Scettico dell’euroscettico

Si sa, queste prossime elezioni europee saranno quelle che secondo le impressioni di tutti i commentatori e di tutti gli esperti decreteranno una consistente affermazione dei partiti e movimenti euroscettici di tutto il vecchio continente. Proprio tutto. I populisti e antieuropeisti sono cresciuti in maniera impetuosa nei sondaggi, ma anche nelle ultime elezioni alle quali si sono presentati. I più importanti, tuttavia, sono tre, anche perché importanti sono i Paesi ai quali appartengono. Ovviamente c’è il nostro Movimento 5 stelle che però è più populista che euroscettico. Il suo euroscetticismo è una vetrina per attirare la rabbia e il malcontento diffuso che in qualche modo devono essere scaricati. L’Europa è pertanto il bersaglio più facile, ma lo è perché si tratta di elezioni europee, infatti nelle elezioni politiche la rabbia è stata scagliata contro la casta, e molto facilmente Grillo si lascia anche andare in singulti anti-italiani, vedi le recenti dichiarazioni in favore di chi ha fischiato l’inno nazionale alla finale di Coppa Italia. L’Euroscetticismo del Movimento 5 stelle non è definitivo né distintivo. Basti aggiungere che l’uscita dall’euro non è una condizione fondamentale del movimento, ma anzi è successiva solo ad un referendum che attesti la volontà del popolo italiano di abbandonare la moneta unica. Per il resto, il Movimento non ha espresso la benché minima intenzione di uscire dall’Unione Europea.

Gli altri partiti euroscettici forti si trovano in Francia e in Gran Bretagna. Nella Repubblica d’oltralpe il successo del Front National di Marine Le Pen non è più una sorpresa. Il partito nazionalista, infatti, ha ottenuto un grandi consensi alle ultime presidenziali con Mairne Le Pen e un ottimo risultato alle recenti amministrative. Il Front National, però, a differenza del Movimento 5 stelle italiano, ha ben chiare le sue idee in Europa: uscire immediatamente dall’euro e ripartire da una Europa di stati-nazione. Il suo successo in Francia, d’altra parte, è legato motivi simili a quelli che hanno portato al successo il movimento di Grillo: ha canalizzato il malcontento della popolazione contro il fallimento del governo in carica ed è cresciuto in concomitanza con lo sfacelo della destra moderata francese, rappresentata dall’UMP. Ma la forza politica neofascista (anche se ora rivisitata in chiave “responsabile”) non è nuova a successi di questo genere: già con il padre di Marine, Jean-Marie, il fronte era riuscito ad arrivare al ballottaggio con Chirac nelle presidenziali del 2002, ma l’affermazione del fronte è arrivata soprattutto in altre elezioni europee dove in più di una occasione in passato è riuscito ad andare oltre il 10%.

In Gran Bretagna l’Ukip di Nigel Farage gode parimenti di uno strepitoso momento di gloria. Alle elezioni amministrative dello scorso anno ha ottenuto il 23% dei consensi, a soli due punti percentuali dai conservatori di David Cameron, con i quali condividono la stessa tradizione politica. Il fenomeno dell’euroscetticismo in Gran Bretagna e molto più normale e consolidato, dal momento che la “perfida Albione” ha sempre voluto vantare un certo isolazionismo messo in cantina durante il travolgente momento dell’integrazione europea degli anni ’70, quando anche il regno della regina Elisabetta II è entrato a far parte della comunità, e poi resuscitato a piene forze con la crisi dell’Europa unita degli ultimi anni. Nigel Farage, anche lui, sa bene cosa vuole fare con l’Europa: salutarla, e uscire direttamente dall’Unione, visto che l’euro non può preoccuparlo dal momento che la Gran Bretagna non ne fa parte.

Nel resto dell’Europa, come detto, tutti i partiti estremisti ed euroscettici riscontrano un particolare successo. Succede in Ungheria con il partito di ultradestra Jobbik, che vuole che l’Ungheria esca dall’Unione, succede in Finlandia con i Veri Finladesi che, anche loro reduci da ultimi grandi successi elettorali, si scagliano contro l’aspetto solidale dell’Unione e tutti i progetti di salvataggiodi stati in difficoltà con i conti, succede in Svezia con i Democratici Svedesi, formazione politica di discreto successo che lotta contro l’immigrazione. In generale i partiti ed i movimenti euroscettici di successo sono populisti e di estrema destra, ma non mancano Paesi in cui l’antieuropeismo è rivendicazione politica dell’estrema sinistra come in Spagna con Izquierda Unita e in Portogallo con il partito comunista portoghese.

