L’austerità che batte l’austerità: ecco la «sharing economy»

Sarà perché viviamo in un periodo di ristrettezze economiche, sarà perché il web 2.0 rende più facile le interazioni tra individui, e mettiamoci pure perché certi fenomeni vivono momenti di particolare tendenza. Da alcuni anni ormai la cosiddetta sharing economy sta conoscendo un vero e proprio boom. È impossibile non accorgersene: da “blablacar”, a “Uber”, al “coachsurfing” fino a “Airbnb”, ognuno di noi, seppur non essendone stato direttamente fruitore, ha almeno sentito parlare di questi servizi.


Cosa rende particolare questo fenomeno? È da rubricare come l’ultima moda del momento o sotto c’è qualcosa di più profondo? Alla base c’è sicuramente la crisi economica degli ultimi anni caratterizzata da una notevole contrazione dei consumi. Questa difficoltà nella spesa, unita alla voglia di non rinunciare ad alcuni abitudini tipiche di una società del benessere (viaggi, hobby), hanno segnato il successo di questi servizi che consentono di non rinunciare ai nostri svaghi, ma al tempo stesso di risparmiare. È come se all’austerità della spesa pubblica, quella che viene dall’alto, che impone tagli e sacrifici, si sia contrapposta un’austerità dal basso, che ottimizza la spesa, abbatte lo spreco, e trova comunque il modo di concedersi dei passatempi. Ma non è stata solo la congiuntura economica ad aver contribuito alla nascita della sharing economy. Tutti i servizi di condivisione menzionati, e molti altri ancora, nascono e crescono sul web, e potrebbero essere visti come una nuova evoluzione dei Reti Sociali che dal virtuale portano le esperienze al reale.

La questione è ora capire se la sharing economy è solo una moda passeggera o è invece l’inizio di un vero e proprio cambiamento della società e del sistema economico. Se questa «austerità dal basso» può, ad esempio, essere riconducibile a quella auspicata da Enrico Berlinguer nel suo controverso discorso del 1977 quando sosteneva che l’austerità è uno strumento per rivoluzionare una società «i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». La sharing economy come fine della società consumistica? Una possibile interpretazione. Certamente, è alla base della sharing economy l’idea di consumo collaborativo: un consumo più intelligente e più consapevole, particolarmente attento a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane.

Ma prima di Berlinguer, chi già parlava di qualcosa più simile all’attuale sharing economy era Karl Polanyi, padre della moderna antropologia economica. Nel suo famoso testo «La grande trasformazione», uscito nel 1944, Polanyi muove una forte critica e intravede l’inevitabile fallimento della «società di mercato»: una società dominata dall’economia, dove tutto è guadagno, fondata sullo scambio mercantile. Il contrario della sharing economy, dove l’accento ultimo, almeno in teoria, non viene posto sull’arricchimento monetario, ma sull’arricchimento personale, quello espresso in termini di esperienze. È difficile, in verità, prevedere se la tesi di Polanyi possa trovare effettiva applicazione nella sharing economy, se questo fenomeno cioè possa concretarsi in un sostanziale cambiamento della società, o se invece si tratta solo di un modo di risparmiare in tempo di ristrettezze. Per il momento, sappiamo solo che grazie alla Rete e alle nuove tecnologie stanno cambiando innanzitutto le relazioni tra gli individui, e che se due perfetti sconosciuti vogliono dividersi le spese del viaggio da Roma a Milano e al tempo stesso fare due chiacchiere possono benissimo farlo, senza scomodare né Polanyi e né Berlinguer.

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Perché la nostra è una generazione di stagisti

Le difficoltà del mondo del lavoro italiano sono ormai risapute e dibattute da tempo e dappertutto. Si parla di licenziamenti, di delocalizzazioni, di art. 18 cancellato e di disoccupazione dilagante. Ma ci sono storie che in pochi raccontano e situazioni che non solo la politica ma anche i sindacati sembrano ignorare. Sono le storie degli attuali ventenni italiani, la maggior parte dei quali un lavoro non ce l’ha, o se ce l’ha non è un vero lavoro. Essi sono gli stagisti, un popolo di centinaia di migliaia di ragazzi, spesso altamente formati, che terminati gli studi non trova altra porta d’accesso al mondo del lavoro se non quella dello stage.

Ma cos’è lo stage? Da dove viene? E perché va così tanto di moda? Lo stage non è un contratto di lavoro. Esso è semplicemente un «periodo di orientamento al lavoro e di formazione» come previsto nelle «Linee-guida in materia di tirocini» elaborate dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2013. Secondo la norma, lo stagista sarebbe un semplice ospite nell’azienda dove ha sede lo stage e sarebbe il soggetto che in questo rapporto trae il massimo vantaggio. Ma la realtà purtroppo non è questa. Nella maggior parte dei casi, infatti, lo stage si trasforma in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato dove allo stagista vengono assegnati compiti del tutto simili a quelli svolti da un normale dipendente a contratto della stessa azienda.

