti dal partito al proprio leader.
Questi tre dati tradotti non possono che avere un unico significato che a sua volta si traduce in una responsabilità: l’Italia ha l’opportunità di ritornare protagonista sul palcoscenico europeo sulla base di questi numeri che le consentono di ridare vigore alla spinta integrazionista. L’Italia si è dimostrata ancora una volta filoeuropea e ha riposto la sua fiducia su un uomo con solide convinzioni europeiste. Raramente, negli ultimi 50 anni, un capo di governo italiano ha avuto una migliore posizione per farsi ascoltare a Bruxelles. E questo sembra chiaro anche allo stesso Renzi che ha dichiarato che “l’Italia è ora in grado di incidere in Europa“. Il problema è ora come. Due elementi sono fondamentali in Europa per sperare di cambiare qualcosa: degli alleati fidati e una proposta precisa e concreta. E questi due elementi sono ovviamente fortemente interdipendenti in quanto degli alleati si raccolgono intorno ad una certa idea e posizione. Per ora, Renzi ha solo dichiarato che in Europa vuole proporre il modello della “terza via”, né con Merkel né con Schulz, e cioè né troppo austero ma neanche troppo keynesiano. Un discorso però che risulta essere troppo astratto e neutrale e che quindi non riesciurà a raccogliere alleanze. D’altro canto, prima di pensare a questo, c’è un altro aspetto che condiziona le possibilità di successo delle proposte dell’Italia in Europa, e cioè il successo delle proposte di Renzi in Italia: se le riforme non vengono effettivamente attuate in casa, la vittoria in trasferta è solo un miraggio.
Uno contro tutti
A noi italiani piacciono le storie avvincenti. Ci piacciono i grandi scontri, le imprese, le gesta ardite. Ci piace l’epica. D’altronde siamo un popolo che ha sfornato grande materiale epico, da Virgilio a Ludovico Ariosto. Ci piacciono le storie eroiche e le persone straordinarie. Quanti eroi abbiamo osannato durante la storia in tutta la nostra penisola? Tanti. Da Masaniello a Garibaldi, essendo stato un territorio diviso e dominato, l’Italia ha conosciuto numerosissimi condottieri in lotta per la libertà e l’indipendenza. Ma anche dopo l’unità abbiamo continuato ad avere eroi. Mussolini era celebrato come un eroe. La mistica fascista, poi, esaltava l’eroismo. C’erano eroi anche nella Resistenza. Fino ad arrivare ai giorni nostri e agli eroi antimafia, come Falcone e Borsellino. L’utilizzo del termine eroe si è così infittito che ora ogni caduto italiano in guerra diviene tale. Insomma ce n’è per tutti i gusti: l’epopea continua, e continua anche sullo sfondo dell’attuale scenario politico. Riusciamo a romanzare qualsiasi situazione che persino la storia di Berlusconi è divenuta epica. Eroe contro la magistratura partigiana che lo perseguita e lo ostacola, ma lui non si arrende. Glorificato da migliaia di proseliti che lo celebrano nei “Club Forza Silvio“.
Bentornata Prima Repubblica
Non è la prima volta negli ultimi vent’anni che si insedia al potere un governo non eletto. Assolutamente no. Letta non era mica stato eletto, così come Monti. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, nella nostra Repubblica non si è mai insediato un governo eletto dal popolo. Perché il popolo non elegge il governo, elegge il parlamento. Il parlamento poi vota la fiducia al governo. Un governo il cui primo ministro è stato incaricato dal Presidente della Repubblica. Un po’ complicato, in effetti. Ecco perché la vox populi tuona quando sale a Palazzo Chigi qualcuno non candidato alle elezioni, qualcuno che non ha fatto campagna elettorale, che non c’era il suo nome scritto sulla scheda elettorale. Il popolo pretende di decidere qualcosa che al momento attuale,secondo la nostra architettura costituzionale, non può decidere. Ovvero il capo del governo. Per questo ci vuole una riforma istituzionale. Che sicuramente andrebbe fatta, ma ciò non giustifica il dichiarare illegittimo, o più semplicemente ripudiare un metodo di formazione del governo previsto dalla nostra Costituzione, in vigore da più di sessant’anni.