Ma non lasciamoci incantare dai numeri e dagli strilli. L’euroscetticismo dilagante oltre a non essere una assoluta novità e oltre ad andare abbastanza di moda vista la situazione di crisi economica e monetaria, è un fenomeno abbastanza esagerato nella sostanza. Uno sguardo un attimino più pacato dei dati, come quello fatto dal Guardian, ci dice che secondo i sondaggi in tutta Europa la percentuale di voto popolare in favore delle forze euroscettiche equivale al 30%, di soli 5 punti percentuali in più rispetto alle passate elezioni, e il numero dei seggi su cui siederanno parlamentari euroscettici potrebbe essere di 218 su 751, rappresentando poco più di un quarto del Parlamento di Strasburgo, che non è un risultato da buttare, ma senz’altro contenuto e contenibile. E questi sono solo sondaggi. I risultati, in effetti, potrebbero superare le aspettative, ma potrebbero anche andare al di sotto. In realtà il fenomeno ci appare di ampia portata perché trattato ormai quasi  ossessivamente dai media sulla scia dei successi riportati in patria da ognuno di questi partiti ma per vicende di politica interna, di sfiducia nei singoli governi nazionali, non certo per una ben precisa critica al modello di integrazione europeo. Il successo in patria dell’euroscettico non è dire lo stesso del successo in Europa. D’altronde stenta ad affermarsi una vera trasversalità  di tutte le forze euroscettiche; ci ha provato Marine Le Pen tendendo la mano a Grillo, ma si è vista rispondere picche per la pericolosità del progetto che potrebbe portare nocumento ad ogni singola formazione piuttosto che benefici vista l’eterogeneità vistosa tra tutti questi. In ultimo, tra i cinque candidati alla presidenza della Commissioneeuropea non ce n’è uno euroscettico, anzi tra loro è quasi una gara a chi chiede più Europa. Solo Tsipras, il leader greco di Syriza, la coalizione di partiti di estrema sinistra, è critico nei confronti di questa Europa, ma per lui l’Unione non è mai stata in discussione e nemmeno l’euro.

Il vero euroscetticismo, in fin dei conti, non si ritrova nei ben conosciuti movimenti populisti, nazionalisti o razzisti, bensì nell’astensione alle elezioni europee, la quale risulta elevatissima. Così come il dissenso verso un governo in carica viene anche dimostrato rinunciando a partecipare alle elezioni, in Europa la bassissima affluenza alle urne, che nel 2009, per esempio, si è attestata al 43%, è indicatore di quanto tutti siamo poco europei. Il motivo è da imputare anche ai media che destinano pochissimo spazio ad una vera informazione europea. I media di tutta europa, non solo italiani, sono dominati ancora dalla politica interna come se questa funzionasse in maniera pienamente indipendente non solo dalla politica europea, ma  dalla politica internazionale in generale. Ci sono stati ben due confronti tra i cinque candidati alla presidenza della commissione europea, ma questo avvenimento stenta a trovare risalto nella nostra tv, per esempio. Se continua così, se una cappa di disinformazione e un velo di apatia continueranno ad incombere su tutti i cittadini europei, i veri euroscettici non saranno quelli che strillano e che lanciano invettive contro Bruxelles, ma tutto il resto.

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L’uomo che fa tremare il mondo

Nella storia dell’umanità ci sono sempre stati individui singoli che, in diverse misure, hanno fatto paura al resto del mondo, a milioni e milioni di altre persone. Tiranni, condottieri, dittatori, terroristi: i modi per seminare paura sono tanti, e tutto può dipendere dalla brama, dalle manie, dal furore di un singolo individuo. Ne può bastare uno. Nell’attuale società globalizzata, complessa e interconnessa, dove un avvenimento in una parte del mondo può avere ripercussioni in un’altra parte a migliaia di chilometri di distanza, e dove le informazioni corrono più veloci del vento, la paura e la preoccupazione si disseminano con estrema facilità e gli effetti dei comportamenti di uomini potenti pure.

Non è facile emergere come uomini temibili al giorno d’oggi: c’è tanta concorrenza. Si può, ad esempio, essere presidenti degli Usa, cioè della (a dispetto di ciò che pensano i declinisti) più grande potenza mondiale. Ma non può essere questo il caso, la più grande potenza mondiale si considera anche la più grande democrazia mondiale ed il timore con la democrazia è un abbinamento di pessimo gusto. Oppure, se si vuole fare paura al mondo, si può essere a capo di un grande movimento terrorista internazionale come Al Qaida. Ed infatti fino al giorno della sua morte Bin Laden è stato l’uomo più ricercato, più temuto, più pericoloso al mondo. Ma ora non c’è più e i suoi successori sembrano non essere all’altezza del passato ruolo, tant’è che anche l’organizzazione fondamentalista islamica ne risente. Era toccato ad Ahmadinejād prendere il posto di cattivo, con la sua retorica antisionista, antioccidentale, e le repressioni antidemocratiche. Ma poi la fase “canaglia” dell’Iran è passata di moda, il potere religioso ha deciso che era meglio fermarsi un attimo, e il popolo persiano ha dimostrato, con le elezioni, che non si può rischiare di rimanere isolati dal resto del mondo. Dopodiché, sulla scena del crimine, è subentrato Bashar al-Assad, il sanguinario presidente della Siria, entità territoriale e politica ancora dall’incerto destino, tribolata da una guerra civile che si trascina lentamente con il suo pesante carico di vittime, abbandonata ormai dai riflettori dei principali media.