Ma il vero problema non sono i datori di lavoro che non rispettano la legge. Il vero problema è stata l’introduzione di un simile strumento. Lo stage non ha praticamente nessun senso. Se introdotto davvero per poter orientare i giovani nel mondo del lavoro, ciò deve avvenire all’interno del percorso di studi e non fino a 12 mesi dalla laurea, come attualmente previsto. In questo modo il neolaureato appena uscito dall’Università saprà già cosa fare. Se, invece, si tratta di un periodo di formazione volto all’inserimento in azienda, questo istituto già esiste e si chiama apprendistato. Se, infine, si tratta molto più banalmente di un periodo di prova al quale l’azienda sottopone la risorsa al fine di valutare se meritevole di continuare il rapporto lavorativo, esiste anche questo, e si chiama patto di prova.

Come visto, le alternative ci sono, e garantiscono un minimo di tutele anche a chi sia affaccia al mondo del lavoro. Con lo stage, invece, si allontanano i nuovi lavoratori da diritti acquisiti, di cui invece beneficiano gli attuali occupati, e si compie uno dei più grandi furti generazionali mai avuti prima. Alle imprese lo stage costa quasi zero mentre al dipendente costa la privazione di un reale stipendio basato sulle ore lavorate, ferie, permessi e ammortizzatori sociali. Si torna praticamente all’Ottocento: la nostra storia pare quella di un un novello «Oliver Twist».

Come mai è potuto succedere tutto questo? Lo stage ha visto la sua prima comparsa negli anni ’80, nel pieno dell’ebbrezza liberista e deregolamentatrice targata Reagan-Thatcher. Da quel momento in poi l’intero mercato del lavoro e l’intera economia mondiale sono cambiati. L’ondata di globalizzazione degli anni 2000, poi, ha contribuito ad acuire il fenomeno. Il modello che si è imposto è quello che privilegia il mercato e ignora i diritti delle persone. E la situazione attuale di precariato per migliaia di giovani non ne è che un naturale sviluppo. Tutti purtroppo sono rimasti a guardare, dalla politica, che si è ritirata sotto il forte peso del mondo imprenditoriale, ai sindacati, organizzazioni impolverate e autoreferenziali che hanno preferito difendere i lavoratori presenti e disinteressarsi totalmente di quelli futuri. Il problema è che la situazione attuale non è sostenibile. L’economia non può reggere all’infinito su una occupazione precaria e i sindacati se continuano così non avranno più nessuno da difendere. Per il momento a pagarne i conti sono gli attuali ventenni. Una storia triste e ingiusta. Ma che fortunatamente non è ancora finita.

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Podemos, ovvero quello che doveva essere il MoVimento 5 stelle

Due movimenti anti-casta, due leader carismatici, due Paesi attanagliati dalla crisi economica. Una origine comune ma destinazioni diverse, quelle di Podemos in Spagna e del MoVimento 5 stelle in Italia, due forze politiche recenti ed inconsuete nel panorama politico dei due Paesi che ne sono divenute le maggiori rivelazioni elettorali. Podemos, appena pochi mesi dopo la sua nascita avvenuta lo scorso febbraio, ha ottenuto l’8% alle elezioni europee ed ora è dato come primo partito secondo i sondaggi. Il MoVimento, un po’ più vecchiotto, fondato nel 2009, ha conosciuto il suo “boom” alle ultime elezioni politiche del febbraio 2013, ottenendo il 25%. Ma ora la musica sta cambiando per quest’ultimo.

Se la formazione di Pablo Iglesias sta vivendo il suo migliore momento, ciò non si può dire per la creazione di Beppe Grillo, che è reduce da una sonora batosta elettorale alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, e sconta contestazioni dalla base e divisioni interne. Storia di un declino prevedibile. Eppure il MoVimento poteva davvero essere quella rivoluzione nella politica italiana, quell’«apriscatole» che doveva smascherare e poi stracciare tutti i privilegi della casta, quel nuovo modo di fare politica, quella nuova idea di democrazia partecipativa che opera grazie alla rete, o almeno esserne un onesto tentativo. Invece no. La sbandierata democrazia diretta di Beppe Grillo si è trasformata nella tirannia di un capo-popolo che ha utilizzato l’agorà digitale come un plebiscito per l’approvazione di decisioni già prese (basti pensare che tutte le votazioni per espellere parlamentari alla fine hanno visto questo esito e sul sito del MoVimento non è possibile la presentazione di proposte di legge da parte degli iscritti).