Ci siamo illusi nel ’92-’93 di aver superato la prima repubblica e di aver dato vita ad un nuovo inizio, la seconda repubblica, un posto dove il popolo elegge il capo del governo, basta con la vecchia classe politica e le riforme finalmente si faranno. Tutto ciò però non è avvenuto. La forma di governo presidenziale non ce l’abbiamo, le riforme non sono state fatte e in parlamento c’è gente che era presente già vent’anni fa e più. Prima e seconda repubblica sono solo un continuum dove prima il popolo sapeva di votare i partiti e di dover stare a guardare i loro giochetti senza avere nessuna possibilità di intervenire, e dopo il popolo vota di nuovo i partiti convinto che la sua scelta possa influire un po’ più di prima, ma deve ancora una volta stare a guardare i giochetti senza nessuna possibilità di intervenire. Inoltre con la riforma elettorale del 2005, il “porcellum”, la situazione è addirittura peggiorata, tanto che i parlamentari non vengono scelti dal popolo ma dalle segreterie dei partiti.
In realtà qualcosa è cambiato dalla prima alla seconda repubblica. Prima di tutto il sistema elettorale, che nel ’93, con la Legge Mattarella, passa da un sistema proporzionale puro ad uno misto al 75% maggioritario. Non si tratta di una modifica epocale, ma qualcosa ha contribuito a cambiare, soprattutto la tendenza a formare alleanze tra i partiti, le coalizioni. Non si è capito molto bene quale fosse stato il vantaggio di queste coalizioni visto che i partitini continuavano felicemente la loro esistenza e anzi riuscivano a contare anche qualcosa in più. Poi, come se non bastasse è arrivato il porcellum nel 2005 il quale ha trasformato il nostro sistema elettorale in qualcosa che nessuno sa bene come definire tanto che “porcata” è stata la migliore descrizione trovata.
Un’altra cosa che poi è cambiata dalla prima alla seconda repubblica è il modo di pervenire alla scelta del Presidente del Consiglio. Con la seconda repubblica sono nati innanzitutto i governi “tecnici”, in un certo senso responsabili di “aggiustare i conti”, prima per riuscire ad entrare nell’Unione Monetaria Europea (con Ciampi e Dini) e poi per cercare di non uscirne (con Monti). Per la prima volta venivano incaricati Presidenti del Consiglio non parlamentari, e quindi non eletti dal popolo. Inoltre, mentre in precedenza il nome da mandare a Palazzo Chigi veniva scelto dai partiti e sottoposto al Presidente della Repubblica che doveva solo formalmente incaricarlo, nella seconda repubblica la carica più alta dello Stato ha visto aumentare il suo potere decidendo in primo luogo il nome del Capo del governo. Ciò è avvenuto con Monti, la cui precedente designazione a senatore a vita faceva intravedere chiaramente le intenzioni di Napolitano, ed è avvenuto anche con Letta, scelto per la trasversalità degli apprezzamenti nei suoi confronti. Con la crisi dei partiti, la loro debolezza, la loro litigiosità, abbiamo potuto dunque vedere che il ruolo del Presidente della Repubblica è aumentato, peculiare caratteristica del nostro ordinamento (vedi post precedente per approfondimento).
Ma ora veniamo a Renzi. Renzi non è un “tecnico”, e non è nemmeno incaricato di portare avanti un governo di “larghe Intese”, di “transizione” o di “emergenza”. Renzi sarà a capo di un governo politico, nominato da Napolitano, votato dal parlamento, ma non eletto dal popolo. Nemmeno il suo partito, il PD, ha ottenuto consensi schiaccianti nelle ultime elezioni. Infatti, è stato il primo partito solo al Senato, ma non alla Camera, superato dal Movimento 5 Stelle. E tuttora i sondaggi, è vero che lo premiano come prima forza politica, ma a livello di coalizione, il centrosinistra, non è certo ce la possa fare se si dovessero tenere elezioni a breve. Ma questa eventualità sembra essersi definitivamente allontanata. A questo punto la risposta alla domanda che molti si stanno ponendo, e cioè perché Renzi ha deciso di accettare l’incarico di formare il governo senza passare delle elezioni sembra essere chiara. Nonostante lo stesso Renzi abbia già in precedenza dichiarato di diventare Presidente del Consiglio solo a seguito di elezioni che lo vedevano vincitore, il sindaco toscano è un personaggio molto pragmatico e realista. Sa infatti di non avere la certezza di vincere a delle probabili elezioni. Sa, invece, di contare su un appoggio abbastanza ampio in parlamento, che gli permetterebbe di realizzare le riforme che egli ha in mente. Se strategicamente questa sia la scelta giusta non è possibile ancora saperlo. La maggioranza che lo sosterrà potrà essere pure ampia, ma non solida, non di certo omogenea. Tutto dipenderà dall’esito dei suoi intenti: se riuscirà a realizzare le riforme, se lo spread scenderà ancora, se l’economia, anche con una certa dose di fortuna, ripartirà. E chissà se dalla prima o seconda repubblica che sia riusciremo finalmente ad approdare ad una repubblica normale.