Ma l’uomo più temuto ora è un altro: una vecchia conoscenza della politica internazionale, un osso duro della politica russa, una volpe al Cremlino come non se ne vedevano da tempo. Si tratta del presidente della federazione russa Vladimir Putin, ovviamente. Ai vertici della politica russa da ben quattordici anni (e chissà per quanti altri ancora), Putin è riuscito a riportare la Federazione in un ruolo da comprimario nella determinazione degli equilibri geopolitici e geostrategici mondiali. Dichiarato da Forbes uomo più potente del mondo nel 2013, il presidente appassionato di judo e automobilismo, figura che si è fatta quasi mitica nel sentimento nazionalpopolare, è riuscito a far risorgere il Paese erede dell’Unione Sovietica, dal disordine della dissoluzione e dal collasso economico e finanziario degli anni ’90, portando a compimento quella transizione che per un decennio stentava a realizzarsi. Una transizione che doveva portare il Paese da un regime autoritario quale quello comunista e dirigista ad una democrazia di libero mercato. Ma questa transizione, sebbene corredata da riforme in senso liberista (alcune ultraliberiste), non ha portato alla formazione di una democrazia pluralista. Anzi, si è giunti alla affermazione di un nuovo sistema definito Putinismo, il quale consiste in un mix di gestione personale e accentrata dell’apparato statale, affidando le cariche principali a uomini fidati (quasi sempre siloviki), economia basata sulla bassa tassazione ma sostenuta spesa pubblica (le casse dello Stato si finanziano quasi esclusivamente dagli introiti derivanti dall’esportazione di energia), autoritarismo e antidemocraticismo che vuole sfociare in un sistema politico a partito unico, condito da un rinverdito patriottismo nostalgico dei fasti del comunismo. Ma si sbaglia se si vede nella Russia di Putin una riformulazione dell’Unione Sovietica, piuttosto la si può intendere come la Russia zarista, per l’aspetto autocratico del sistema politico, verticistico e subordinato alla figura del nuovo zar Putin (e non alla preminenza del partito), nonché per la natura della politica estera, di tipo espansionistico, mirata a quantomeno influenzare i “pezzi” del vecchio impero, nell’intento di riappropriarsi di quel grande spazio euroasiatico che definiva la grande potenza mondiale.

L’annessione della Crimea (penisola che si affaccia sul Mar Nero nel territorio ucraino ma a maggioranza russa), e i successivi tumulti nell’Est dell’Ucraina, dimostrano questo nuovo slancio espansionistico della politica estera russa e l’aspetto minaccioso che essa può avere nei confronti dell’Occidente che ora sembra ritornato ad essere blocco in un rinvigorito clima da guerra fredda. Ma è illusorio credere che si possa ricadere nelle logiche bipolari che hanno caratterizzato il mondo per cinquant’anni. L’ideologia non è più un motore incessante con il quale si giustificano scelte economiche, sociali e militari. L’uomo vuole adeguarsi sempre di più a questa modernità che gli permette di assicurarsi un soddisfacente status economico. La crescita e la stabilità economica, prima di tutto. E, richiamando un precedente esempio, è anche quello che è successo in Iran, dove le sanzioni economiche ONU e UE che hanno portato sull’orlo del baratro il Paese, hanno pesantemente condizionato gli ultimi risultati elettorali in favore del moderatismo. 

Una cosa importante da capire è se Putin faccia sul serio: se, cioè, il suo gesto riguardo l’annessione e, in generale la sua comprovata volontà di potenza perseguano un effettivo ribaltamento degli equilibri mondiali, una nuova sfida all’Occidente, oppure siano semplicemente estemporanee dimostrazioni di forza, figlie del narcisismo e della vanità dell’uomo solo al comando. Putin, scaltro personaggio cresciuto a pane (probabilmente anche poco) e KGB, uomo di potere e di istituzioni non può non essere dotato di una sufficiente dose di realismo che gli permetta di leggere la situazione. Spetterà al resto del mondo reagire comportandosi senza eccessivo clamore a certe velleitarie mosse putiniane (qui se ne parla meglio). Probabilmente, quindi, tremare di Putin è una eccessiva reazione se solo si cerca di mantenere la calma e la freddezza, tenere bassa l’adrenalina, e non aizzare il cane bizzoso. 