Podemos invece sembra essere quel cambiamento. Sembra essere quel ciclone anti-casta e anti-privilegi, soprattutto per il fatto di essere una evoluzione del movimento degli indignados. Sembra anche essere quel nuovo modo di fare politica, inclusivo e partecipativo, che coniuga le votazioni web con l’attività dei più tradizionali circoli territoriali. In questi casi Podemos può dimostrare di avercela fatta rispetto al MoVimento, suo corrispettivo italiano. Una cosa importante però, oltre all’attuale riscontro di consensi, differenzia le due formazioni politiche. Podemos è apertamente ed esplicitamente un partito di sinistra. È stato messo in piedi da un documento firmato da intellettuali della sinistra spagnola e non si esclude per il futuro una alleanza con Izquierda Unida. 

Il movimento di Beppe Grillo invece ha cercato la strada della distinzione assoluta dall’attuale classe politica, intraprendendo quel tentativo di essere “oltre“, ma finendo invece per smarrire se stesso e tantissimi sostenitori.  Nato con posizioni fondamentalmente di sinistra (le battaglie ambientali, il pacifismo, l’idea di decrescita e di democrazia dal basso) ha finito col solleticare la pancia della destra xenofoba (si vedano le posizioni sull’immigrazione che dividono internamente il MoVimento) pur di racimolare voti facili. Forse se fosse stato più fedele alle origini e meno accentrato nelle decisioni, il MoVimento sarebbe potuto essere il Podemos italiano, che convince i suoi sostenitori e mira al governo. Ma forse è meglio dare tempo a questa nuova entità politica spagnola per confermarsi e cercare di non deludere tutte le aspettative. In fondo non hanno ancora dimostrato niente di eccezionale. Come il MoVimento 5 stelle. 

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Il grande balzo in avanti dei diritti civili

Non solo Jobs Act e 80 euro. L’attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l’acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt’ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l’opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.

Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l’omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l’un l’altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L’apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l’azione del governo in tal senso.

Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un’ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l’appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz’altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all’interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.

L’ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l’Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all’evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l’Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L’Italia, invece, risulta essere   sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell’oblio dei diritti.

È sempre e subito facile individuare dove l’Italia è un Paese arretrato. Lo è nella ricerca e nell’innovazione, nelle infrastrutture, nella lotta all’evasione e al malaffare (nel post precedente abbiamo invece visto come non lo sia nelle tutele dei lavoratori), ma forse non ci viene in mente che lo è anche nei diritti civili, e specialmente nei diritti delle coppie. È importante avere ben presente questo se vogliamo che il nostro Paese si voglia di nuovo mettere al passo con il resto d’Europa, è importante sapere che l’Italia deve ancora fare un grande balzo in avanti nei diritti civili.

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Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male

Immagine: formiche.net

Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l’articolo 18? Null’altro. L’articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l’articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po’ l’abitudine.

A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell’anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall’articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.


È tutto sbagliato. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ormai non esiste (quasi) più da due anni, esattamente da quando l’ex ministra Fornero ha introdotto la sua riforma che ha previsto, indovinate cosa, la possibilità del solo indennizzo al lavoratore in luogo del reintegro  per licenziamento dovuto a cause economiche. Cioè la stessa cosa di cui si discute tanto ora. La tutela reale della riforma Fornero viene mantenuta solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Chi voleva opporsi e scatenare il putiferio contro la riduzione dei diritti dei lavoratori avrebbe dovuto farlo due anni fa, non ora.
Ecco il quadro. Parlare di articolo 18 sembra ora irrimediabilmente inutile, a meno che non si voglia farlo per conservare quelle poche tutele che ancora restano, per i già citati licenziamenti discriminatori e disciplinari, tutele che potrebbero pericolosamente anch’esse essere smantellate. Ma anche quest’ultima strenua difesa potrebbe perdere di significato visto che, soprattutto per il licenziamento discriminatorio, è difficilissimo fornire delle prove, e quindi questa fattispecie veniva coperta dal reintegro previsto dal licenziamento economico. Ora che questa non c’è più, sarà più facile licenziare in qualsiasi caso.

La definitiva eliminazione della tutela reale prevista dall’articolo 18 indica quanto noi italiani siamo bravi a farci del male. Nell’unico campo normativo in cui l’Italia era all’avanguardia, la legislazione a tutela del lavoratori, siamo retrocessi. Nessun altro Paese europeo prevedeva una normativa così avanzata. In Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, c’è quasi praticamente soltanto l’indennizzo al lavoratore per licenziamento senza giustificato motivo. Diciamocelo, c’era un’unica intuizione, semplice e geniale, da fare: sanzionare i datori di lavoro che licenziano senza un giustificato motivo, e noi ci siamo arrivati. Nel 1970. E ora vogliamo tornare indietro. Una normale legge che va a punire le ingiustizie. Nessun diritto di licenziare viene tolto al datore di lavoro perché se ci sono validi motivi l’imprenditore potrà sempre e comunque licenziare, e ci mancherebbe altro. 

