Il diritto di non votare e quell’orribile quorum

referendum-696x298Ricorderemo il referendum del 17 aprile 2016 non solo per non aver raggiunto il quorum (cosa però non insolita negli ultimi anni), ma anche per le tante e velenosissime polemiche contro chi non ha votato e soprattutto chi ha invitato a non votare. Che l’invito all’astensione da parte del capo di governo o di altra carica pubblica sia una mossa inopportuna è sicuramente condivisibile, che rappresenti un reato punibile con il carcere forse un po’ meno, ma che ce la si prenda con chi ha deciso di non recarsi alle urne non è un atteggiamento degno di un paese libero e democratico. E questo non riguarda solo i referendum, dove con il non voto si assume una precisa posizione, ma tutte le consultazioni elettorali.

È errato dipingere l’astensionismo come un male assoluto da debellare, come una manifestazione di ignavia e di indifferenza da contrastare a tutti i costi. Molto spesso, invece, questo è frutto di una precisa scelta politica, una sincera espressione del processo democratico. È possibile individuare due motivi principali per i quali si ricorre all’astensionismo: per scarso interessamento e coinvolgimento alle questioni politiche o come atteggiamento critico nei confronti della classe politica e delle istituzioni. Nel primo caso l’elettore non esercita il proprio diritto di voto per mancanza di tempo e/o voglia nell’approfondire le questioni politiche. Tutti i cittadini italiani maggiori di 18 anni sono elettori ma saranno pure persone con interessi diversi dalla politica e con una inclinazione al pragmatismo che tende a mettere in secondo piano la partecipazione al voto quando si è presi da altri impegni. Si tratta di quella naturale “indifferenza” dell’uomo democratico individuata anni or sono dal filosofo francese Alexis de Tocqueville. In questa ottica l’astensione è un fenomeno normale e comprensibile, che può essere addirittura considerato positivo. D’altronde, meglio un non elettore che un elettore inconsapevole e male informato. La partecipazione politica, poi, non si manifesta solo con la partecipazione elettorale, ma ci sono altre forme, alle volte più efficaci, di prender parte alla vita politica di un paese.

L’astensionismo può anche essere espressione di una precisa scelta politica. Chi non vota può decidere di farlo per manifestare la sua sfiducia nei confronti della classe politica, delle istituzioni o anche delle elezioni in generale (vedi gli anarchici). Più comunemente, chi, seppur interessato alle vicende politiche, non si reca alle urne lo fa perché non trova partiti o candidati da votare. Questa situazione è anche conseguenza della fine delle ideologie e del declino dei partiti di massa. In Italia l’astensionismo segue questo trend: più aumenta la sfiducia degli italiani nei confronti della classe politica, più aumenta l’astensionismo.

Nel caso dei referendum, a questi motivi di astensione se ne aggiungono altri specifici. A giocare un ruolo fondamentale qui è il quesito: esso può essere troppo tecnico e quindi di difficile comprensione, può essere legato ad un tema troppo complicato e specifico, distante dalle esperienze individuali della maggioranza dei votanti. Tutto ciò contribuisce chiaramente a tenere i cittadini lontani dai seggi. Oppure ci possono essere problemi con l’informazione relativa al referendum. In particolare, ci può essere stata scarsa copertura mediatica della consultazione, che risulta invece essere di vitale importanza per i referendum, per via del fatto che non presentano la natura periodica e cadenzata delle tradizionali elezioni e vanno quindi annunciati con appositi spazi e tempi.

Se quindi, come è stato detto, l’astensione può manifestarsi come una scelta cercata e ponderata da parte di un elettorato consapevole, perché la nostra Costituzione prevede un quorum per considerare un referendum valido? Essenzialmente per evitare che una minoranza rovesci una legge approvata dal Parlamento.

Il problema è che un referendum così congegnato è viziato: un voto per il NO, infatti, va a favorire invece il SÌ dal momento che contribuisce a raggiungimento del quorum. Si finisce così con il mortificare la scelta di chi, conformemente alla previsione costituzionale di esercitare il voto in quanto “dovere civico” (art. 48), si reca ai seggi per esprimere la sua contrarietà all’abrogazione di una certa norma. Praticamente la scelta fatta al seggio non è quella espressa, e ciò genera un pericoloso cortocircuito per un paese democratico.

Questo non vuol dire che i nostri padri costituenti fossero degli sprovveduti e degli incompetenti. La scelta di prevedere un quorum della maggioranza degli aventi diritto è stata maturata in un’epoca in cui la partecipazione alle elezioni era molto alta e un’affluenza inferiore al 50% sarebbe stata in ogni caso considerata troppo esigua. Inoltre, il referendum è stato sostanzialmente concepito come uno strumento correttivo dell’azione del Parlamento, il quale resta il principale organo di produzione normativa, perché sede della sovranità popolare ottenuta mediante l’elezione dei suoi membri.

Tutto ciò però funziona quando c’è fiducia nella classe politica, come poteva essere nel momento in cui è nata la Repubblica, ma meno quando questa fiducia, per vari motivi, si è incrinata. Cosa fare allora? Due sono le possibili soluzioni. Una è quella di ridurre il quorum, per collegarlo alla partecipazione elettorale corrente. Questa è infatti la soluzione prevista dalla riforma costituzionale voluta dal governo, che si voterà proprio con un referendum in ottobre (ma questa volta senza quorum, perché non abrogativo). L’altra soluzione è quella di eliminare il quorum e lasciare la decisione in mano ai soli elettori che si recano ai seggi; a votanti decisi e informati, non eccessivamente minoritari vista la necessità iniziale di raccogliere le firme per l’indizione del referendum. Entrambe soluzioni valide, con i loro pro e contro, ma sicuramente migliori della situazione attuale e di quell’orribile quorum.

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