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Uno contro tutti

A noi italiani piacciono le storie avvincenti. Ci piacciono i grandi scontri, le imprese, le gesta ardite. Ci piace l’epica. D’altronde siamo un popolo che ha sfornato grande materiale epico, da Virgilio a Ludovico Ariosto. Ci piacciono le storie eroiche e le persone straordinarie. Quanti eroi abbiamo osannato durante la storia in tutta la nostra penisola? Tanti. Da Masaniello a Garibaldi, essendo stato un territorio diviso e dominato, l’Italia ha conosciuto numerosissimi condottieri in lotta per la libertà e l’indipendenza. Ma anche dopo l’unità abbiamo continuato ad avere eroi. Mussolini era celebrato come un eroe. La mistica fascista, poi, esaltava l’eroismo. C’erano eroi anche nella Resistenza. Fino ad arrivare ai giorni nostri e agli eroi antimafia, come Falcone e Borsellino. L’utilizzo del termine eroe si è così infittito che ora ogni caduto italiano in guerra diviene tale. Insomma ce n’è per tutti i gusti: l’epopea continua, e continua anche sullo sfondo dell’attuale scenario politico. Riusciamo a romanzare qualsiasi situazione che persino la storia di Berlusconi è divenuta epica. Eroe contro la magistratura partigiana che lo perseguita e lo ostacola, ma lui non si arrende. Glorificato da migliaia di proseliti che lo celebrano nei “Club Forza Silvio“.

Ma ora un nuovo individuo solca la scena ed è pronto a combattere contro le avversità e le ingiustizie: si tratta del guascone di Firenze, messer Matteo Renzi, intervenuto per sgombrare il campo dai vecchi protagonisti in armature arrugginite e pesanti. Era proprio l’ora di una svolta nella nostra storia, di un nuovo capitolo. Basta con  personaggi anonimi e senza fegato. Basta con i noiosi Bersani, gli insipidi Letta e i perfidi D’Alema. Insulsi cortigiani incapaci di gestire il potere. Il reame ha bisogno di grandi riforme, altrimenti proseguirà la sua lenta decadenza e i villani potrebbero davvero arrabbiarsi, già c’è un Savonarola che aizza le folle e minaccia sciagure. Renzi è l’uomo giusto, il solo, uno contro tutti.
Potrà finire bene o male, ma questa storia già ci piace, è abbastanza avvincente. Ma non dimentichiamoci che questa non è finzione, è invece realtà. Il reame è l’Italia intera e i villani siamo noi. Che ben vengano i condottieri, che ben vengano gli eroi. Ma non facciamo l’errore di guardare alle vicende di casa nostra con fare troppo distaccato, con l’atteggiamento di chi guarda le fiction alla TV. Forse è anche perché siamo un popolo di telespettatori che ci piacciono tanto le storie. Peccato, perché l’epica è più bella seguita dai libri. 
Ma torniamo all’eroe della nostro racconto. Renzi ha notevoli qualità che gli possono permettere di uscire vittorioso nell’impresa di salvare il reame. Ha coraggio, e in tutte le storie che si rispettino l’uomo coraggioso ha un ruolo di rilievo. Ha una grande carisma, una grande abilità di comunicare. Ed ancora, che eroe potrà mai essere se non è amato dalla sua gente. Ha un piano. Ecco, questa caratteristica è molto importante, il nostro eroe non è un Don Chisciotte  che lotta contro i mulini a vento. Se riuscirà a mantenere la determinazione, se saprà giocarsi per bene le sue carte, potrà ben sperare di dare frutto alle sue gesta. L’approvazione del ddl che prevede l’abrogazione delle province  ne è un esempio: un impresa ardua, tentata da tanti,  che solo ora sembra concretizzarsi. Ma il nostro eroe, come nella vera epica, per poter portare a termine il suo intero piano, dovrà avere il coraggio di fare la cosa più importante che possa mai fare un eroe: immolarsi. Rischiare la propria vita (politica, in questo caso) per un bene superiore. Se non sarà compromesso dal posto comodo e dai pasti caldi della corte, e sarà imperterrito nel portare a termine la propria impresa, allora si che potremo dire di aver assistito ad una bella storia.  
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Perché ci piace “La grande bellezza”

No non è vero. Non a tutti è piaciuta “La grande bellezza”. La maggior parte non l’ha capita. Ma ci piace compiacerci per il suo successo, ce ne gongoliamo. È vero che la vittoria di Sorrentino agli Oscar è una riconoscimento importante per tutto il cinema italiano: la produzione è prevalentemente italiana, il cast pure, la storia soprattutto. La storia infatti. Perché questo film ha ottenuto tale successo? Perché proprio questo film e non altre pellicole recenti parimenti valide e belle? Ce ne sono, non stiamo mica messi così male. Il punto è che il film di Sorrentino in patria non ha ottenuto questo grande successo né a livello di critica e né a livello di incassi (il film addirittura non figura nella lista dei primi cento film per maggiore incasso in Italia).