Ma ciò che è davvero curioso in tutta la vicenda è il ruolo che dovrebbe avere questo articolo 18 nella ripresa dell’economia e nella creazione di occupazione. Infatti, se il problema dell’Italia è la disoccupazione, perché fare una legge che facilita i licenziamenti? E non una che incoraggia le assunzioni? Stranezze. D’altronde, nessuno ormai, neppure gli imprenditori, credono davvero che l’articolo 18 sia un freno per la crescita economica del nostro Paese. Periodi di crescita ne abbiamo avuti tanti, nei vari decenni ’80, ’90, e 2000, e l’articolo 18 già c’era. Siamo la seconda manifattura d’Europa anche con l’articolo 18. 
Sembra chiaro, ormai, che la disputa sull’articolo 18 sia solo ed esclusivamente una contrapposizione politica, finalizzata all’eliminazione dell’avversario, e cioè detto chiaro e tondo Renzi che vuole sbarazzarsi definitivamente della componente più «tradizionalista» del suo partito. Chi vede la volontà del governo come quella finalmente di ridare dinamicità al mercato del lavoro e puntare a investimenti esteri che non aspettano altro che l’articolo 18 venga abolito per entrare nel nostro Paese, potrebbe sbagliarsi di grosso. Se fosse questo il fine, sarebbe un’ipotesi tanto migliore. Renzi, in realtà, così facendo vuole definitivamente concludere una epoca politica, quella della sinistra che va a braccetto con i sindacati per aprirne una nuova, la sua. 

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La Concordia è a posto (tutto il resto no)

È singolare tutto il can-can mediatico scoppiato intorno all’epilogo della vicenda della Costa Concordia, del suo mesto ritorno in porto, della celebrazione delle esequie di un ex gigante del mare, in attesa che questo enorme cadavere metallico venga definitivamente smembrato e rottamato, come per porre fine ad un lungo incubo.
La notizia è stata negli ultimi giorni in prima pagina su tutti i giornali ed in primo piano in tutti i notiziari televisivi. Notizia magari di rilievo, da commentare, ma sicuramente non di pari importanza che ne so, ad una sanguinosa guerra in Palestina, o ad una altrettanto grave e preoccupante situazione in Ucraina. E invece giorno dopo giorno, per tutta la durata del suo lento cammino la Concordia era lì placida, che solcava i nostri teleschermi mentre la voce del giornalista (a volte fuoricampo e a volte in primo piano davanti all’azzurro mar Tirreno) raccontava ammirata dei dettagli tecnico-ingegneristici dell’operazione, con immancabile il servizio che ripercorre tutta la vicenda fin dall’inizio (“vada a bordo, cazzo!”).
Ora, è innegabile che l’operazione, terminata con successo e realizzata da un consorzio italo-americano , sia stata un impresa unica e grandiosa nella storia del recupero di relitti fin dal parbuckling, il raddrizzamento della nave, ma tutto ciò non spiega l’eccessivo clamore, la suspence e le vittoriose celebrazioni  finali. L’arrivo della Concordia a Genova, una notizia che avrebbe dovuto al massimo conquistare le prime pagine dei giornali locali liguri, ha invece catalizzato l’attenzione di tutti i media italiani in tutta la durata dell’evento. Ma questo solo in Italia, e non altrove. Se il parbuckling aveva giustamente suscitato attenzione nei media stranieri, poco è stato invece l’interesse dimostrato da questi per il suo ultimo viaggio verso Genova. 
Il “Guardian” on-line ha però dedicato un interessante articolo alla vicenda nel quale rimarca la consistente e “jubilant” copertura dell’evento data dai media italiani, come se il successo dell’operazione dovesse dare un prezioso incoraggiamento ad un Paese che, ahinoi, si trova proprio nelle condizioni della Concordia, ma forse ancora adagiato su un fianco. In effetti, durante la rotazione della nave lo scorso gennaio, in molti hanno paragonato il raddrizzamento del relitto al raddrizzamento dell’Italia. Che fantasia.
Ma non è così che si salva un Paese. Non stando a guardare. Non con inutili maestose celebrazioni. Se l’euforia di una buona notizia serve a farci dimenticare le questioni davvero importanti che deve affrontare il nostro Paese, la necessità di riforme, la lotta agli sprechi e all’evasione fiscale, questa Italia non solo è ancora lontana dall’imboccare la strada per un porto sicuro, ma è nel bel mezzo del naufragio.
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La rivincita italiana in Europa

Strano ma vero noi italiani abbiamo finalmente qualcosa di cui gioire di fronte al resto dei Paesi europei. Il motivo di questo inaspettato sprazzo di orgoglio ci viene dato dai risultati delle elezioni europee. Al di là delle varie appartenenze politiche, della scelta elettorale che ognuno di noi ha espresso nelle urne, del “chi ha vinto” e “chi ha perso” tipico del dibattito politico italiano, se guardiamo con neutralità i dati e soprattutto se allarghiamo il campo visivo a tutto il terreno elettorale che in queste elezioni era l’Unione Europea, noteremo che ci sono alcune note positive dalle quali il nostro Paese può ripartire per tornare a giocare da protagonista la partita europea.