“La grande bellezza” ha avuto un enorme successo all’estero. Prima dell’Oscar aveva anche vinto un Bafta (l’equivalente Oscar britannico), un Golden Globe (assegnato dalla stampa cinematografica statunitense) e quattro European Film Awards oltre ad altri premi. Cerchiamo di capire come ha fatto questo film ad ottenere tutto questo successo oltreconfine quando in Italia è stato accolto con tiepidezza e a tratti con disappunto e sconcerto. Potrebbe essere perché siamo il Paese dei Checco Zalone e da noi trionfano solo film facili e leggeri, niente di impegnativo. Potrebbe essere anche perché siamo un popolo masochista che non apprezza ciò che viene fatto in patria, che critica ciecamente, che è cattivo con se stesso, e cerca all’Estero e nelle produzioni holliwodiane la qualità del cinema. E questa non è una brutta caratteristica, aiuta a fare sempre di meglio, anche se di pari passo va accompagnata con la possibilità di riconoscere e premiare i meriti, particolarità che proprio noi in Italia no.

Oltre ai soliti meccanismi che portano i film ad aggiudicarsi premi di prestigio, come perfettamente descritti in un articolo di Wired,  secondo me c’è un altro motivo. E ritornando a quanto avevo già sottolineato più su, questo è la storia. La storia parla di bellezza, lo si evince fin da subito dal titolo. E noi all’Estero siamo famosi proprio per la nostra bellezza. La moda, i paesaggi, il design, è inutile persino ribadirlo. Questa storia a noi non ha emozionato perché parla di qualcosa a cui forse siam fin troppo abituati. Oppure, pericolosamente, perché parla di qualcosa che noi non sappiamo più riconoscere. Temo che sia anche per questa seconda ipotesi, e soprattutto riguardo ai giovani. In quanti vanno ancora in visita ai musei, in quanti passano una serata a teatro e quanti italiani preferiscono trascorrere le vacanze in una città d’arte? Sempre meno.

Per una volta un film italiano è riuscito a parlare della bellezza del nostro Paese. Non solo della bellezza, sia chiaro: facendo ciò il regista ha raccontato e dimostrato anche quanto di brutto c’è in Italia. I vizi, le esagerazioni, gli insipidi salotti, il chiacchiericcio dal quale infine il protagonista Jep Gambardella vuole fuggire nonostante ne avesse fatto parte da tempo: solo così è possibile ritornare alla Grande Bellezza. Che sono gli amori, i gesti sinceri, ma anche i paesaggi, una giornata di sole, il mare. Questo forse ci è sfuggito del film, e ci siamo invece fatti ingannare dalle scene talvolta grottesche e incomprensibili, dalla trama piuttosto confusa, da un racconto della mondanità per noi ai limiti dell’esagerazione.
Non si può negare che probabilmente all’estero questo film è piaciuto perché ha giocato molto con gli stereotipi: un popolo festaiolo, dove ci sono tante belle donne, pieno di salotti e molto facile agli eccessi. È facile vincere così fuori. Diamo agli altri quello che si aspettano di ricevere. Molto meno facile è vincere così in patria.

Noi preferiamo film dove ci autocommiseriamo, storie di insuccessi e di difficoltà che raccontano la nostra realtà così com’è davvero. Cose che è giusto raccontare ma che difficilmente possono piacere ad altri che non vivono le nostre stesse esperienze. Inoltre i nostri film sono quasi esclusivamente autoreferenziali, prodotti per essere consumati in patria, secondo una specie di autarchia cinematografica. Raccontano delle nostre differenze interne, di storie di paesello, giocano con i dialetti. Non si propongono di proiettarsi al di fuori dei confini nazionali. “La grande bellezza” invece ha cercato di fare questo. Ha voluto l’apprezzamento internazionale e l’ha ottenuto. Questo non capita molto spesso al nostro cinema, ma perché a noi in fondo va bene così.
E allora facciamoci piacere “La grande bellezza” e godiamoci questa vittoria e questo successo affinché ci ricordino che, nonostante tutto, siamo un Paese di grande bellezza.

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Bentornata Prima Repubblica

Non è la prima volta negli ultimi vent’anni che si insedia al potere un governo non eletto. Assolutamente no. Letta non era mica stato eletto, così come Monti. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, nella nostra Repubblica non si è mai insediato un governo eletto dal popolo. Perché il popolo non elegge il governo, elegge il parlamento. Il parlamento poi vota la fiducia al governo. Un governo il cui primo ministro è stato incaricato dal Presidente della Repubblica. Un po’ complicato, in effetti. Ecco perché la vox populi tuona quando sale a Palazzo Chigi qualcuno non candidato alle elezioni, qualcuno che non ha fatto campagna elettorale, che non c’era il suo nome scritto sulla scheda elettorale. Il popolo pretende di decidere qualcosa che al momento attuale,secondo la nostra architettura costituzionale, non può decidere. Ovvero il capo del governo. Per questo ci vuole una riforma istituzionale. Che sicuramente andrebbe fatta, ma ciò non giustifica il dichiarare illegittimo, o più semplicemente ripudiare un metodo di formazione del governo previsto dalla nostra Costituzione, in vigore da più di sessant’anni.

Ci siamo illusi nel ’92-’93 di aver superato la prima repubblica e di aver dato vita ad un nuovo inizio, la seconda repubblica, un posto dove il popolo elegge il capo del governo, basta con la vecchia classe politica e le riforme finalmente si faranno. Tutto ciò però non è avvenuto. La forma di governo presidenziale non ce l’abbiamo, le riforme non sono state fatte e in parlamento c’è gente che era presente già vent’anni fa e più. Prima e seconda repubblica sono solo un continuum dove prima il popolo sapeva di votare i partiti e di dover stare a guardare i loro giochetti senza avere nessuna possibilità di intervenire, e dopo il popolo vota di nuovo i partiti convinto che la sua scelta possa influire un po’ più di prima, ma deve ancora una volta stare a guardare i giochetti senza nessuna possibilità di intervenire. Inoltre con la riforma elettorale del 2005, il “porcellum”, la situazione è addirittura peggiorata, tanto che i parlamentari non vengono scelti dal popolo ma dalle segreterie dei partiti.

In realtà qualcosa è cambiato dalla prima alla seconda repubblica. Prima di tutto il sistema elettorale, che nel ’93, con la Legge Mattarella, passa da un sistema proporzionale puro ad uno misto al 75% maggioritario. Non si tratta di una modifica epocale, ma qualcosa ha contribuito a cambiare, soprattutto la tendenza a formare alleanze tra i partiti, le coalizioni. Non si è capito molto bene quale fosse stato il vantaggio di queste coalizioni visto che i partitini continuavano felicemente la loro esistenza e anzi riuscivano a contare anche qualcosa in più. Poi, come se non bastasse è arrivato il porcellum nel 2005 il quale ha trasformato il nostro sistema elettorale in qualcosa che nessuno sa bene come definire tanto che “porcata” è stata la migliore descrizione trovata.

Un’altra cosa che poi è cambiata dalla prima alla seconda repubblica è il modo di pervenire alla scelta del Presidente del Consiglio. Con la seconda repubblica sono nati innanzitutto i governi “tecnici”, in un certo senso responsabili di “aggiustare i conti”, prima per riuscire ad entrare nell’Unione Monetaria Europea (con Ciampi e Dini) e poi per cercare di non uscirne (con Monti). Per la prima volta venivano incaricati Presidenti del Consiglio non parlamentari, e quindi non eletti dal popolo. Inoltre, mentre in precedenza il nome da mandare a Palazzo Chigi veniva scelto dai partiti e sottoposto al Presidente della Repubblica che doveva solo formalmente incaricarlo, nella seconda repubblica la carica più alta dello Stato ha visto aumentare il suo potere decidendo in primo luogo il nome del Capo del governo. Ciò è avvenuto con Monti, la cui precedente designazione a senatore a vita faceva intravedere chiaramente le intenzioni di Napolitano, ed è avvenuto anche con Letta, scelto per la trasversalità degli apprezzamenti nei suoi confronti. Con la crisi dei partiti, la loro debolezza, la loro litigiosità, abbiamo potuto dunque vedere che il ruolo del Presidente della Repubblica è aumentato, peculiare caratteristica del nostro ordinamento (vedi post precedente per approfondimento).

Ma ora veniamo a Renzi. Renzi non è un “tecnico”, e non è nemmeno incaricato di portare avanti un governo di “larghe Intese”, di “transizione” o di “emergenza”. Renzi sarà a capo di un governo politico, nominato da Napolitano, votato dal parlamento, ma non eletto dal popolo. Nemmeno il suo partito, il PD, ha ottenuto consensi schiaccianti nelle ultime elezioni. Infatti, è stato il primo partito solo al Senato, ma non alla Camera, superato dal Movimento 5 Stelle. E tuttora i sondaggi, è vero che lo premiano come prima forza politica, ma a livello di coalizione, il centrosinistra, non è certo ce la possa fare se si dovessero tenere elezioni a breve. Ma questa eventualità sembra essersi definitivamente allontanata. A questo punto la risposta alla domanda che molti si stanno ponendo, e cioè perché Renzi ha deciso di accettare l’incarico di formare il governo senza passare delle elezioni sembra essere chiara. Nonostante lo stesso Renzi abbia già in precedenza dichiarato di diventare Presidente del Consiglio solo a seguito di elezioni che lo vedevano vincitore, il sindaco toscano è un personaggio molto pragmatico e realista. Sa infatti di non avere la certezza di vincere a delle probabili elezioni. Sa, invece, di contare su un appoggio abbastanza ampio in parlamento, che gli permetterebbe di realizzare le riforme che egli ha in mente. Se strategicamente questa sia la scelta giusta non è possibile ancora saperlo. La maggioranza che lo sosterrà potrà essere pure ampia, ma non solida, non di certo omogenea. Tutto dipenderà dall’esito dei suoi intenti: se riuscirà a realizzare le riforme, se lo spread scenderà ancora, se l’economia, anche con una certa dose di fortuna, ripartirà. E chissà se dalla prima o seconda repubblica che sia riusciremo finalmente ad approdare ad una repubblica normale.