In ultimi anni in cui l’Italia, uno dei sei Paesi fondatori dell’attuale Unione, è stata bacchettata a più riprese per gli indisciplinati conti pubblici che hanno contribuito al malessere della moneta unica, finendo come bersaglio di sorrisetti ironici di capi di stato e pagelle piene di insufficienze della Commissione, ora finalmente il nostro Paese può avere principalmente tre motivi di cui farsi vanto di fronte alle altre forze europeiste nel continente e di fronte alle istituzioni dell’Unione. Prima di tutto, le elezioni europee dello scorso 25 maggio hanno dimostrato che l’Italia, insieme alla Germania, è uno dei maggiori Paesi europei  in cui gli euroscettici non hanno brillato; in secondo luogo che il Partito Democratico, ancora in questo caso insieme alla tedesca CDU se consideriamo i maggiori Paesi dell’Unione, è il partito di governo che è uscito indenne dalla partita elettorale; infine che Renzi risulta essere tra tutti i leader europeisti nel continente, quello più amato e che riscuote maggiore fiducia. Vediamo questi motivi singolarmente.

Per quanto riguarda il fenomeno dell’euroscetticismo si può benissimo dire che esso non ha sfondato in Italia, al contrario degli strepitosi risultati che ha ottenuto in alcuni altri Paesi (soprattutto UK e Francia). È vero, se proviamo a sommare il risultato del Movimento 5 Stelle con quello della Lega Nord otterremo una percentuale che è addirittura superiore a quella del Front National in Francia. Ma ci sono alcuni rilievi da fare riguardo il M5S, un movimento di cui non si può espressamente dire che sia antieuropeista (la questione è stata già trattata precedentemente su questo blog). Ponendo comunque che si fosse trattato  di una percentuale di euroscettici intorno al 25% (M5S + Lega), il risultato del PD (più altre formazioni europeiste) risulta imponente in rispetto. In Francia e in Gran Bretagna invece, i partiti euroscettici, Front National e UKIP, sono risultati essere i più votati.

Sempre in Francia e Gran Bretagna, i partiti al governo hanno ricevuto delle severe batoste. In realtà un po’ in tutta Europa i partiti al governo  sono usciti malconci da queste elezioni (in Portogallo ed in Grecia hanno perso, in Austria e nella stessa Germania hanno raccolto meno voti delle precedenti tornate elettorali). Solo il PD non solo è riuscito a vincere nettamente, ma ha addirittura ottenuto il miglior risultato di sempre per un partito di centrosinistra.  La vittoria del PD è dovuta essenzialmente ad una sola ragione: la forza carismatica del suo leader, Renzi. Egli risulta essere il politico più amato in Europa battendo quindi anche Angela Merkel, se con un (non troppo) ardito sforzo teorico vogliamo trasferire i voti ottenuti dal partito al proprio leader.

Questi tre dati tradotti non possono che avere un unico significato che a sua volta si traduce in una responsabilità: l’Italia ha l’opportunità di ritornare protagonista sul palcoscenico europeo sulla base di questi numeri che le consentono di ridare vigore alla spinta integrazionista. L’Italia si è dimostrata ancora una volta filoeuropea e ha riposto la sua fiducia su un uomo con solide convinzioni europeiste. Raramente, negli ultimi 50 anni, un capo di governo italiano ha avuto una migliore posizione per farsi ascoltare a Bruxelles. E questo sembra chiaro anche allo stesso Renzi che ha dichiarato che “l’Italia è ora in grado di incidere in Europa“. Il problema è ora come. Due elementi sono fondamentali in Europa per sperare di cambiare qualcosa: degli alleati fidati e una proposta precisa e concreta. E questi due elementi sono ovviamente fortemente interdipendenti in quanto degli alleati si raccolgono intorno ad una certa idea e posizione. Per ora, Renzi ha solo dichiarato che in Europa vuole proporre il modello della “terza via”, né con Merkel né con Schulz, e cioè né troppo austero ma neanche troppo keynesiano. Un discorso però che risulta essere troppo astratto e neutrale e che quindi non riesciurà a raccogliere alleanze. D’altro canto, prima di pensare a questo, c’è un altro aspetto che condiziona le possibilità di successo delle proposte dell’Italia in Europa, e cioè il successo delle proposte di Renzi in Italia: se le riforme non vengono effettivamente attuate in casa, la vittoria in trasferta è solo un miraggio.