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Impicciamoci dell’impeachement

Cos’è l’impeachment? Perchè se ne parla così tanto? Perché una parola in lingua inglese per indicare qualcosa inerente al nostro ordinamento? Ecco forse è meglio partire da questa ultima domanda.
Ormai è noto l’uso massiccio di vocaboli di lingua inglese nella nostra lingua soprattutto per indicare argomenti e concetti di difficile traduzione, o più immediatamente comprensibili in lingua straniera. Ed ecco ad esempio le parole budget, standard, il concetto di spoil system, per non parlare di tutti i termini per l’informatica come wireless, password, account, download e chi più ne ha più ne metta. Ma questo non è il caso della parola impeachment, che letteralmente significa imputazione, ma che richiama un altro concetto che è quello dell’impeachment negli Stati Uniti, o in generale del mondo anglosassone, un istituto mediante il quale un ufficiale pubblico viene accusato della commissione di atti contrari all’esercizio delle sue funzioni, venendo così rinviato a giudizio.

In Italia si parla di impeachment solo nei confronti del Presidente della Repubblica, riferendosi ad un istituto specifico del nostro ordinamento che è la messa in stato di accusa del Presidente prevista dall’articolo 90 della Costituzione. Articolo che prevede due sole condizioni per l’avvio di questa procedura (la quale è alquanto lunga e complessa): alto tradimento e attentato alla costituzione. Perciò, più che altro per una questione di correttezza giuridica, parlare di impeachment in Italia risulta essere piuttosto inappropriato, più o meno come parlare di premier per indicare il Presidente del Consiglio dei Ministri. Fatta questa precisazione, perché il Presidente della Repubblica è attualmente nell’occhio del ciclone e soggetto all’avvio di una procedura di messa in stato di accusa?

Il polverone è stato sollevato, come prevedibile, dal Movimento 5 Stelle che già da tempo gridava a gran voce l’impeachment, prima ancora di questo piccolo scandalo scoppiato negli ultimi giorni che riguarda l’atteggiamento proprio del Presidente nella torrida estate del 2011 quando il nostro spread viaggiava nella stratosfera. Gli attacchi di Beppe Grillo, in realtà, sono molto più datati e risalgono fin da quando il Movimento del comico non era che una forza politica appena nata. Infatti Napolitano era il “Morfeo” che dormiva al Quirinale e si svegliava solo per firmare leggi vergogna come quella del Lodo Alfano. L’idea vera e propria di impeachment è nata poi quando il Movimento è entrato in Parlamento ed infatti la proposta è partita, come di consueto, dal blog di Grillo in un post dello scorso ottobre a firma di Paolo Becchi, ideologo del movimento a più riprese scaricato e riabilitato dal comico, invece padrone del Movimento. In quell’intervento, nel quale si citava Umberto Eco, veniva sottolineata la natura politica dell’azione di messa in stato di accusa del Presidente con la quale il Parlamento “deve rileggere la Costituzione ad alta voce e di fronte al Paese”. L’accusa principale riguardava il fatto che il Presidente esercitasse in modo non neutro le sue prerogative costituzionali.

È comprensibile come il Movimento 5 stella possa avercela con la figura del Presidente della Repubblica. Trattasi di una carica notoriamente poco democratica in quanto non viene eletto direttamente dai cittadini ma dal Parlamento tramite accordi tra i partiti. Tuttalpiù da quando Napolitano è stato eletto per la seconda volta, questa irruenza nei confronti del Presidente è naturalmente aumentata. Non era mai capitato prima che un Presidente che è già stato al Quirinale per sette anni, venga riconfermato per (teoricamente) un altro mandato. Considerata la durata media dei governi in Italia, quattordici anni al potere una persona sola possono corrispondere ad una anomalia per quanto siamo abituati. Ma questo non avverrà perché Napolitano è troppo vecchio e stanco ed ha accettato un nuovo mandato solo perché emergenziale.
A questo punto ci sarebbe da chiarire il ruolo che in generale il Presidente della Repubblica esercita nel nostro ordinamento. Abbiamo visto nell’ultimo periodo un estremo dilatarsi dei suoi poteri: da mero organo di garanzia costituzionale a organo governante. Questa possibilità corrisponde alla caratteristica a “fisarmonica” del potere del Presidente: si espande quando i partiti e il Parlamento non riescono a dare stabilità al sistema politico; si contrae quando i partiti e i governi sono sufficientemente forti per assicurare questa stabilità.

Perciò risulta essere inutile parlare di non rispetto della neutralità del suo potere, come dice Grillo: il potere è neutro solo se non è necessario intervenire per “salvare” l’Italia, ma non può esserlo se i partiti si ritrovano in seria difficoltà (di autorevolezza esterna e di coesione interna) e anzi essi stessi hanno permesso al Presidente di agire, di formare cioè un governo tecnico prima (quello di Monti) e un governo “del presidente” (quello di Letta) poi, e gli stessi partiti hanno inoltre supplicato Napolitano di rimanere Presidente ancora un altro po’.
L’accusa di complotto ordito da Napolitano nell’estate 2011 contro l’allora governo in carica di Berlusconi è solo una fantasiosa illazione, perché il Presidente, se aveva già contattato il professor Monti, in quel momento ha agito responsabilmente secondo delle sue prerogative, vista l’enorme difficoltà del governo in carica e la possibilità di una caduta di questo da un momento all’altro. D’altronde, lo stesso Beppe Grillo dal suo blog, in un post del 30 luglio, invocava nei confronti del Presidente la nomina di un nuovo governo per uscire dal pantano della crisi economica.

In conclusione, la richiesta del Movimento 5 Stelle di messa in stato di accusa del Presidente è stata archiviata fin da subito per infondatezza, e questo anche i grillini se lo aspettavano. La campagna politica, invece, che stanno conducendo contro la più alta carica dello Stato sembra non accennarsi al termine. Da una parte rientra nella classica azione di protesta contro tutto tutti che conduce il Movimento: Napolitano è parte di un sistema politico marcio, da eradicare. Dall’altra, la contestazione avviene contro la natura stessa della carica di Presidente Presidente della Repubblica, che un populismo esagerato come quello dei 5 Stelle
non può considerare con simpatia.

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lantipanico: istruzioni per l’uso

Salve,
questo è l’ennesimo blog, sulle ennesime notizie degli ennesimi problemi dell’Italia, dell’Italia nel mondo, e del mondo nell’Italia. Qui troverete commenti personali (ennesimi) basati su spunti e opinioni (devo ripetere un’altra volta ennesime?) sicuramente migliori e più valide delle mie. Solo una cosa, forse, è un po’ diversa da tutto il resto. Qui si cercherà di affrontare ogni argomento senza tabù, sfatando i miti, smantellando le montature, profanando le sacralità.Ciò, sia chiaro, non avverrà in maniera cinica e barbara. Si agirà sempre sulla base di chiari ragionamenti, tentando di guardare le cose da una diversa prospettiva, che non sia a tutti i costi quella dominante, o meglio, mainstream (come si dice oggi). Si tenterà, insomma, di sviluppare osservazioni quanto più esterne e distaccate possibile, al fine di evitare alcuni dei peggiori mali  del racconto delle vicende italiane: il coinvolgimento, la compromissione, il tifo.

L’informazione all’italiana, e soprattutto quella televisiva, per non parlare di alcuni effetti indesiderati di quella via web, presenta delle storture. In primo luogo, i fatti molto spesso, o forse molto più che i fatti, i contesti, non vengono spiegati. Specie nella televisione, le informazioni sono veloci e frammentarie, senza delle vere ricostruzioni, senza delle indagini. Nemmeno mi addentro a parlare dell’imparzialità o meno dell’informazione, basterebbe davvero solo una genuina ricomposizione dell’avvenuto per assistere ad un notevole salto di qualità. Conseguentemente a ciò, l’illustrazione dell’avvenuto non può pervenire a delle soluzioni perché non ne ha i mezzi, e se lo fa, questa risulta essere la più semplice, la più immediata, e molto spesso la più sbagliata.

A questa carenza si aggiunge un vizio: come ho già accennato, questo riguarda l‘estremo coinvolgimento, le preventive prese di posizione, la troppa passione che, per carità, in giuste dosi può anzi fare bene. L’informazione si fa molto spesso culto di una religione, rispetto di un dogma, atto di fede. Non posso pensarla diversamente da ciò che avevo già deciso di pensare. Nessuna obiezione. In questo modo il racconto della realtà diventa finto, inutile. E così mi scontro con chi ha deciso di pensarla diversamente da me senza però riuscire a raggiungere una soluzione, senza districare la matassa. D’altronde, siamo il popolo del gioco del calcio, dove la squadra per cui teniamo è sempre la più forte, mentre tutte le altre fanno schifo. In realtà si può vivere diversamente anche il tifo per il calcio, ma in realtà noi proprio non ci riusciamo.

Infine, un altro problema, ma sicuramente non l’ultimo dell’informazione in Italia, è una certa enfasi su questioni riconosciute importanti ma che in realtà non lo sono. Molto spesso ci si concentra troppo su un determinato aspetto di un problema lasciandosene sfuggire altri di ben più grande importanza. Questo può essere fatto per negligenza, ma anche per dolo. Si creano dei miti intorno ai quali ragionarci non è attività possibile: ed è così che l’euro ci ha rovinati, che gli immigrati portano solo danni, che mandiamo affanculo tutti i politici.

Per concludere, in questo blog troverete un piuttosto ambizioso (“velleitario”) tentativo di svincolarsi (“uscita di sicurezza”) dalla banalità e dall’enfatizzazione di chiacchieratissimi problemi (“psicodrammi”) dell’intero nostro Paese, ma anche del mondo tutto (“collettivi”).
Spero apprezziate il tentativo.

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