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Uno contro tutti

A noi italiani piacciono le storie avvincenti. Ci piacciono i grandi scontri, le imprese, le gesta ardite. Ci piace l’epica. D’altronde siamo un popolo che ha sfornato grande materiale epico, da Virgilio a Ludovico Ariosto. Ci piacciono le storie eroiche e le persone straordinarie. Quanti eroi abbiamo osannato durante la storia in tutta la nostra penisola? Tanti. Da Masaniello a Garibaldi, essendo stato un territorio diviso e dominato, l’Italia ha conosciuto numerosissimi condottieri in lotta per la libertà e l’indipendenza. Ma anche dopo l’unità abbiamo continuato ad avere eroi. Mussolini era celebrato come un eroe. La mistica fascista, poi, esaltava l’eroismo. C’erano eroi anche nella Resistenza. Fino ad arrivare ai giorni nostri e agli eroi antimafia, come Falcone e Borsellino. L’utilizzo del termine eroe si è così infittito che ora ogni caduto italiano in guerra diviene tale. Insomma ce n’è per tutti i gusti: l’epopea continua, e continua anche sullo sfondo dell’attuale scenario politico. Riusciamo a romanzare qualsiasi situazione che persino la storia di Berlusconi è divenuta epica. Eroe contro la magistratura partigiana che lo perseguita e lo ostacola, ma lui non si arrende. Glorificato da migliaia di proseliti che lo celebrano nei “Club Forza Silvio“.

Ma ora un nuovo individuo solca la scena ed è pronto a combattere contro le avversità e le ingiustizie: si tratta del guascone di Firenze, messer Matteo Renzi, intervenuto per sgombrare il campo dai vecchi protagonisti in armature arrugginite e pesanti. Era proprio l’ora di una svolta nella nostra storia, di un nuovo capitolo. Basta con  personaggi anonimi e senza fegato. Basta con i noiosi Bersani, gli insipidi Letta e i perfidi D’Alema. Insulsi cortigiani incapaci di gestire il potere. Il reame ha bisogno di grandi riforme, altrimenti proseguirà la sua lenta decadenza e i villani potrebbero davvero arrabbiarsi, già c’è un Savonarola che aizza le folle e minaccia sciagure. Renzi è l’uomo giusto, il solo, uno contro tutti.
Potrà finire bene o male, ma questa storia già ci piace, è abbastanza avvincente. Ma non dimentichiamoci che questa non è finzione, è invece realtà. Il reame è l’Italia intera e i villani siamo noi. Che ben vengano i condottieri, che ben vengano gli eroi. Ma non facciamo l’errore di guardare alle vicende di casa nostra con fare troppo distaccato, con l’atteggiamento di chi guarda le fiction alla TV. Forse è anche perché siamo un popolo di telespettatori che ci piacciono tanto le storie. Peccato, perché l’epica è più bella seguita dai libri. 
Ma torniamo all’eroe della nostro racconto. Renzi ha notevoli qualità che gli possono permettere di uscire vittorioso nell’impresa di salvare il reame. Ha coraggio, e in tutte le storie che si rispettino l’uomo coraggioso ha un ruolo di rilievo. Ha una grande carisma, una grande abilità di comunicare. Ed ancora, che eroe potrà mai essere se non è amato dalla sua gente. Ha un piano. Ecco, questa caratteristica è molto importante, il nostro eroe non è un Don Chisciotte  che lotta contro i mulini a vento. Se riuscirà a mantenere la determinazione, se saprà giocarsi per bene le sue carte, potrà ben sperare di dare frutto alle sue gesta. L’approvazione del ddl che prevede l’abrogazione delle province  ne è un esempio: un impresa ardua, tentata da tanti,  che solo ora sembra concretizzarsi. Ma il nostro eroe, come nella vera epica, per poter portare a termine il suo intero piano, dovrà avere il coraggio di fare la cosa più importante che possa mai fare un eroe: immolarsi. Rischiare la propria vita (politica, in questo caso) per un bene superiore. Se non sarà compromesso dal posto comodo e dai pasti caldi della corte, e sarà imperterrito nel portare a termine la propria impresa, allora si che potremo dire di aver assistito ad una bella storia.  
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Perché ci piace “La grande bellezza”

No non è vero. Non a tutti è piaciuta “La grande bellezza”. La maggior parte non l’ha capita. Ma ci piace compiacerci per il suo successo, ce ne gongoliamo. È vero che la vittoria di Sorrentino agli Oscar è una riconoscimento importante per tutto il cinema italiano: la produzione è prevalentemente italiana, il cast pure, la storia soprattutto. La storia infatti. Perché questo film ha ottenuto tale successo? Perché proprio questo film e non altre pellicole recenti parimenti valide e belle? Ce ne sono, non stiamo mica messi così male. Il punto è che il film di Sorrentino in patria non ha ottenuto questo grande successo né a livello di critica e né a livello di incassi (il film addirittura non figura nella lista dei primi cento film per maggiore incasso in Italia).

“La grande bellezza” ha avuto un enorme successo all’estero. Prima dell’Oscar aveva anche vinto un Bafta (l’equivalente Oscar britannico), un Golden Globe (assegnato dalla stampa cinematografica statunitense) e quattro European Film Awards oltre ad altri premi. Cerchiamo di capire come ha fatto questo film ad ottenere tutto questo successo oltreconfine quando in Italia è stato accolto con tiepidezza e a tratti con disappunto e sconcerto. Potrebbe essere perché siamo il Paese dei Checco Zalone e da noi trionfano solo film facili e leggeri, niente di impegnativo. Potrebbe essere anche perché siamo un popolo masochista che non apprezza ciò che viene fatto in patria, che critica ciecamente, che è cattivo con se stesso, e cerca all’Estero e nelle produzioni holliwodiane la qualità del cinema. E questa non è una brutta caratteristica, aiuta a fare sempre di meglio, anche se di pari passo va accompagnata con la possibilità di riconoscere e premiare i meriti, particolarità che proprio noi in Italia no.

Oltre ai soliti meccanismi che portano i film ad aggiudicarsi premi di prestigio, come perfettamente descritti in un articolo di Wired,  secondo me c’è un altro motivo. E ritornando a quanto avevo già sottolineato più su, questo è la storia. La storia parla di bellezza, lo si evince fin da subito dal titolo. E noi all’Estero siamo famosi proprio per la nostra bellezza. La moda, i paesaggi, il design, è inutile persino ribadirlo. Questa storia a noi non ha emozionato perché parla di qualcosa a cui forse siam fin troppo abituati. Oppure, pericolosamente, perché parla di qualcosa che noi non sappiamo più riconoscere. Temo che sia anche per questa seconda ipotesi, e soprattutto riguardo ai giovani. In quanti vanno ancora in visita ai musei, in quanti passano una serata a teatro e quanti italiani preferiscono trascorrere le vacanze in una città d’arte? Sempre meno.

Per una volta un film italiano è riuscito a parlare della bellezza del nostro Paese. Non solo della bellezza, sia chiaro: facendo ciò il regista ha raccontato e dimostrato anche quanto di brutto c’è in Italia. I vizi, le esagerazioni, gli insipidi salotti, il chiacchiericcio dal quale infine il protagonista Jep Gambardella vuole fuggire nonostante ne avesse fatto parte da tempo: solo così è possibile ritornare alla Grande Bellezza. Che sono gli amori, i gesti sinceri, ma anche i paesaggi, una giornata di sole, il mare. Questo forse ci è sfuggito del film, e ci siamo invece fatti ingannare dalle scene talvolta grottesche e incomprensibili, dalla trama piuttosto confusa, da un racconto della mondanità per noi ai limiti dell’esagerazione.
Non si può negare che probabilmente all’estero questo film è piaciuto perché ha giocato molto con gli stereotipi: un popolo festaiolo, dove ci sono tante belle donne, pieno di salotti e molto facile agli eccessi. È facile vincere così fuori. Diamo agli altri quello che si aspettano di ricevere. Molto meno facile è vincere così in patria.

Noi preferiamo film dove ci autocommiseriamo, storie di insuccessi e di difficoltà che raccontano la nostra realtà così com’è davvero. Cose che è giusto raccontare ma che difficilmente possono piacere ad altri che non vivono le nostre stesse esperienze. Inoltre i nostri film sono quasi esclusivamente autoreferenziali, prodotti per essere consumati in patria, secondo una specie di autarchia cinematografica. Raccontano delle nostre differenze interne, di storie di paesello, giocano con i dialetti. Non si propongono di proiettarsi al di fuori dei confini nazionali. “La grande bellezza” invece ha cercato di fare questo. Ha voluto l’apprezzamento internazionale e l’ha ottenuto. Questo non capita molto spesso al nostro cinema, ma perché a noi in fondo va bene così.
E allora facciamoci piacere “La grande bellezza” e godiamoci questa vittoria e questo successo affinché ci ricordino che, nonostante tutto, siamo un Paese di grande bellezza.

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Bentornata Prima Repubblica

Non è la prima volta negli ultimi vent’anni che si insedia al potere un governo non eletto. Assolutamente no. Letta non era mica stato eletto, così come Monti. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, nella nostra Repubblica non si è mai insediato un governo eletto dal popolo. Perché il popolo non elegge il governo, elegge il parlamento. Il parlamento poi vota la fiducia al governo. Un governo il cui primo ministro è stato incaricato dal Presidente della Repubblica. Un po’ complicato, in effetti. Ecco perché la vox populi tuona quando sale a Palazzo Chigi qualcuno non candidato alle elezioni, qualcuno che non ha fatto campagna elettorale, che non c’era il suo nome scritto sulla scheda elettorale. Il popolo pretende di decidere qualcosa che al momento attuale,secondo la nostra architettura costituzionale, non può decidere. Ovvero il capo del governo. Per questo ci vuole una riforma istituzionale. Che sicuramente andrebbe fatta, ma ciò non giustifica il dichiarare illegittimo, o più semplicemente ripudiare un metodo di formazione del governo previsto dalla nostra Costituzione, in vigore da più di sessant’anni.

Ci siamo illusi nel ’92-’93 di aver superato la prima repubblica e di aver dato vita ad un nuovo inizio, la seconda repubblica, un posto dove il popolo elegge il capo del governo, basta con la vecchia classe politica e le riforme finalmente si faranno. Tutto ciò però non è avvenuto. La forma di governo presidenziale non ce l’abbiamo, le riforme non sono state fatte e in parlamento c’è gente che era presente già vent’anni fa e più. Prima e seconda repubblica sono solo un continuum dove prima il popolo sapeva di votare i partiti e di dover stare a guardare i loro giochetti senza avere nessuna possibilità di intervenire, e dopo il popolo vota di nuovo i partiti convinto che la sua scelta possa influire un po’ più di prima, ma deve ancora una volta stare a guardare i giochetti senza nessuna possibilità di intervenire. Inoltre con la riforma elettorale del 2005, il “porcellum”, la situazione è addirittura peggiorata, tanto che i parlamentari non vengono scelti dal popolo ma dalle segreterie dei partiti.

In realtà qualcosa è cambiato dalla prima alla seconda repubblica. Prima di tutto il sistema elettorale, che nel ’93, con la Legge Mattarella, passa da un sistema proporzionale puro ad uno misto al 75% maggioritario. Non si tratta di una modifica epocale, ma qualcosa ha contribuito a cambiare, soprattutto la tendenza a formare alleanze tra i partiti, le coalizioni. Non si è capito molto bene quale fosse stato il vantaggio di queste coalizioni visto che i partitini continuavano felicemente la loro esistenza e anzi riuscivano a contare anche qualcosa in più. Poi, come se non bastasse è arrivato il porcellum nel 2005 il quale ha trasformato il nostro sistema elettorale in qualcosa che nessuno sa bene come definire tanto che “porcata” è stata la migliore descrizione trovata.

Un’altra cosa che poi è cambiata dalla prima alla seconda repubblica è il modo di pervenire alla scelta del Presidente del Consiglio. Con la seconda repubblica sono nati innanzitutto i governi “tecnici”, in un certo senso responsabili di “aggiustare i conti”, prima per riuscire ad entrare nell’Unione Monetaria Europea (con Ciampi e Dini) e poi per cercare di non uscirne (con Monti). Per la prima volta venivano incaricati Presidenti del Consiglio non parlamentari, e quindi non eletti dal popolo. Inoltre, mentre in precedenza il nome da mandare a Palazzo Chigi veniva scelto dai partiti e sottoposto al Presidente della Repubblica che doveva solo formalmente incaricarlo, nella seconda repubblica la carica più alta dello Stato ha visto aumentare il suo potere decidendo in primo luogo il nome del Capo del governo. Ciò è avvenuto con Monti, la cui precedente designazione a senatore a vita faceva intravedere chiaramente le intenzioni di Napolitano, ed è avvenuto anche con Letta, scelto per la trasversalità degli apprezzamenti nei suoi confronti. Con la crisi dei partiti, la loro debolezza, la loro litigiosità, abbiamo potuto dunque vedere che il ruolo del Presidente della Repubblica è aumentato, peculiare caratteristica del nostro ordinamento (vedi post precedente per approfondimento).

Ma ora veniamo a Renzi. Renzi non è un “tecnico”, e non è nemmeno incaricato di portare avanti un governo di “larghe Intese”, di “transizione” o di “emergenza”. Renzi sarà a capo di un governo politico, nominato da Napolitano, votato dal parlamento, ma non eletto dal popolo. Nemmeno il suo partito, il PD, ha ottenuto consensi schiaccianti nelle ultime elezioni. Infatti, è stato il primo partito solo al Senato, ma non alla Camera, superato dal Movimento 5 Stelle. E tuttora i sondaggi, è vero che lo premiano come prima forza politica, ma a livello di coalizione, il centrosinistra, non è certo ce la possa fare se si dovessero tenere elezioni a breve. Ma questa eventualità sembra essersi definitivamente allontanata. A questo punto la risposta alla domanda che molti si stanno ponendo, e cioè perché Renzi ha deciso di accettare l’incarico di formare il governo senza passare delle elezioni sembra essere chiara. Nonostante lo stesso Renzi abbia già in precedenza dichiarato di diventare Presidente del Consiglio solo a seguito di elezioni che lo vedevano vincitore, il sindaco toscano è un personaggio molto pragmatico e realista. Sa infatti di non avere la certezza di vincere a delle probabili elezioni. Sa, invece, di contare su un appoggio abbastanza ampio in parlamento, che gli permetterebbe di realizzare le riforme che egli ha in mente. Se strategicamente questa sia la scelta giusta non è possibile ancora saperlo. La maggioranza che lo sosterrà potrà essere pure ampia, ma non solida, non di certo omogenea. Tutto dipenderà dall’esito dei suoi intenti: se riuscirà a realizzare le riforme, se lo spread scenderà ancora, se l’economia, anche con una certa dose di fortuna, ripartirà. E chissà se dalla prima o seconda repubblica che sia riusciremo finalmente ad approdare ad una repubblica normale.

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